mercoledì 31 ottobre 2007

Il corpo di Cristo


Saliti sulla collina, lei mi si mette di fianco, io mi sposto di tre quarti dietro di lei, m’inginocchio e la guardo di sbieco.
Fa un giro su se stessa e mi tocca prima il fianco sinistro, poi quello destro, e ricomincia. Ma ch’è un ballo? E la sua lingua si mette a saettare.
Io interrompo, le unisco le mani, le prendo un orecchio, è sporco di cerume. Non glielo lecco e nemmeno glielo tiro. Mi aggrappo alle sue spalle.
Lei si vuole sganciare. Striscia fino a tre metri da me e m’invita guardando dritto verso lo sterno. Io credo di non capire.
Ci mettiamo a camminare con lo stesso identico passo, braccia mie intorno alle sue. Tentiamo di avere gli stessi disturbi di pancia prima di ridiscendere a valle. Ci fermiamo.
Lei mi si sposta obliquamente, io resto immobile ma a ginocchia piegate. Non tira vento. Allora decidiamo di ridiscendere ognuno per conto proprio.
E il corpo di Cristo si ripete.
Dopo aver armeggiato per una buona mezz’ora, finalmente si trova con il proiettile in canna. L’altro è già pronto da un’ora e deciso ad uccidere, però è secco allampanato, però non è biondo, però ha troppi problemi di carattere puramente casalingo.
Sta di fatto che ognuno dei due vuole prendersi il marciapiede dell’altro, ognuno dei due rimugina la propria ferocia. Non è poca e fa male, è gratuita ed è veramente appariscente. Adesso diventeranno dei bellissimi assassini.
Il corpo di Cristo deve attraversare, comincia una discussione di trincea.
Il corpo di Cristo si ripresenta.
Il corpo di Cristo è costretto a rivivere la sua notorietà.
Il pomeriggio è quello d’agosto, il morto c’è e per la strada non passa nessuno. Il rumore del morto sui tamburelli è noiosamente secco e regolare.
Palleggiarselo per passare il pomeriggio, per fare una cosa nuova invece di bere birra, invece di chiacchierare sfottere o guidare.
Il morto rimbalza lento e regolare, prigioniero della sua traiettoria, e quello è il solo rumore che si sente, e quello è già un divertimento antico.
E il corpo di Cristo non manca mai.
Mi ordinò di non contraddirlo, stava fingendo di essere un medico.Ed entrò bene nella parte. E poi.
E poi, una volta fuori del bar, mi raccontò di essere al corrente che certe donne usano ancora strappare con i denti i testicoli delle renne. Mi raccontò di averlo fatto anche lui. Ed è giusto così, aveva aggiunto.
Urlando in dialetto, disse che aveva pieno diritto di delirare, perché soffriva. Ed io con lui dovevo farlo.
Il corpo di Cristo è costretto ad essere onnipresente.
Allora si alzò la camicia e interpellò il parroco. Chiese se quelle costole gli ricordavano qualcosa, se per caso ci intravedeva una certa somiglianza. Il parroco niente, non ne voleva sapere, nemmeno davanti all’autentica corona di spine, le lacrime e le cicatrici.
Il corpo di Cristo manipolato, scopiazzato e inflazionato. Il corpo di Cristo dorato e fritto.
Dunque due donne si stanno massacrando di botte all’interno di una sanguinolenta macelleria. Pesano cento chili ognuna, i loro pugni scuotono il negozio, le carni, le coscienze e tutto l’edificio. Adesso tentano di strangolarsi ambedue.
La buona qualità dei cadaveri in vendita è poca cosa davanti allo spettacolo titanico di due colossi vivi in lotta. Adesso una vuole masticare l’altra e la terra trema, e nessuno dei presenti distoglie lo sguardo.
Il corpo di Cristo alla portata di qualsivoglia accadimento e stato d’animo.
Minacciarono allora di fucilarlo, lo misero al muro, lo girarono di spalle. Spararono tutti insieme. E il corpo di Cristo rideva a crepapelle, con le convulsioni addirittura.
Sta di fatto che l’avevano violentata al tramonto, aveva tredici anni e ancora i calzettoni. Il corpo di Cristo, per caso passando di là, cantava la sua illecita canzone.

E finalmente comincia a piovere


Il telefono a gettone, qualcuno deve dire di sì. Deve perché così si procede nel buco del sedere della notte.
E’ arrivata. Il dolore le apre le porte, l’annuncia e la precede. E’ avvolta nel sudario che io le ho regalato, il cappotto. L’iniezione perché?
Un ago ricurvo conficcato nella schiena per sfilarle via il liquido che le opprime il cervello. Un altro dottore lo spiega. Lo ascolto, mi mostro tranquillo e serio, guardo e mi provo. Devo stare e devo andarmene, il suo lamento è quello di un animale, è struggente. Ora è assopito, c’è ancora ma adesso è più sottile e insidioso del silenzio e del sogno.
In fondo al corridoio e poi a destra, seguendo la scia di un necrofilo odore. La camera è là dove la porta trasuda familiari dolori. E’ piegata su se stessa con gli occhi di vetro e il corpo di rami secchi. Non ha mangiato, non ha potuto.
Ora soffocherà, ora mi sembra che il suo cervello voglia schizzarle via. Esco di nuovo in cerca nel corridoio e incontro domande.
Il primario sa come dirle le cose. Si deve togliere ancora una volta la pressione, succhiarla via con un’iniezione nel midollo, altrimenti…ma così la malattia correrà più veloce.
Doranna morirai, ecco la tua famiglia, l’incredulità e la litania.
Non è detto che sia, non è ancora detto.
Guarda Doranna il coraggio dei condannati anche loro, sono pazienti, aspettano, sono aggrappati al mozzicone di sorriso ch’è loro rimasto appeso come una bava.
Deve urinare ed io devo sollevarla, è un corpo inerte, non ha più peso, sono di pietra pomice le sue ossa. Ecco l’iniezione di niente e mi vergogno di un maledetto omicida pensiero.
Io i guanti non li metto, io faccio parte del suo già scritto destino.
Chi sta chiamando? Le sue urla sono stridule, devo proteggermi con le mani la testa. Prego, arriva la notte che fuori di qui è diversa.
Ma lei non dorme, impazzisce lei. Esco nel corridoio e sono seguito dalla faccia assorta di un ammalato che fuma e trascina se stesso, parla al suo braccio, gli spiega cosa presto accadrà. Nella stanza in fondo una radio ancora accesa per tutto dimenticare per ancora ubriacarsi di vita e di parole.
L’inferno è questo, l’inferno è davvero così. Mi volto per tornare indietro e ritentare.
Padre nostro che sei nei cieli…dacci oggi, liberaci, fa qualcosa, non farci soffrire così tanto. Uccidici con un colpo solo. E il dolore pare che si fermi a riflettere, poi un’altra voce, non la sua, un chiacchierare fitto e sommesso di bimba.
Allora mi scosto piano e mi stendo a dormire sull’altro letto, con le tempie che bruciano. Il tempo di chiuderli e gli occhi si riaprono di scatto. Lei mi è davanti dritta sulle sue gambe. Il lungo sogno si sta prendendo gioco di me.
Vuole dormirmi accanto, vuole fare l’amore. E’ stesa e in piedi, sono due. Ma le piaghe, ma non posso tenerla. Ricordo i suoi baci fino alla mattina.
La mattina con l’odore del disinfettante. Padre nostro, Doranna è in coma senza di me. Sembra che dorma, non può muoversi e non può sentire. Un passo avanti e c’è la morte.
Il mio braccio destro non si muove e il suo viso è coperto dalla maschera d’ossigeno. Lì ci sono i parenti e di fianco gli amici, tutti più vecchi. Le loro immagini sono di cera, ed io ripeto il suo nome dentro di me come un disco rotto.
Ma un dito si è mosso ed è diverso il ritmo del respiro. E’ viva, è sveglia, ascolta stupita un applauso.
Ma proprio non vuole mangiare più e adesso chiacchera fitto e con l’inconscio di fuori, scatenato e oscenamente libero, fa scempio di sé in un bisbiglio. Pausa. Un rantolo oppure il gorgogliare di un sonno improvviso.
Forse pioverà, dovrà pur piovere prima o poi. Poi un urlo forte e lungo.
- Buongiorno dottore, si è addormentata nuovamente –
- Si, d’accordo, ma sembra un altro coma –
Ci vuole pazienza Doranna, non è ancora finita. In barella e di corsa lungo i viali dell’ospedale, fin dentro il tunnel della Tac. Sì, però bisogna rispettare la fila.
Si risveglia, spalanca gli occhi, è lucida e sorride. Addirittura chiede una sigaretta. Il mio cuore in balia, affonda e risale a galla, sbattuto sugli scogli e rimesso in gioco. Il mio cuore facilmente si confonde.
Così l’urlo rinasce dal basso, crepando l’ultimo debole sospiro di sollievo, raggiungendo il suo acuto contro chiunque non ne vuole sapere. Ognuno nell’atroce c’è spinto per forza.
Più il dolore le spacca la testa e le fiacca la ragione, meno gli infermieri si fanno vedere davanti alla sua porta. La punizione in questa stanza è padrona, c’è tutto il male che si merita certa gente. Aspettiamo e il letto si libererà.
- Quell’infermiere più bianco, lui l’ha detto…che se muoio non gliene grega. E’ inutile che chiamo –
Senza guanti asciugo il consumarsi del suo corpo, senza guanti continuo ad accarezzare le sue efelidi. Quanto tempo ancora per me?
L’ago ricurvo nella schiena assolutamente domani, perché domani è il suo compleanno, un giorno che dev’essere senza dolore. Aiuto a sollevare le sue piaghe, mettiamo a sedere il corpo di pupazzo snodabile.
L’ago non vuole entrare, scivola. Il dottore, spaventato, pugnala la seconda volta e scappa.
La grande finestra illumina le medicine in parata sul davanzale, illumina il letto, ormai munito di sbarre inutili, e accende quello che rimane di lei.
- Buon compleanno –
- E’ buio, apri la finestra ch’è buio –
La finestra è spalancata e di luce ce n’è tanta, è addirittura una splendida giornata. E allora…
E’ tanto che non piove. Quando?
L’anello che le ho regalato ha una pietra che cambia di colore, che imprigiona al suo interno una stella. Venature rosse, celesti e viola, fantastiche ragnatele che giocano e s’intrecciano, che dovrebbero aiutarla a non avere paura. Glielo metto al dito.
- Che pietra è, c’è la pietra? Per favore apri la finestra.-
Una scatola di matite colorate, una bottiglia di profumo e un paio di calzettoni di un magnifico giallo. Sono i regali dello sconforto famigliare. E ancora un libro, tutto sul letto, e la beffa pure.
Un dolore nuovo e rauco ancora di più, vuole festeggiare. E ad aspettare non è disposto.
- Qui c’è anche la torta –
Il bianco sgretolato del soffitto, l’intonaco gonfio e vecchio, e quello grattato volutamente via. Quel bianco non potrò mai dimenticarlo. Ovunque il colore dell’agonia, nella stanza, in gola, nei corridoi e nella pancia, nelle gambe e nell’infermeria, nel cuore e nei gabinetti. Quel bianco lercio delle scale.
Chiudo gli occhi ma il bianco rimane lì, è un oceano di sofferenza e di sgarbato destino. Alla deriva immersi in quel fetido bianco. E il prete nero, ecco il segnale.
I ragazzi nel lungo corridoio, ancora per poco. La condanna di Dio. Il prete nero esce e noi entriamo tutti.
Portate via la pena e le parole, io e lei abbiamo ancora bisogno di tempo. E guardo la sua vita, guardo l’inutile luce che proviene dalla finestra, guardo una grande macchia sul muro, proprio sopra di me.
- Non ho visto i regali, bisogna che me li racconti –
E la grande macchia comincia a muoversi, si trasforma, pulsa, batte simile a un cuore, profondamente e lentamente, lentamente sempre di più. Mi accorgo di un silenzio improvviso.
Non si lamenta, non geme, non delira. La sorpresa della sua mano leggera dentro i capelli mi fa drizzare la pelle. Il buio negli occhi di tuttie due, sfiniti, fino all’alba e nel mezzo delle pulizie del mattino. Avvolti dall’odore del disinfettante.
La prima colazione non vuole scenderle in gola. La visita dei genitori e delle sorelle. Il dottore ed un altro momento solenne per noi due. Il dolore è…scomparso.
- Ho ancora sonno, quando mi sveglio poi parliamo ancora –
La maschera d’ossigeno, la faccia dispiaciuta di un altro giovane medico. Le tengo la mano stretta, finalmente.
Finalmente comincia a piovere.
E’ Febbraio, è mattina. Doranna è morta.

sciocchezze



E’ grosso, è pesante, è largo. E’ quasi calvo, è bitorzoluto. Ha un naso informe, un fungo. Ha gli occhi da bue, le gambe sono corte, i piedi eccessivi.
Si arrampica soffiando e soffrendo sulla terza vettura. Si ferma ingordo di ossigeno, si asciuga. Deve ancora superare il secondo scalino, ch’è troppo alto, ch’è irraggiungibile.
Arranca lungo il corridoio, troppo stretto per lui. Trascina appresso il cadavere, la valigia troppo gonfia. Io sono lì che fumo e penso, vedo e stravedo, non mi sento bene e parto, e guardo che cosa? E vedo e combatto con la mia mente dispettosa.
Lo scompartimento al centro del vagone va bene, è il più caldo, è lontano dalle ruote, ed è vuoto. L’uomo sistema la valigia in terra, a sollevarla nemmeno ci prova. Chiude la porta scorrevole e tira le tende, con affanno.
Riprende fiato e decide. Sistema la sua grande pancia, la incastra nel posto accanto al finestrino, quello favorevole al senso di marcia.
Ma l’aria è irrespirabile, ma la polvere è regina, ma il finestrino bisognerebbe aprirlo, ma la giacca e i pantaloni incastrati e arrotolati così finiranno per strozzarlo. Si slaccia, si divincola, suda.
Stremato, lascia cadere le braccia sulla montagna di grasso. Poi appoggia le pieghe del mento, la faccia si affloscia e segue.
Degli occhi aperti e bovini rimane una fessura. Della bocca un’apertura umida e grassa, una schiuma bianca sugli angoli. Il respiro è quello del dinosauro.
Si riempie il vagone, una donna si ferma davanti allo scompartimento di mezzo.
E’ senza età, grigia e scavata. Non ha colori addosso, è vestita di vecchio. Guarda attraverso il vetro e le tende l’immobile pachiderma, quell’unico viaggiatore. Apre, chiede forse permesso, entra.
Per sistemare la sua valigia in alto avrebbe bisogno d’aiuto, guarda l’uomo e lascia il bagaglio in terra. Siede se stessa davanti al finestrino, di fronte a quella cosa che respira male, che non accenna nemmeno ad un segno, che non apre di più le sue fessure.
La donna non si toglie il fazzoletto che la nasconde, si volta verso il finestrino, senza vedere. Di seguito posa i suoi occhi in terra, sulle calze scure, sul pavimento rivestito di brutta plastica, sui grandi piedi senza vita dell’uomo.
Manca poco alla partenza, un terzo viaggiatore si affaccia alla porta scorrevole. I posti liberi ci stanno.
La donna si volta a guardare, poi riporta i suoi occhi in basso. Il viaggiatore spaventato rinuncia. E così altri, una famiglia intera. Aprono e chiudono, sicuri della risposta. Si soffermano e si sorprendono del terrore dei loro figlioli. Raccolgono le voci e le loro valige e se ne vanno.
L’uomo resta nella sua incastrata posizione. Lei nella medesima se stessa.
Il treno è gremito, i corridoi pulsano, i saluti, i nomi, le bocche. Si chiudono le porte, il fischio, la nuova situazione dello stomaco, lo strattone, il rumore caratteristico. Il treno è partito.
Il pachiderma, incastonato e ipnotizzato nel suo grasso, accenna a una variazione, un respiro diverso. Una virgola di bava. Ma gli occhi rimangono fessure, ma il sudore è lo stesso, ma i movimenti non ci sono.
La donna fruga svogliatamente negli anfratti della propria borsa anziana, ne estrae con cautela una scatola di biscotti, scarta e biascica con ritmo impersonale. Automaticamente alza gli occhi avanti a sé, come se fosse solamente necessario per ingoiare. Cosa crede di aver visto?
E’ sempre seduto, ma è dritto sul tronco, pachiderma non è più. Ha il torace possente, ha due mani nobili e feroci, le sue unghie sono artigli ed è intento a fumare un sigaro fuori misura.
Sul suo braccio sinistro è appollaiato un curioso animale, metà felino e metà uccello, il polso destro è racchiuso in un pesante bracciale prezioso. La testa è di leone, il suo sguardo regale domina tutto. Sogghigna? Sopra quell’imponente testa di animale un cappello, come una corona. Ed anche i vestiti non sono più quelli del sonnolento pachiderma, ora indossa un doppio petto con bottoni decorati, il colletto della camicia è rigido e splende.
Lei, spaventata, lascia cadere i biscotti e la borsa. Non urla, perché gli occhi dell’uomo leone incrociano, incantano e fulminano i suoi.
Poi il morso si allenta, la donna si piega, le mani riescono ad alzarsi e aiutare la faccia. Tra le dita serrate una fessura, e il pachiderma è nuovamente incastrato al suo posto, immobile e grasso. La donna, inebetita, stringe se stessa nella sua poltrona, mimetizzandosi il più possibile all’interno del fazzoletto.
Alla porta scorrevole si avvicina un altro passeggero, stanco distare in piedi e deciso, decisamente a sedersi. Guarda all’interno prima di farsi valere.
L’uomo leone tiene, sulle ginocchia, una giovane donna dalla carne rosa, è vestita di veli ed ha le catene ai polsi. I capelli, lunghi e sciolti, fluttuano e si contorcono come tentacoli nello spazio insalubre. Gli occhi orientali, gli occhi asserviti completamente.
Ora l’uomo leone la solleva e la distende, ora libera i seni dal velo, ora impugna una frusta. La bocca di lei si spalanca dal piacere. I denti del leone scoperti, la gola in tutta la sua profondità, un lungo ruggito, un coito, una risata agghiacciante. Un lampo negli occhi di ambedue.
Un simile spettacolo in un treno affollato di gente, non può, non deve passare inosservato. E il controllore è già là, fa scorrere la porta ed entra.
La donna, sempre racchiusa, forse con qualche anno di più, sta squartando lentamente un’arancia. E’ sempre lì il pachiderma, nell’incastro iniziale, con la sola differenza che adesso gronda, è inzuppato di sudore.
Il controllore si richiude la porta scorrevole alle spalle. Ma ancora non esce, ma quanto ci impiega a controllare? Il solito passeggero, impaurito, ma curioso per forza, ma in apprensione per la sua immaginazione, si decide e si affaccia.
L’uomo leone è vicino al vetro e sorride beffardo con tutti quanti i suoi denti. Mostra una testa mozza, ancora sanguinante e incredula. La testa del signor controllore.
Non può essere veramente vero, il passeggero vorrebbe urlarlo a tutti i presenti. E se per caso è solo un delirio della stanchezza? Aggrappato alla sua valigia, passa frettolosamente nel seguente vagone.
Il treno rallenta, si ferma e frena. Si scende e si sale, ci si intralcia e si riparte.
La porta dello scompartimento di mezzo, nella terza vettura, rumorosamente si riapre. Un grande soprabito infreddolito ha intenzione,chiede di prendere posto. Con lui una giovane, sua figlia probabilmente, sorridente, è trasparente.
Un’elegante donna d’altri tempi, vestita di pieghe e d’intrighi, li accoglie con un teatrale inchino, minaccioso per l’esasperata lentezza.
Dietro la porta scorrevole qualcosa di scarnificato e imputridito. E’ immobile, in bella posa, con quello che rimane del suo braccio, in alto. Brandelli della sua pelle dondolano in bilico e puzzano davvero. Un garbo, un’accoglienza in più. La porta scorrevole si richiude e succhia dentro i nuovi arrivati.
Se qualcuno non avesse la voglia e la curiosità di sbirciare attraverso, non riconoscerebbe di sicuro l’ordinario scompartimento di seconda classe. Vedrebbe tappeti e arazzi, quadri d’autore e candelabri, stucchi ed antenati. Chi insistesse a guardare, vedrebbe un mostro surreale, né il leone e nemmeno il pachiderma.
Un rettile alato, un iguana con la faccia di pipistrello, sta possedendo su di un bel tappeto il nuovo viaggiatore. La donna elegante che ha recitato gli onori di casa, che si prodiga intorno, possiede ali di pipistrello anch’essa. Ubbidiente ed attenta con il mostro suo signore.
Ma dov’è la giovane e limpida figliola della vittima nuova? Si contorce. E’ nuda e si contorce. E’ serpente ubbidiente al suo padrone ancora una volta leone. Si muove balla e promette, di sbranare il padre.
Ma no, la donna seduta accanto al finestrino è sempre racchiusa nel suo fazzoletto. E’ curva e inebetita, resiste sempre di meno al sono. Il pachiderma, di fronte a lei, ha cambiato posizione, è steso pesantemente sopra il proprio braccio. Dalla bocca spalancata l’aria entra ed esce con fastidioso fragore. Gli occhi né chiusi né aperti. Lo scompartimento è sempre quello, sdrucito e freddo, sbiadito e polveroso, in più un ben visibile fetore di chiuso e di alito pesante. Nessun quadro, nessun tappeto, nemmeno un candelabro.
Nulla di strano per il secondo controllore invocato da altre facce che lo spalleggiano.
Allora il pachiderma risorge, tossisce e si scuote, recupera faticosamente il suo braccio, si disincaglia, si tira su. Cerca il biglietto ostacolato dal grasso delle mani. La donna può anche sorridere, ha il biglietto e lo mostra.
I signori non viaggiano insieme, addirittura non si conoscono. I signori vanno ambedue verso il sud. Il viaggio continua.
Il viaggio si sviluppa. Il treno entra nelle fauci di una lunga galleria. Nel compartimento di mezzo, gemiti e lamenti vincono il buio e il frastuono delle ruote. Un’agghiacciante risata si unisce alla velocità.
Sciocchezze. Il treno si precipita fuori dell’oscurità. Dal vetro della porta scorrevole, scrutando oltre la tenda, si può constatare l’eterno, l’immobilismo dei due rimasto tale. L’uno di fronte all’altra, immersi nella noia e nella fatica del viaggiare.
C’è una stazione, il treno rallenta, frena stridendo e, spossato, si ferma. Il saliscendi si ripete con la colonna sonora dei richiami, dei sospiri, degli starnuti, le imprecazioni e gli arrivederci, con l’assalto di nuovi piedi e lo strascichio di nuove o già note valige.
E lo scompartimento di mezzo è vuoto. E dove stanno i due, da dove sono scesi se la porta scorrevole non s’è mica aperta?
Io ho visto, mentre fumavo e pensavo, un uomo e una donna, ambedue con la faccia da volatile, saltare giù dal finestrino. Ho visto, ma certo non lo racconto a nessuno.

Cancellare e ripensare




Disegnare è sempre stata la mia unica e grande passione, il mestiere del disegnatore il mio sogno più orrendo.
L’unto e bisunto disegnatore s’inclina e crea, vacilla scancella, pensa e rigira, arrotonda gratta e straccia, s’intigna e ricicla continuamente se medesimo. Per mantenersi genio deve sputare sangue, così è scritto, fino alle otto del mattino, tutta quanta l’intera notte.
Quando l’occhio è preciso a quello del morto, il disegno finalmente assomiglia, è degno di una storia sua. Bene, ora si cancella e si rifà.
Ma il secondo è la copia esatta del primo, ma il terzo è la copia precisa del secondo, ma il quarto è la copia della copia della copia.
Quello lì con gli artigli, il terzo occhio e le budella di fuori è ancora lui. Anche l’impalato, che invece di crepare fra atroci sofferenze, se la gode e parecchio. E la belva con la testa di bambina è il perseverante disegnatore che continua. Perfino l’ammazzasette che accoglie i lavoratori davanti all’uscita della metropolitana, anche quello è il disegnatore con tanto di mitragliatrice sotto il braccio. E’ lui medesimo che sgobba, ignaro della sorpresa mattutina.
Più animaleschi e allucinati sono i segni della sua matita, , più bavosi e lerci, più velenosi e superdotati, più grossi ancora dei grossi, più gonfi duri e pericolosi, più a lui sembra di sentirsi leggero e tranquillo.
Un turpiloquio sopra l’altro è la giusta via verso l’espiazione e la professionalità.
Avviene così la purificazione, un godimento necessario, una tappa obbligata, la ricetta giusta per dormire meglio. Lui veramente è più piccolo dei suoi pensieri, lui veramente è meno abile dei suoi disegni. Tenta solamente sforzandosi di esternare inferocendosi sofferente e quasi molto impegnato.
Ricomincia con tre pacchetti di sigarette cancerose e un pensiero diverso.
Lui è l’amico per la pelle del drago di china, il suo complice, l’istigatore, lui il mandante. Lui che, sulla carta, ha distrutto un intero continente di revisionisti. Lui che è in grado di indicare le altre dieci vie.
E’ lui che suggerisce il rimedio che nemmeno Gandhi seppe. L’estintore, il castigamatti, il denunciatutti. Lui che ha diritto all’idea più pagata in assoluto. Lui non si chiama Picasso, ma fa lo stesso.
Come farà? Lo farà con una raccomandata, una raccomandata con ricevuta di ritorno. E’ sul tavolo ed ha urgenza di essere spedita. Cancellare. Cosa c’entra? E’ mica fuori tema?
Invece ci ricasca. Il compito è assegnato alla caricatura del signor Alighieri, lui in persona se ne incaricherà. Ma che schifo di storia è questa?
In uno scomparto in fondo al disegnatore, ma non ancora nel disegno, due facce da coccodrilli, ma gli occhi sono fin troppo umani, piagnucolosi, miserandi.
Adesso è tempo di alludere più specificatamente a una realtà più intrigante e meno campata in aria. Allora si proceda.
Alighieri un disonesto? Qual è la malattia che va per la maggiore? Da domani tutti saranno in grado di volare? Cosa succede se ci si lava troppo spesso? Ma la guerra fa male alle coronarie oppure no? E il detersivo può veramente diventare un’arma?
Il Papa domani lascerà i cattolici da soli, dirà loro di arrangiarsi? Esaltando l’omicidio si è o non si è dalla parte del torto? Chi ha detto che Cleopatra è morta, chi ha osato?
Cancellare. Ripensare. Raccomandarsi al genio, che il tempo stringe. Raccomandarsi con tanto di ricevuta di ritorno magari.
Il disegnatore fiuta la maledizione. La maledizione gli fa il verso.
La mattina si avvicina e la china si spande a casaccio sul foglio, decide lei in quali mostruosità combinarsi, quali folli simbologie assumere. E’ materia grigia colata sul bianco, è uno sforzo davvero esagerato.
Il disegnatore non si scansa, vorrebbe bestemmiarci su. La notte si è definitivamente districata. Vorrebbe cambiare mestiere, vorrebbe attaccarsi a un altro fiasco, vorrebbe, e scivola sulla mattina che allaga il pavimento.
Luce. E definitivo furore nero su bianco.
Formiche grosse come ippopotami. Jumbo rondini. Attenzione alle enormi fauci del bruco. Una tenia gigante nell’impianto di riscaldamento. Bacarozzi mutanti nel brodo. Un polipo dentro la pancia. Una seppia fa strage alla fermata dell’autobus.
Lo struzzo si libera del disegnatore e aggredisce Giovanni, il quale non può e non vuole morire. Ridotto a brandelli ancora canta le sue ingiurie variopinte.
L’iguana esce dal gabinetto e minaccia troppo da vicino lo stesso disegnatore. Dal muro nascono piaghe che respirano e soffrono. Dal suo naso esce un bizzarro millepiedi, un attimo e la fotografia è fatta.
Questo è un piede e quest’altro un altro piede? Non si può cancellare, è scaduto il tempo.
Il proprio letto o le poste e telegrafi? Ma che lavoro è, di quale altro disegno si tratta? L’allusione, la biforcutaggine, il qualunquismo esagerato, la satira nella satira, dentro e a incastro. La mattina, come al solito, è sofferta e crudele.
Crudele è la raccomandata con ricevuta di ritorno che incombe, che condanna il disegnatore ultimo della fila, che lo spinge e lo strattona. Non esiste altra soluzione, solamente l’ufficio postale e certi suoi olezzi caratteristici, messi lì appositamente per riceverlo.
E visto che il disegnatore si mostra impacciato e non sa, ogni creatura del mattino gli offre i propri spaventosi consigli. Tutto ma non quel calvario, ma non i ricordi del reggimento.
- Vattene indietro. Ma chi sei tu, ma io t’ho già visto? –
- No, non credo, non penso. Assolutamente mi sento svenire lo escludo –
- Ma si, ma guarda, il disegnatore nostro signore! –
- Sei tu e non ci riconosci? Ma dici davvero? Ma questa volta quanti te ne sei bevuti?
- Dimmi, ma che bisogno c’era di appiopparmi una coda? Cosa t’ho fatto per meritarmela?-
- Senti ma chi te l’ha detto che volevo un figlio pieno di squame?E’ brutto un figlio con le squame! Ma che ti dice il cervello, solo schifezze?-
- Tu adesso prendi carta e matita e mi ridisegni senza pinna, qui e subito –
- E a me devi spiegare il perché di questo becco, qual è il motivo. Credevi forsedi essere spiritoso? –
- Qui c’è un equivoco, uno scambio di persona, ve l’ho detto che io non disegno. Sono qui tutte le volte solo per una raccomandata.
- Buongiorno, io sono quello delle quattro braccia in più. Te lo ricordi? Te lo ricordo io. –
- Io lo so che c’hai fregato per sempre, io lo so che non ci vuoi più cancellare. Tanto vale che ti facciamo a pezzi –
- Datelo a me. Solo perché gli ho chiesto l’elemosina, m’ha cambiato in aragosta. –
- La raccomandata vi scongiuro, questo è l’ultimo giorno! –
- Dove sta, aspettate che scavalco. Io sono il commendatore declassato a brontosauro-
- Mi presento, prima ero certamente Francesco. Ora sono lo scorpione ed esigo una spiegazione. La voglio qui e adesso –
- Fate spazio alla mantide, che vuole cominciare lei –
- Giulia no, aspetta che ti spiego, è stata solo un’alzata di testa. Giuro che con la carta e la china ho chiuso –
- Ma quale Giulia, io sono la mantide –
Tanti piccoli, poveri, miseri pezzi. La raccomandata spazzata via.
E il mio sogno si ripete, sempre più affascinante, sempre più orribile.

Nonostante il nonostante




Io e il mio bancone, io e le bottiglie schierate di fronte, io e il bisogno di straparlare e mentire.
Qualcuno, di spalle accanto a me, si stava gettando in gola una bevanda calda.
C’era chi la bevanda non la poteva nemmeno nominare, chi la ingoiava nemmeno assaporandola.
La faccia di antico romano voleva uscirsene col bicchiere stracolmo, aveva deciso di farsi scoppiare il fegato proprio quel giorno lì.
Il nome astruso con gli occhiali neri e la pelle butterata, esultava per avere finalmente decifrato una marca, quell’altro aspettava che qualcuno glielo dicesse chiaro. C’era appena lo spazio per una sola pancia in più. C’era chi pretendeva dal muro una risposta definitiva.
Le mani ebeti affondate nei salatini. Altri due preoccupati per i loro impermeabili schizzati seriamente. La faccia tonda, allontanata di forza dal bancone, scopriva una macchia sinistra sul suo maglione.
Io volevo riempire nuovamente il bicchiere vuoto, cercavo un delirante perché. Quello lì, in quanto a sputare era un vero maestro, e inoltre, spudoratamente, sosteneva sfacciatamente di aver sfidato più volte quello specifico muro, quello davanti al quale tutti noi, arrivati a una certa ora, andiamo a piangere.
Due facce di corvo parlavano usando come tramite uno specchio, il grande e maleducato specchio dietro il bancone. E una strana cosa si appiattiva in un angolo.
Telefonava, spiegava e non mollava, ribadiva e ricominciava, si lamentava e si lamentava. Telefonava e se ne fregava degli altri.
Poi un varco per chi non sarà mai abbandonato dal problema di fondo. Un perseguitato areofagetico, uno che i maglioni a collo alto non li poteva nemmeno pensare che gli tremava pericolosamente il cervello.
Gianco non era venuto perché era morto, un brindisi per lui immediatamente dimenticato. E nessuno voleva intrattenersi con il tedesco, a causa delle pulci numerose e i denti neri.
Io ero dunque alle prese con un altro me, ero imbarazzato non conoscendolo affatto, gli lanciavo un’esca invano.
Per Carlo primo era quasi l’ora di pranzo e bisognava ritornare. Ritornare con che cosa se non con i ricordi rimessi al loro posto e le chiavi della macchina. Ma lui la macchina non ce l’aveva.
Per Carlo secondo l’ora di pranzo era già passata da un’ora, ma lui era affascinato dalla malattia del ritardo. Tanto valeva rimanere lì.
Carlo terzo mangiava solamente la sera, per bisogno e per scelta. Ed era un bugiardo. Ed era uno sportivo. Ed era un coglione. Mangiava solamente pastasciutta. Una sola volta avrebbe voluto drogarsi. Ed era un autentico coglione.
Si stava al caldo e si rideva. Ci si grattava, si tossiva e si inventava magari poco, ma incisivamente.
Preferibilmente erano i terzi assenti ad entrare in causa. Preferibilmente si parlava con i presenti contemporaneamente. Talvolta non ci si girava nemmeno.
O adesso ne avevo abbastanza, volevo probabilmente andare via, ma rimettevo decisione e coraggio ai miei fratelli di sventura. Quindi rimanevo inchiodato lì.
Con un grande bicchiere di stravecchio davanti, Giovanni confidava ad un estraneo che lui matematicamente ormai aveva il cancro. Nessuna analisi, nessun sintomo e nessuna diagnosi, ma lui se lo sentiva. La macchina da scrivere era la responsabile, gli aveva masticato la vita.
Era geloso del bicchiere del vicino, quello era proprio amaro, inquinato di lacrime e di colpe. Ma come fare per chiedere un sorso dal suo?
Più corpulento degli altri lo slavo con quel suo particolare sogghigno, deglutiva spavaldamente il suo colorante preferito. Aveva il piede sospettoso. E molto nervoso aveva il gomito.
I capelli d’oro, in tutta la loro altezza, avevano passato un guaio davvero troppo nero. Io avrei voluto chiedere qual’era questo guaio più precisamente, avrei voluto toccare con mano, magari dopo aver detto. Ma il mio bicchiere si versava e sgomento mi lasciava.
Lacrime sul cappuccino, e desolatamente ancora un altro. I cappuccini erano cinque e il fascino nordico umiliato, l’ingegnere poteva significare la salvezza. E allora tutto il vomito addosso a lui.
C’era chi cercava un’eventuale uscita di sicurezza, perché lui…perché quegli altri…perché l’anno prima in quel medesimo bar…insomma ritrattava soprattutto di paura.
Gianna guardava unicamente la sua mano. Anna le unghie degli altri. Puliva le unghie altrui in un ingorgo di esuberanti aperitivi.
Io con le dita ficcate nel naso e su, fin dentro al cervello, frugavo in quel grigio così affascinante e misterioso.
Ma la gara andava vinta e la serata senza meno consumata. Al contrario non c’era altro da fare se non lasciare perdere. Bisognava capirli questi delinquenti di figlioli.
Io bevo più di te e sono sicuramente più bello. Tu sei stupida.Io vesto con orgoglio peggio di te e di te. Tu sei magro e anche troppo. Io certamente ho meno soldi di tutti voi, e sono un poeta, e quindi devo dire per ultimo. Io sono destinato a schiattare per primo. Io sono un dottore e non me ne vanto, o forse sono anche un assassino?
Io chiamo il Presidente col suo nome di battesimo, tu non puoi mica farlo. Tu ti muovi peggio, tu non sai mica bere. La tua ragazza è brutta, la mia certo che no, è pure laureata. Io ho sempre la ragazza migliore, non ha tentato di suicidarsi nemmeno una volta. Mio padre è il più matto di tutti noi. Io soprattutto sono l’anima di questo bar. Io so sparare, tu non ci credi per niente.
- Chi è il più stronzo di noi? –
Se Sandrino ingoiava il primo bicchiere di vino, il vicino se ne ingoiava quattro. Raccontava però che poteva arrivare ad ingurgitarsene anche dodici di seguito.
La sciarpa e cappello osservava e compativa. Tutti conoscevano le sue esagerate capacità, e non aveva certo bisogno di dimostrazioni perché aveva già dato e parecchio, in ben quattro manicomi..
Si brindava al malumore, al bentornato vigore e all’uccisione dell’impostore. Giù in fondo, l’unico e isolato amico del tedesco brindava da solo e imparava a memoria i fondamentali rallegramenti.
Non è da tutti i giorni trovare chi si sforza di fare paragoni. E il padrone Giorgio si sforzava di mandare avanti la baracca, con il sorriso, l’impegno, la passione e la delazione.
Io declamavo e mica mi accorgevo di farlo.
Un biondo grigio entrava consumava e scappava. La sua era una storia importante, pensava più del consentito, nel quartiere.
C’era chi l’indecenza la sceglieva e la palpava, per poi strillarla. Chi non sarebbe mai voluto partire. Chi invece era tutto il giorno che portava pesi, sulla coscienza e sulle spalle, ed ora non ne voleva più sapere. Ci beveva sopra sordo a se stesso.
Io quello l’ho già visto, il suo nome l’ho già sentito. E’ quello che m’ha aggredito mentre pisciavo proprio al centro della piazza. Che vergogna…anche qui…devo uscire.
Ognuno, almeno una volta, aveva ascoltato il nome dell’altro. Ognuno, almeno una volta, aveva pensato dell’altro una cosa schifosa, anche se sconosciuto.
La complicità. La cordialità. La voracità. La voce alta.
Entrò con le vene del collo gonfie. Rosso come i rossi veri, gli occhi di fuori, le mani che avevano fretta. Il punk era piazzato fra la porta e il bancone, il punk nessuno voleva sfiorarlo.
Entrò tagliandogli la strada, spostò il punk, si avvicinò alla cassa, d’infilata guardò proprio me. Chiese.
Chiese come poteva fare per andare aldilà del ponte. Non prima del ponte, dopo.
La cassiera non voleva, non ascoltava e non rispondeva, se non quando arrivava il suo turno. L’autentico rosso acchiappò allora il punk e glielo chiese. Insieme vacillarono senza una vera risposta.
Quindi, impazientemente, interruppe un brindisi e richiese. Ma l’intero brindisi, dopo aver beccheggiato e sospirato forte, riprese. Chiuse il mento della slava, glielo chiese troppo in fretta, lo ridisse. Allora implorò. Allora quasi mi stava per crollare addosso.
Si riavventò così contro la cassa, si aggrappò al colletto della cassiera, la guardò fissa per molti secondi. Tentò di chiedere come si poteva arrivare laggiù.
La cassiera che si era vista morta, ci mise del tempo a rivedersi viva.
Allora il rosso si lasciò andare lungo il pavimento, assicurando, giurando e spergiurando di non essere svitato. Rassicurando e scongiurando una risposta. E che diavolo qualcuno, il cui nome è meglio che non faccio, osò oltretutto passargli sopra. Il rosso non chiedeva nulla di particolarmente straordinario. Ed era stanco di chiedere, stanco morto.
Nonostante le preghiere, nonostante il nonostante, come fossero sordi.
Furibondo allora si agitò, arrivò fin sotto le facce degli assetati appena entrati. Richiese alzando i pugni e fu fuori di slancio.
Io sarei voluto intervenire ma un altro bicchiere di vino e un’altra menzogna lanciata nel nulla, esigevano il mio assoluto interesse.
Di slancio e inutilmente si rivolse ai passanti affinché gli indicassero quella sfottuta strada:
- Il ponte, ditemi come si fa, per pietà. Ci devo andare, come devo fare? –
E tutto l’intero bar, in coro, riprendeva a respirare forte:
- Ma il poveraccio cosa voleva dire? Cosa intendeva veramente? Ma che linguaggio parlava? Ma aveva passato un guaio veramente tremendo? Ma che cos’era, una scommessa fra tossicodipendenti? –
Era morto, ucciso dal freddo al centro della piazza, sotto la statua minacciosa e nera di Giordano bruno. Il ponte, quel ponte era lì a due passi.



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Questa è la notte capace di uccidere per gioco




Mi piace camminare e mi piace bere la birra, mi piace fare sempre e solo la stessa, identica strada.
La strada muore in un colonnato e la sua chiesa, dimenticata e nascosta da un nero grasso che corrode il marmo e il suo bianco. Gli escrementi dell’innocente piccione e le secrezioni della città avvelenano e deformano quelli che erano gli ornamenti suoi. Codesta è una carcassa informe, un fossile, non una chiesa.
E nel suo vuoto, mai più riaperto, il sacro probabilmente è andato perso. Invece c’è, a maggior ragione.
Sciolto è il cartone che, sotto il ponte, delimita il giaciglio dell’etilico barbone. Sciolto dalla peste del fiume rigonfio. Un altro posto ci vuole.
E già, all’inizio del nuovo strascicato vagare, le birre sono arrivate a venti, fin dentro la strada senza uscita, fino alle colonne nascoste, fino al cumulo di escrementi pietrificati.
Il cancello è aperto, o corroso, o strappato. Il barbone cammina lottando con l’etilico sonno. Entra nel nuovo paradiso, estasiato lo osserva e scompare dietro le colonne.
Cerca così l’entrata, ma la porta si nasconde, nemmeno si distingue più, non vuole.
Allora ritorna e si accontenta del didietro più scuro. S’appoggia e chiede il permesso al crocifisso invisibile se può svuotare lì la vescica, se può espellere la ventesima birra in quella casa così sacra e così sua. Poi si sarebbe steso sopra a quel caldo umido.
Allora distende un sacco sul tappeto degli escrementi di un generoso piccione. Distende se stesso con ogni precauzione e si avvolge. Soddisfatto si gira.
Già dorme ma continua a parlare tra sé, raccomanda alla sua fetida stella di tenere lontano il topo, perché di lui non avrebbe nessun rispetto. Perché una settimana prima un pezzetto del suo orecchio se l’è già portato via. E gli è piaciuto, e volentieri l’avrebbe rifatto.
Ben venga tutto il resto, che non gli importa proprio. No, perché il suo sonno è stanco in misura uguale alla morte definitiva. Non i passi, non le voci, non i cataclismi.
L’invisibile crocifisso s’è preoccupato di tenere lontani persino i cani, per regalargli una serata tranquilla. C’è da fidarsi insieme a lui.
Ma arriva quell’unico fanale, ha intenzione di sfidare chiunque. Vuole giocare, vuole cantare, vuole ridere troppo forte. Oltraggia le colonne e si getta sacrilego sul rifiuto.
La coperta ha un fremito, si aggiusta, scalcia, si ranicchia di più, tossisce e si irrigidisce di nuovo. Ma quel faro arrogante non vuole avere rispetto del sonno.
Codesta è la notte insonne vestita di nero, giubbotti e stivali, la notte capace di uccidere per scherzo. Lei ha i capelli biondi, lisci naturali e ancora più lunghi, sicuramente luminosi. Lui ha le basette scolpite e gli occhi vuoti. Sono lì sulla loro motocicletta con le unghie appena affilate. Devono e urinano, ballano tra le colonne e pestano.
Sputano e si accorgono dell’ubriaco involto fiducioso. Insistono, ci pensano sopra e pesano, gli pisciano addosso.
L’involto resta in ascolto e si contrae, il liquido è dopotutto confortevole.
Cercano la chiesa, ma la chiesa dov’è? Si accaniscono sulla porta e l’involto non è il custode. Glielo chiedono allora con il tubo di scappamento. Con i calci glielo richiedono.
Il crocifisso tace, è inchiodato, è invisibile.
E della ventesima birra è rimasto il vetro. Il vetro riempito nuovamente con i denti scoperti e la benzina.
Il fuoco allegro e purificatore sull’involto, a bomba. A illuminare la chiesa, riscaldare il sogno. Il crocifisso tace. Il barbone fiducioso è arrosto.
Io non posso più tornare indietro.

Sembrava di legno




C’ho fatto l’amore tante volte nascosto fra le dune, da lontano. Da lontano l’ho posseduta a lungo.
La casa di legno sulla spiaggia era la sua. Di una faccia scavata, senza età, o trenta o cinquanta, oppure chissà. I capelli castani e grigi, impiastricciati dal sale e annodati in un groviglio inestricabile dal vento.
Indossava sempre una gonna lunga fino ai piedi, consumata. I suoi piedi, belli e nodosi, sequoie. Portava scialli di lana che non potevano proteggerla più.
La padrona della casa di legno aveva occhi attoniti, enormi, sgomenti, infossati e decolorati. E il suo collo, il collo era lungo e forte, sempre proteso in avanti, scolpito. Questa donna aveva un modo di guardare fisso da sembrare cieca, cieca oppure demente.
Al sorgere del sole si sedeva sugli scalini di legno sconnesso e marcio davanti alla casa. Si sedeva lì a guardare il mare, avvolta in se stessa. Stretti fra le mani aveva sempre un’arancia, o una mela, o un mandarino. Teneva le sue mani occupate così.
Guardava il mare e le sue onde, guardava ancora più in là, dove la luce e il colore cambiano e si muovono.
Guardava il salire del sole dritto in faccia senza timore di rimanerne accecata. Aspettava l’arrivo, gli umori e la voce del vento.
Era difficile dire da quanti anni abitava la casa e la spiaggia, ed era impossibile indovinare la sua storia passata. Non rispondeva, non si voltava, non si curava di nient’altro.
Solamente l’immenso dritto davanti a lei. Pareva, mentre stava così assorta, che stesse volando verso il largo, incontro al suo sole.
Questo inverno era più rigido del precedente, e il precedente come non se n’era visti da un secolo. Ma il vento gelido non riusciva a sorprenderla. La bocca si spalancava, il collo si tendeva in avanti e gonna, scialle e capelli danzavano impazziti.
Quel vento aveva già girato il mondo intero prima di arrivare su di lei, aveva raccolto nel suo ventre milioni di voci e fatti. Il vento le gettava tutto il bottino raccolto nelle narici e nella gola.
Ce l’infilava dentro a forza, usciva nuovamente da lei e, dopo poco, le rigettava in profondità un altro carico di mondo lontano. La bocca sembrava snodata come quella dei serpenti…
In uno stato di probabile incoscienza, ad occhi spalancati, si faceva possedere, si faceva scopare ogni volta da quei vortici ingordi. Tutto dentro di lei s’incontrava e si urtava, tanti si parlavano e si guardavano per la prima volta nel suo dentro.
La vita, la storia, le lapidi e gli anni, i voli, il decorrere e il sapere, il maligno e la serenità. Il dolore e le grida e le pagine scritte. Tutte le ubbidienze e i crimini.
Mentre il vento inaspriva a suo comodo all’interno di lei, le ginocchia si schiudevano vinte. Le gambe, sottomesse, si divaricavano e il collo, prima teso in avanti, si piegava completamente indietro. Così fino a che il vento non voleva placarsi.
Al termine di questo inverno, una mattina che passeggiavo, mi apparve gravida. Sempre seduta sugli scalini, ma gonfia e sfinita, gli occhi chiusi, nel respiro il rumore cupo dell’interno di una conchiglia.
Poco prima del tramonto, lasciando la sua traccia sulla sabbia come una grande tartaruga riusciva a trascinarsi fino davanti all’acqua.
Spingeva, spingeva e ansimava velocemente, gemeva. Un urlo che schizzava in alto e andava a rituffarsi nelle onde , e con le mani aiutava ad uscire un qualcosa di scuro, impiastricciato di sangue e placenta. Doveva prenderselo il mare.
Lei restava distesa, fradicia e immobile, morta.
Il qualcosa partorito da lei aspettava di farsi trascinare via. Sembrava di legno, un legno consumato dai secoli, il pezzo di un antico relitto.
Il legno marcio scompariva risucchiato dal mare.

venerdì 19 ottobre 2007

Una stanza all'ultimo piano


Una stanza all’ultimo piano, proprio sopra di me, di me che passo il mio tempo in ascolto. In quella stanza una figura perennemente di spalle. Un paesaggio marino, un quadro nella penombra, stufo della propria immobilità. Due mani che fanno paura.
Due mani di rughe, di noce e di gesso. Due mani di iguana, inseparabili, con la memoria del caimano. Due tenaglie di mani, invincibili. Tenebre di mani ad uso di artigli.
La figura di spalle ha il volto di pietra pomice. La consistenza dell’escremento secco.
Mani sulla maniglia della finestra, in agguato, con lo sguardo fisso al tramonto. Il tramonto che ha paura di loro, che aspetta tremando uno scatto. Un urlo, uno schizzo scuro.
La figura di spalle ha la gola scavata dal picchio. Sta lì, nell’angolo, di spalle al quadro.
Adesso le mani galleggiano al di sopra del termosifone, navigano lentamente e si fermano davanti al quadro, colmo di rabbia impotente. Atterrano senza peso sul mobile, il mobile che cerca di tirarsi indietro, che trema dallo spavento.
Sembra che il vero obbiettivo delle mani sia lo specchio, invece si fermano al centro della stanza penzoloni.
Mani da redivivo, resti d’etrusco, espressione dell’impiccato.
Poi un segnale invisibile fra il quadro e loro. Avanzano nuovamente in un volo di mosca, fino al lieve contatto con la scrivania, che ha un brivido, che non vuole rendersi conto.
E il quadro, il paesaggio marino, digrigna i denti e attende. Guarda la figura di spalle che ha il ginocchio vuoto, nero e vuoto il ventre, di cartapesta il gomito e le scapole.
Le mani assomigliano a quelle dell’assassino, due mani d’aragosta, due atteggiamenti da mantide religiosa.
La figura di spalle di voltarsi capace non è. Le mani sono alghe, nate dal quadro suggeritore. Ora invece si posano sulla mela verde. Forse che la vogliono strangolare? La fanno assopire e passano oltre.
Mani alla ricerca. Coleotteri.
Rettili mani che strusciano il freddo della spalliera, seguono sicure il suo legno, raccolgono determinazione, si preparano alla degustazione.
L’una sull’altra pare che s’arrendano. Strategia.
Nell’angolo la figura di spalle ha le caviglie saldate fra loro, ha una sola buccia di polso. E’ impaziente il paesaggio marino. I pescatori aspettano di uscire dalle case, le barche vogliono prendere il largo.
Le mani manovrano intorno, trascinate da una leggera brezza omicida, che però non ha un’eccessiva fretta, che intende prendersela comoda.
Le mani si dirigono verso la finestra silenziose. Trascinano con loro una tazza, di profilo assorbono il giallo che galleggia di fuori. Alzano la tazza, la riabbassano, ripetono il movimento, trattasi di un rituale funereo. Una sfida alla città che sorveglia, una beffa ai tetti che le temono, un avvertimento ai volatili che potrebbero gridare l’allarme.
La figura di spalle è sempre nel suo sempre, nel suo involucro muto, nel suo solito e scontato gioco di ombre.
La mascella ebete, gli occhi vuoti rivolti verso il muro, lo stesso odore di cento anni fa. Corteccia vuota in bilico su se stessa.
Mani senza sudore, mani enormemente, mani sacerdotali, mani una volta per tutte. Mani del giurato. Mani del boia.
Dentro il cassetto mani chiuse sul ferro numero tre a tessere l’intreccio della bava.
Un dritto ed un rovescio, la resa dei conti. Il maglione si stringe sulla figura di spalle, le toglie ogni possibilità di eventuali cambi scena.
Il punto a croce, il collo a barca, la treccia, lo strangolamento. Pezzi di corteccia sul pavimento, finestra aperta e mani spalancate. Nel totale silenzio.
Il paesaggio marino si emoziona, il colore gli si anima dentro, la prigionia dell’immobilità è finita.
I pescatori escono di casa e si avviano alle barche, le barche che ora sembrano addirittura respirare, ed una dopo l’altra si avviano alla pesca.
Mani che danzano, mani padrone.

giovedì 18 ottobre 2007

L'uomo delle anguille


La pace si può trovare anche al di sotto della città. Lì dove confluiscono le scolature, lì dove scorrono inesorabili e lenti gli avanzi, in un’atmosfera che varia dal marrone al grigio, e talvolta rasenta il pezzato. La pace , per alcuni, soprattutto lì sotto.
Diverso è il ritmo, non va con il cuore, ma con la noia della corrente, con della sorte il trascinio. Quello che dall’alto del ponte sembra fermo, è già imprendibile, è già ad un passo dal mare. Camminare contro corrente in certi giorni appare come l’unica accettabile rivalsa.
Sotto il ponte sta l’uomo con il berretto, subito sotto la confusione. Lì immerge la sua bava ed attende i regali del flusso, alza e riabbassa il braccio, si uniforma perfino al colore che gli scorre accanto ai piedi. Sono erbacce oppure si tratta di piedi veramente?
Gli osservo gli occhi e vedo passarci di riflesso l’avanguardia di un grumo di detersivo. Ma non ci giurerei che di detersivo si tratta, potrebbe anche trattarsi dell’anima dispiaciuta e disfatta di un cane, o un vestito da sposa, o lenzuolo che dir si voglia, o tappeto, o straccio, o pane inzuppato.
L’uomo con il berretto aspetta le anguille, ma controlla qualsiasi oblunga cosa, e qualunque di lei parente. Vuole godere della sorpresa, mantenendo così alto il nome della pesca.
Lui però non è il solo frequentatore delle scolature al disotto della città c’è un altro adoratore del flusso. Codesto è il topo.
Nella cruenta cittadina mitologia il topo ha denti due volte più affilati dello squalo. Ha pelo da peste. Ha un alito che uccide. E’ uno sbranabambini. Dicono che il topo è anche il signore dei sogni.
Inoltre costringe alla fuga chiunque osi allargare le gambe nel suo spazio vitale. Il topo è atroce, quindi che nasca e muoia nella putrida schifezza.
Insieme a lui ci sono anche tracce ben visibili di romantici sdolcinati che nel fiume amano constatare il loro concretizzarsi.
Le parole dolci, in un posto simile, credono di poter mitigare l’aspetto da battaglia perduta, da c’era una volta, da viaggio nell’immediato orrore.
- Sogno Sobiria, desidero Sobiria, adoro Sobiria, vivo per Sobiria e le taglierò quindi la gola. In cambio di Sobiria voglio un miliardo –
Chi ha scritto così, sotto il ponte più decrepito, Sobiria l’ha già sbudellata, se l’è scopata da morta ed è risalito di corsa e pieno di buone intenzioni, a livello città. Ed ora si sgranocchia una pizza al taglio e al fiume non c’è mai stato. La scritta è di un nero corvino, salta agli occhi.
L’uomo con il berretto si volta di poco, ma non capisco se il suo è un sorriso oppure una bestemmia. E mi dice.
- Nel quarantaquattro ho preso due anguille in un giorno solo. Da allora niente ancora-
Nel flusso limaccioso la città riflessa, una città intravista nell’olio usato. Cioè un cattivo scherzo dell’occhio, un delirio da vino scadente. Un surrealismo che non riesce ad essere venduto.
Da lassù qualcuno lancia qualcos’altro. I topi si disilludono, non si tratta di un dono commestibile. E’ un portafoglio vuoto.
La morte tira l’amo e l’uomo col berretto tira su la morte.
- Questa donna è di Monte Sacro. Lei non ha mai potuto soffrire i pesci, e soprattutto quelli disegnati. Comunque dicevano ch’era perbene, comunque una perbene queste fissazioni non ce l’ha. E il figlio glieli metteva persino nel gabinetto. Da un momento all’altro doveva arrivare –
Alza la madre impazzita e la ributta verso il mare. Si rimette a desiderare rigido.
Emerge una testa mozza e ci sorride.
- Glielo dicevo tutti i giorni. Ma perché non t’ammazzi? E l’ha fatto sul serio. Ciao Italo, ciao bello, bravo che m’hai dato retta –
L’uomo con il berretto è capace d’individuare immediatamente il fatto e il tipo. C’ha fatto la mano quaggiù.
- Quest’altro la tuta rosa ce l’ha solo lui. E’ un ladro e un rompiballe –
- E quello cos’è? Macchè anguilla è il topo. E il topo non si tocca, è pescatore come lo sono io –
Sento ribollire, il fiume cambia aspetto, come se volesse scrollarsi di dosso una schifezza veramente troppo esagerata. Il topo non sa da che parte filare. L’uomo con il berretto straparla, si agita e suppone.
- E’ la mia anguilla, è lei, per forza -
Sotto, una grande ombra con tante braccia che la seguono e la scortano e la circondano. Scorre via rapida sollevando bollori e nuovo fetore insopportabile.
Resto paralizzato a guardare.
L’amo non può niente, l’uomo con il berretto è felice ed ha paura, è eccitato ma anche furibondo. L’amo non vuole. Perdere non si può e allora l’uomo e il suo berretto sono dentro l’acqua, sotto. Più non si vedono.
Resto lì e mica lo capisco.

Sto


Sto con la testa ficcato dentro il gabinetto, dentro il colore irriconoscibile della sua puzzolente ceramica. Ficcato lì dentro e vomito.
Vomito l’alveare, la schifosa, l’insopportabile operazione algebrica, il fumo, il districarsi, il differenziarsi nell’inutile tentativo. L’ammassarsi, l’inebriante e il prestabilito. Il cammino percorribile. Mi metto a sputare fuori. Il sogno dentro il sogno.
Così resto, prigioniero del cesso, della trave, il sottoscala, il tetto, la sala nella sala, il muro portante, il tenace, il celebrato, il cemento. Quella puttana dell’architrave, è quella che mi fa star male più di tutti.
Il ponte sul quale, il sottoterra, il percorso obbligato, il codice l’esperimento la deviazione e l’impiegato. Sua Santità il prescelto. Quella merda d’insieme, il componibile, il coordinato, la verità oscillante. La tosse, il gabinetto, da non potersi staccare.
La tosse che non smette mai, il numero avverso, l’attimo definitivo, il quarto d’ora accademico, lo spartito, lo smarrito e la semiretta. Anche l’impiantito mi fa stare male, il saliscendi, il vai dritto e il gira di là. Il vomito, la tosse convulsa la continua diarrea. La città qui intorno.
L’anemico susseguirsi mi esce di forza dalla bocca esausta. Il troppo dilungarsi, il rattrappirsi, il rialzarsi correre e inciampare. Inciampare e decantare, decantare e incartarsi su di un unico spietato particolare. Il passaggio. Forse è proprio quello che mi fa star male.
Il passaggio nell’apertura, di getto la disinvoltura. Improvvisamente la stanca e tutti quanti i vostri numeri di telefono, di seguito gli indirizzi, tutte quante le età. Sistematicamente. Inderogabilmente l’offerta, la preda, il discorso e l’esposto. Il crollo e il gesto, il grido. Il grido di fianco e di sotto. Tutto quanto dentro il mio gabinetto, una cascata.
Tentenna il colore, dal nero all’amaranto al celeste cupo, al perla insicuro, il colore si sfilaccia. Si scioglie la membrana all’orizzonte, orizzonte a iosa, orizzonte gru. Miraggio orizzonte della mia gola che non riesce a fermare più niente.
Cambia ritmo l’intestino nel guscio, si rapprende il sogno, si girano le schiene, le gole e le ginocchia. Pelle contro pelle, alzano la voce i sederi, e dicono, e urlano.
Bisbocciano fessure come prestabilito mentre io continuo a vomitarmi. Sotto la luce gialla, guardiana dell’involucro, sospira la crosta, scricchiola. Nel ripetutamente ancora la marcia indietro. Tutto si ferma, l’attimo neutro, il momento di ghiaccio, il travertino, il silenzio del cazzo, della grintosa notte l’ultima aggressione. Tutto quanto nel mio stomaco combatte. Ma cosa ho mangiato? Ma perché ancora da ore prigioniero di questo cesso?
Schegge, malignità del calcestruzzo, ibernazione, minaccia dell’irreversibile, perfidia del cattivo odore. Anche il languore c’è, c’è pure la porcaggine. Ecco nuovamente il momento suo, s’innesca il Bolero, esplode.
L’importanza del sopracciglio in questo mio malessere, il cipiglio dell’intestino crasso, la spigolosità, il polso, il circuito chiuso, le cavità nella testa. Del fianco la nascita nuova, la resurrezione della scapola deforme, lo scaracchio e lo starnuto. L’occhio gonfio e lo sporgente labbro inferiore. Tragicamente il risveglio, questo stressante va e vieni dalle tenebre.
In che direzione scorre il fiume stavolta? Perché me lo chiedo? Ma il fiume risarà La sua acqua sarà marrone ancora? Come ieri avrà voglia di piangere?
Si svegliano le fontane mentre io e il mio ci stiamo parlando. I pisciatoi rigurgitano. Il nuovo umore dei marciapiedi, più acre. L’asfalto è liscio, più vivido,brutale.
Occhi di vetro, di legno, occhi di ferro, occhi nuovamente nel perpetuo a minacciare l’intero mondo. Occhi di un muro giallastro ed esausto su di me.
Il riproporsi sempre in agguato mentre continuo a svuotarmi rumorosamente lo stomaco. Delle squame nella crosta il dilatarsi e tutto il rosso che ne cola giù. Magia! Entropia! Porca schifosa città di merda! Ho bevuto troppo e questo è vero.
Il trenta sbarrato, il succhiateste dovrebbe al dunque stridere e fermarsi. Perlomeno sbucare? Il trenta sbarrato non è più. Il brutto risveglio della città monumento.
Voci, moltiplicazioni di voci, seni e coseni di voci. Funzioni, traslazioni, giochi a fraintendere, stupidaggini. Sfumature di gesti. Nelle aperture rotonde atteggiamenti e intenzioni, nelle fessure profonde. Basta, sto male, ho capito!
Ed è così che l’agglomerato schiude gli occhi in un posto diverso, portandosi appresso me ed il mio gabinetto disumano. Non c’è più la collina, né le panchine sulla destra. E’ scomparso l’incrocio, il lampione sbilenco e quello scalino dissestato. S’è involato il fioraio. E la stazione? E il mercato delle piante? E le poste e telegrafi?
Stramberie urbanistiche frutto della fertile notte dei creativi. Stramberie continuate e vomitate giù dentro di forza. Ed io di mio.
Il flusso fermenta, lievita, rotola nel ghigno sorriso della strada maestra, nel nome dell’incoraggiamento di una luce più definitiva.
Il flusso, nelle mie vene, con un verso tutto suo si da ragione, esita e ritorna, insegue i semicerchi, si aggrappa, non trova il metrò, osserva sbigottito le rotaie curiosamente rivolte contro il cielo.
La sindrome del metrò mia personale. Il forte desiderio del sotterraneo. E la crosta lancia forte le sue grida e le mie, pensieri paranoie e dubbi. Allora le ombre, allora la contro materia, l’inaspettato colore dell’imprevisto.
Allora botti, echi, sbattimenti, ingranaggi ostinati, acqua corrente, scarichi di water. Allora pietra contro pietra, bottiglia contro bottiglia, sorso dopo sorso, spudoratamente allora.
Allora intenzioni contro desideri, logoramenti contro sentimenti. Allora dita e portoni, pressione bassa e cancelli.
Un campanile messo di traverso a quest’ora? Vomito e ci penso. Il lampo di genio di un ottuso sogno, una trovata per infiltrarsi, per grattare, annusare il vecchio, perdersi ancora, non tornare a casa.
Della casa l’odore del fumo, della immondezza e la dimestichezza. Il nuovo altare, il nuovo pulviscolo velenoso nel cupo ed eterno sotto, l’immortalità affascinante della sottorealtà. L’ennesimo strato. Il buco del cesso.
L’artistico buco nero nell’eco, lo squilibrio, la voragine dell’io, tutto in questa serata di merda. Assalto dopo assalto, un pesante pensiero nelle reni della strada grande, a proposito delle precise responsabilità del cavalcavia che ad urlare non è però capace. S’inarca in alto, s’impenna, si scuote, si ricongiunge ad anello. Lancia per aria la vita, se la sgrulla di dosso. Macchine e camion ricascano pesantemente sul soffitto che da ore mi tiene prigioniero.
Non è una trovata, è una vendetta, è la serata mia.
Si avvertono gli automobilisti che la tangenziale è stata colta da improvviso malore. Ed ancora, e come per incanto, il sollevamento del quartiere Castro Pretorio Giace in alto inglobato nel perspex, col fiato sospeso, con l’intera sua gente. L’impennata della nuova corrente.
La stupefacente regolarità e la disobbedienza del primo settore, proprio qui dov’è collocato il mio cesso. Il pericoloso singhiozzo del secondo, l’indecifrabile alfabeto del terzo, il mutismo del quarto, la sua ostinazione.
E il vomito, e il mio, il plasma rigeneratore, s’insinua nello storico centro. L’iniezione, così che l’eterno ed inevitabile contrario in lui si compie. Splendore e struggimento, apoteosi e struggimento, rimaneggiamento e struggimento, decentramento e struggimento ancora.
Rotocalchi e occhiali nel malessere mio, guance e orologi, natiche e foulard. Tacchi e mascelle, capelli e fontane, caviglie e fontane, calzini e fontane. Gastronomia mutande calcolatrici e giacche a vento. Tubi e pellicce, biglietti della lotteria e gole. Fontane sempre e dovunque.
Strati su strati, luce su notte, asciutto su bagnato, vita su morte. Dentro il gabinetto mio.
Il gigante si è svegliato, si stropiccia gli occhi, partorisce, grufola e sovrappone. Il gigante esposto agli umori del tempo, il tempo infilato a forza fin dentro il mio naso, fin sotto le costole e la lingua. Il tempo che da sempre scorre attraverso i polmoni, che m’inonda spudoratamente le budella. Gioca a far danni questo tempo mio.
Ma il Porto di Ripetta dove è andato a finire? E’ messo di sbilenco alle porte della città, è anch’esso sospeso per aria e impacchettato, gocciola sui viandanti, poco importa. Abbellimento e ristrutturazione a iosa.
Si aggirano su mia indicazione ma il ponte non lo trovano, si domandano ma il ponte non risponde, si ritornano e il ponte ancora non c’è, si rincorrono e si disperano, ma il ponte non appare. Si interrogano allora sul fiume, bussano e ribussano alla porta del mio indaffarato gabinetto, mi vogliono chiedere a proposito dell’inverosimile e tragico suo scorrere. Osano, scommettono, s’indignano e si deludono ma lui, il fiume non vuole parlarne.
E il giardino a voluto scomparire, ha fatto appena in tempo a dirmelo, il giardino si è impiccato ad un suo stesso albero. All’alba l’ha deciso e all’alba l’ha fatto, senza rimpianti e con un minimo d’ironia.
La città intera sta uscendo fuori da me. Esce di fuori, mi gira di dietro, e mentre io sto inginocchiato sul gabinetto mi rientra dentro dal sedere. Tortellini e sventramento, sventramento e pollo con le patate, rococò, ruberie e pesce congelato. E il verde che scatta, il sospiro, il rosso che mozza, lo stridente, lo schianto e il segnale. La corsia preferenziale, il tango postale, la fila sempiterna, l’avambraccio. Il braccio delle precisazioni, dei sensi unici e dei mostri pesanti.
Eccoti di nuovo dentro di me, maiala città, l’incubo della lancetta, lo sbadiglio, il secondo gong dell’assicuratore.
In formalina lo scrittore, il professore è onnipresente, i piedi dell’operaio, le braccia e il cuore scaglionato. Il dottore sta sempre per avviarsi, il garzone appesantito dai suoi obbligatori passi di danza, lo studente imbarazzante, frustrato, geniale e inconcludente. Lo studente che dal liceo comincia a morire. Il valzer avvincente delle impalcature e l’incidente spettacolo al Grand Hotel. Il Colosseo nella struttura molecolare di molti. L’invenzione del Mattatoio proprio all’interno del mattatoio medesimo.
S’incupisce il tutto, tutto si stupisce e la luce elettrica scompare. Non vedo ma continuo a vomitare lo stesso.
Buio sullo stoino, buio sull’angolo con via dei Serpenti, buio sullo scalino. Buio fra i denti. Buio sotto i piedi. Buio attraverso gli archi. Buio addosso al palazzo dell’Anagrafe. Buio sul distretto, buio addosso ai sentimenti di ognuno. Buio negli apparecchi telefonici, sulla figura del sindaco e al decimo piano. Buio che spavaldamente ci riprova e picchia le ore con forza. Buio freddo nel cortile bagnato. Buio appannato, buio impanato e fritto. Buio sull’arresto, buio molesto e sulla coltellata. Buio mai sconfitto. Buio della porca città.
Tetano città, io in te sono costretto a credere. Io bevo il tuo midollo, io cado ripetutamente dalla tua scala. Io in te mi specchio, io ti respiro, ti cammino e ti dormo. Ti sporco e ti continuo a sporcare.
Col mio vomito ch’è diventato eterno, che si unisce al fiume, che va con lui nel mare a disperdersi.

Metropolitana


Era la prima volta che mi avventuravo nelle viscere della metropolitana. Perché il chiuso mi fa star male, perché ho paura del sottoterra.
La metropolitana era quasi deserta, all’ora di pranzo la gente di solito emergeva. Scendevo la prima rampa di scale diffidente, con una grande voglia di tornarmene indietro. Poi un lungo corridoio gelido, illuminato da luce di ghiaccio. Una curva a gomito, uno slargo improvviso, un solitario suonatore di violino che dormiva seduto in terra, ad occhi aperti.
Il corridoio seguente si divideva in due braccia, cercavo un’indicazione e me la dava il vento che là dentro correva e mai si stancava. Sceglievo a destra il tapirulan in discesa.
Davanti a me, trascinata dal tappeto scorrevole, una triste donna con un triste cappello, immobile ed arresa.
Dietro di me un uomo troppo basso piegato su se stesso, intento a non pensare. Una maestra con un grande petto, due creste multicolori, una radio sgraziata sulle spalle. Ad aspettarci un altro lungo corridoio arredato con grandi e beffarde scritte sulle pareti.
- Di qua si va dritti all’inferno –
- Tranquilli. Dio c’è anche dentro la metropolitana –
- Benvenuti nel culo di Roma. Sotto a chi tocca –
- Attenzione, qua sotto la città ti caga in testa senza ritegno –
- Scendi e poi torna a raccontare –
- Vai avanti se credi di avere le palle –
Non sapevo nemmeno se stavo seguendo il percorso giusto, scendevo una seconda e più ripida rampa di scale, battuta da due correnti in perenne litigio. Davanti e dietro di me non c’era più nessuno.
Non trovavo le rotaie, non trovavo la stazione, non trovavo nessuna indicazione. M’infilavo allora in un ennesimo tunnel illuminato da un neon agonizzante, un tunnel apparso davanti a me all’improvviso. L’ultimo respiro del neon e il buio avanzava con me.
Inciampavo, cadevo in avanti, cercavo con le mani, trovavo il gelo del metallo. La sensazione di trovarmi in un incubo vuoto e nero.
Due occhi luminosi e un sibilo improvvisamente addosso. Istintivamente mi tiravo indietro, ma la luce sibilante mi apriva e scompariva nella pancia. Ne seguiva un nuovo buio e un nuovo silenzio ghiacciato.
Non avevo sentito dolore, soltanto forse un forte sapore d’aceto, e basta. Mi rimettevo a fatica in piedi, salivo un alto scalino dietro di me, cercavo con le braccia tese nuotando nel buio. A destra e in basso, in alto e a sinistra.
E una nebbia malata e giallastra si faceva strada, avanzando verso i miei piedi, arrivava a circondarmi le caviglie, voleva salire. Tremando dal freddo mi mettevo a seguire la sua coda e un lontano battere metallico sul punto di spegnersi.
La nebbia s’infilava in un’apertura stretta ed alta appena un soffio sopra la mia testa. Un vuoto d’aria mi risucchiava dentro, deciso. Mi spingeva a continuare dritto davanti a me, mostrandomi una debole luce che si faceva celeste o grigia. Il battere metallico si era spento, oppure il suo ritmo era cambiato.
Una porta chiusa, la luce filtrava e si faceva più azzurra. L’aprivo sentendo le ossa scricchiolare.
Entravo in una grande stanza, della quale non riuscivo ad intuire la fine. Il battere metallico sbocciava nuovamente, ora trasformato in un debole battito di un cuore galleggiante, insieme alla luce azzurra dall’acidulo sapore. Nessuno sembrava esserci.
Qualcuno c’era. In fondo, in un angolo alla mia sinistra. Figure sedute in cerchio, assolutamente immobili, assolutamente silenziose. Mi avvicinavo di più, con il sangue gelato dalla paura. Facce anziane e attente, un uomo ed il suo cane. Un bambino con un pupazzo sdrucito stretto fra le braccia. Una donna dal volto insistentemente familiare, ad occhi chiusi, ma egualmente attenta.
In mezzo a loro, in piedi, un uomo alto, magro e negroide, con due mani lunghe e scheletriche semiaperte e confuse. Gli occhi grandi e tondi nel viso scavato, a vagare nella meraviglia. La bocca, spalancata, voleva forse assaggiare l’aria circostante.
Ora, più vicino, sentivo la sua voce musicale e recitante. Le figure intorno sembravano sorridere, mute e irreali.
Assomigliava, era lui, si chiamava Asdrubale. Indossava foulard molto colorati, buffi, esagerati, scintillanti. Ma Asdrubale era morto da una settimana. L’avevano trovato in piazza, morto di freddo. Ma allora anch’io, anch’io cosa?
Si accorgeva di me, più che vedermi sembrava aver sentito l’odore. Interrompeva la sua recita e si esibiva in un plateale inchino.
- Buonasera buonasera. Una sedia per distrarre il tuo spavento? Buonasera dal tuo artista preferito –
Nessuno degli spettatori presenti si voltava verso di me, presi com’erano dallo spettacolo del clown Asdrubale, ipnotizzati dalla sua dolcezza. Mi avvicinavo, non avevo più tanto freddo. Accennavo un saluto imbarazzato e incredulo.
- Ma tu, tu non eri, tu sei? –
- E tu? Ti sei forse perduto? –
- La metropolitana. Il treno m’è arrivato…sono caduto e il treno…Sono forse morto?-
Asdrubale si esibiva in una fantastica piroetta, come soltanto lui sapeva fare. Scopriva tutti i suoi grandi denti, denti che splendevano di luce propria. E rideva forte. Il bambino con il pupazzo ben stretto fra le braccia applaudiva piano, imitato da altre due figure immerse completamente nel buio.
Allora scorgevo nei suoi occhi la tristezza e la nostalgia, grande e gonfia di pianto, ad Asdrubale piaceva vivere.
Mi guardò pallido e serio. Io stavo indietreggiando, avevo nuovamente una terribile paura, seguito da quei volti curiosi e impercettibilmente sorridenti, ora girati tutti verso di me, ora guasti.
Quelle rughe, quelle facce in silenzio, lo spaventoso scuro, m’impedivano di chiedere spiegazioni.
- Mercoledì avrei dovuto incontrare tua sorella, ma questo nuovo lavoro m’ha portato altrove. Ci sarà rimasta male di sicuro tua sorella, che ci vuoi fare ! –
Mia sorella? Asdrubale? E certo.
E si rituffava nella sua recitante allegria. Ma che posto era quello?
A tentoni cercavo la porta dalla quale ero entrato e non la trovavo, un urlo insisteva per uscire da me. Tra le mascelle e le scapole subivo una tempesta. Mi guardavo convulsamente intorno nel buio nero, il buio nero non staccava gli occhi da me.
Intanto la voce recitante di Asdrubale si faceva lontana e si mischiava con altri suoni, un’altra voce cantante, la stazione di una radio sintonizzata male. Allora gli occhi si aggrappavano ad una partita a carte, comparsa da un incantesimo.
Due vecchi si sfidavano con commenti e grugniti sommessi, seduti l’uno di fronte all’altro e illuminati da una lampada dalla luce sbiadita. Le dita gialle di tabacco, il respiro pesante, il fumo denso e dolciastro di pessime sigarette fatte in casa. Il sapore era viola. No, forse un impuro celeste.
Erano vivi, a loro avrei chiesto. Ma la partita appariva più importante, e l’imbarazzo, e il fiato sul collo della morte in persona, m’impedivano di parlare.
- Due scope, la primiera, il sette bello, i denari. Ho vinto ancora io, ho vinto un’altra volta -
Ma sia Asdrubale che i suoi spettatori, sia i due accaniti giocatori di carte, scomparivano nel tempo che ci vuole a far schioccare le dita. Il buio appariva più buio e più immenso, e più fredda e tagliente la mia paura.
Restava il confuso sottofondo musicale. Si aggiungevano le voci e la musica di un vecchio film. Un sonoro che si andava materializzando, un debole chiarore, una nebbiolina, la proiezione di una vecchia pellicola scrocchiante, a guardarci meglio. Oppure la nebbia con me si divertiva.
Ma la voce cantante vinceva sul rumore confuso, e una figura, appollaiate su di una poltrona in odore di muffa, si mostrava a me. Alle sue spalle, in terra, pile di libri, dischi e vecchie fotografie. Qualcuno ascoltava la musica, che ora invadeva interamente la nebbia, con la testa nascosta fra le mani. Con mio stupore sapevo il suo nome e lo stavo chiamando:
- Gianni?-
Gianni alzava la testa, mi guardava, piangeva. Le lacrime gli scavavano profondi solchi sulla faccia.
- I miei libri, i dischi, molti li ho perduti nella confusione. Però questo canto, la Callas…-
Si commuoveva di nuovo, di nuovo apparivano lunghi solchi sulla faccia già così segnata.
- Ho bevuto tanto vero? Veramente troppo –
Lo guardavo e non potevo, non sapevo rispondergli. Era appena ieri sera che chiacchieravo con lui? Lo guardavo dissolversi nella penombra ed i suoi libri, i dischi, la sua Callas con lui.
- Gianni, ma come è potuto succedere? Gianni non andartene che me la faccio sotto. Cristo Gianni ho paura –
Lo stavo pensando ma non lo dicevo.
Più nessuno, eppure la certezza di una folla.
Ero sfiorato, urtato, osservato, stretto, spintonato. Qualcuno, tanti, invisibili, mi passavano addirittura attraverso. Una mano, le sue dita, si appoggiavano sulla mia testa, entravano nei capelli portando con loro il gelo. Un’altra mano passava leggera, soffermandosi, studiando i miei spigoli.
Sentivo mille respiri a ridosso di me, su di me passare rapidi e ritornare, curiosi, premurosi orribilmente.
Avvertivo il chiasso ma non riuscivo a decifrare, mi entrava nella gola prepotentemente, si faceva mia muta voce. Anni e secoli altrui in un vortice all’interno di me, in un corpo e in una mente troppo piccoli per contenere quella bufera.
Paura e tanta.
Ripugnanza? Era come se fossi posseduto, sodomizzato dall’intero universo. Una trappola nell’intestino della metropolitana per ridurmi in pezzi, fare scempio di me.
Ancora una mano, ne riconoscevo tutta intera la sua consistenza, e la pelle, e la nodosità, ed il suo inconfondibile odore.
- Ho vegliato notti intere su di te. Un bel bambino eri –
Cercavo, cercavo, cercavo la sua faccia. Nel buio non la trovavo.
- Ti ricordi? Ti svegliavo e ti mettevo a dormire. Ti allacciavo le scarpe –
Mettevo la testa sotto l’invisibile consistenza della sua, e l’abbracciavo forte, dimenticavo la paura. Io bambino e lei, tutt’ossa e tutto cuore, ad accompagnarmi passo dopo passo. Ad insegnarmi, a farmi vedere. Io come suo figlio e ancora di più.
- Mi chiamavi ed io ti potevo rispondere grattando con le dita il lenzuolo, ci siamo detti addio così. Non restare qui. Non senti che freddo? Torna e mangia che sei così magro!-
E svaniva, e mi trovavo a stringere le mie stesse braccia.
- Non mi conosci ed è meglio che non mi vedi. C’ho avuto la peste, buttato in una buca e bruciato. Mi faccio pietà, mi sento solo, ecco come mi sento. E la puzza di quei giorni me la ricordo –
- Il mio giardino si secca, i miei fiori hanno sete, devi dire a mia figlia di comprare un altro rastrello. Sono la nonna, sto qui, nel prato, accanto al cedro del Libano. Nel cimitero non ci voglio tornare –
- Che tu ci creda o no sono state le formiche a divorarmi dentro il letto dell’ospedale. Proprio loro, sembra impossibile. Le formiche, proprio loro, le formiche, le formiche –
- Ti ricordi quanto mi faceva male la testa? Ti ricordi quanto ti volevo bene? La fotografia della prima comunione non l’hai persa? Io non ho più la testa, mi faceva troppo male , me la sono strappata. Il tuo padrino, sono tuo zio Lorenzo –
Mi trovavo seduto, a galla in una chiazza di celeste marcio e di un rigetto che puzzava sempre di più, di umidità e di qualcos’altro. Stavo a galla con i muscoli duri e chiusi, in difficoltà per le cattive intenzioni di una colica d’aria.
Sentivo come una merda di piccione sulla testa, qualcuno mi sputava.
- Assomigli a mio figlio, sei uguale, mio figlio duecento anni fa. Gli stessi occhi, i capelli, il naso. Figlio mio, ma sei tu un’altra volta? –
- Vienimi a cercare, dobbiamo ancora parlare, il mio amore si è sempre spiegato male con te. Non era poi così arcigno il tuo nonno Aldo.-
- Sai di essere il centoquattordicesimo venuto dalla metropolitana? –
- E’ stata la nostalgia a fregarmi, la nostalgia per il mio cane, schiacciato cinque minuti prima di me. Ti sembra inverosimile? Ti pare esagerato? –
Uno strattone, una spinta nel nulla, una vigliacca gomitata.
- Mi mancava l’aria, volevo più aria e così ho imboccato la finestra. Che volo! E menomale che il cuore s’è fermato un attimo prima. Meno male che lo schianto è avvenuto quando ero già volato fuori di me. Che fortuna, non credi? –
- Ma sei tu? Non ti ricordi il ponte, non ti ricordi quanto piangevo? Potevi fermarti, dirmi qualcosa, invece hai tirato dritto. Bel casino hai combinato! Io sono qui perché tu te ne sei andato –
- No, non è vero, ma quale ponte? Ma quando? –
Piegato su me stesso, i pantaloni pisciati, il freddo. La paura e il freddo e la paura.
- E tu che diresti se ti gettassero in una fossa comune, in un grosso buco pieno di altra gente? E se poi, sulla fossa comune, invece della lapide, ci costruissero un sfottuto palazzo? –
- Ei dì, sai per caso giocare a scacchi? Pensa che fortuna, mi era rimasta la scacchiera da viaggio nella giacca del pigiama –
Ritmicamente qualcosa si muoveva. Una danza invisibile, il rumore di due piedi sbattuti con forza sul pavimento. L’agitarsi di due braccia frenetico, l’ostinazione e l’impegno. Ma nessuna forma definitiva.
Ma le tante voci adesso svanivano nel nulla, tanto da farmi sentire ancora di più il gelo spaventoso di una solitudine ed un silenzio probabilmente eterno.
Qualcosa mi tirò leggermente in avanti. Non potevo vedere un’ombra in quel buio ritornato completamente nero, ma l’ombra c’era lo stesso. Appariva da lontano, si allungava fino a me, la sua faccia, il suo nome, mi penetravano nell’ombelico.
- Rosanna? –
- Ti riaccompagno sulle rotaie, vieni via –
Erano passati tre terribili anni. Il suo profilo si avviava lentamente davanti a me. Io ch’ero costretto a seguirla. La maschera d’ossigeno, la vita che usciva da lei, aggrappato alle sue mani, le mani che improvvisamente erano fredde.
Rosanna, la morte ed io.
Sentivo una porta che si apriva, mi accorgevo di un’aria diversa. Ero in corridoio. Il profilo e la sua ombra sempre mi precedevano in un buio più debole. Sentivo l’alito, il respiro, il suo senza alcun dubbio.
Il battere metallico, lì dove mi aveva lasciato, riprendeva leggero. Un brivido, qualcuno mi sfiorava camminando a tentoni in senso inverso. Finalmente le gambe si fermavano.
E sentivo il suo abbraccio e l’urto delle rotaie.
- Stenditi qui –
Avrei voluto, avrei voluto cosa? Ma due luci forti mi portavano via.
- E’ un miracolo che sei ancora vivo, hai rischiato di essere travolto. Puoi parlare? –
Mi sollevavano, una luce girava su se stessa. Rosanna era lì, mi salutava con un cenno e scompariva nel suo.

Aspettare


Io non so aspettare, non ne sono capace. Aspettare che la domenica si esaurisca completamente. Aspettare lo sbaglio. Aspettare che il colore cambi di colore. Aspettare l’aprirsi e il dissolversi di una nuvola, aspettare di nuovo la pioggia. Aspettare che il pensiero compia il suo giro intero, aspettare il ricomporsi del concetto.
Aspettare che il campanello si tramuti in discorso. Aspettare l’attrarsi. Aspettare il concretizzarsi di ogni liquidità. Aspettare che avvenga il seguito.
Aspettare il ritorno di quella strana luce. Aspettare l’antecedente, l’amaro conseguente, aspettare il capovolgimento, il momento buono.
Aspettare di aspirare, di non fissarsi, d’incanalare. Aspettare di masticare, ruga contro ruga, di porre. Aspettare il benedetto, aspettare un esempio, aspettare chiuso, aspettare a orecchio teso.
Aspettare dietro la porta.
E persino si può udire che, dal di fuori, la chiave viene estratta dalla tasca ed avvicinata alla serratura.
Momenti che si annodano, la chiave ora sembra entrata del tutto. Ora, in un fruscio negativo, pare che si sia rituffata nel più profondo della tasca.
Un passo indietro un passo avanti, un passo indietro, un altro avanti. Pronunciare, non è certo facile spalancare la bocca adesso, va valutato cautamente. Aspettare riacquista brutalmente il suo significato.
Danza tribale dei contrari, contrazioni a ruota libera. Sussulti. Da quel punto non ci si può spostare, non si riesce nemmeno a dare le spalle. Indubbiamente è il punto più disperato della casa.
Senza accorgersene si è in terra, ma sempre con la faccia rivolta alla serratura. Aspettare diventa endemico, e ci resta.
Un passo avanti un passo indietro, un altro avanti un altro indietro. Gli sporadici clic della serratura sono falsi sogni: Ogni fruscio è bugiardo, è solamente provocatorio.
Così la speranza del campanello è in agonia. Le ombre di una tragedia arrivano a bomba. Invano aspettare.
Aspettare l’aprirsi, aspettare gioiosamente il rivelarsi. Aspettare quale altro tipo di aspettare? Aspettare di aspettare l’unico e specifico clic, il signor clic, in qualsiasi modo si voglia presentare.
Forse ha fatto le scale all’indietro, forse è in strada nuovamente. Forse non vuole proprio.
Forse i suoi pensieri sono in ritardo sulla metropolitana, lontano da qui. Forse sta provando ad aprire qualche altra porta. Forse è crollata davanti al mio nome in alluminio.
Un passo avanti e un passo indietro e la voglia di enunciare un’implorazione qualunque.
Dopo un secolo un rumore, l’eco della chiave è rimasto. La gola è risucchiata nei polpacci, i quali anche loro vorrebbero implorare.
Forse una mano, no, la sua impronta sulla maniglia.
Aspettare il coraggio di aspettare. L’affanno. Le orecchie smarrite.
Di nuovo un soffio, un soffio gelido. Il ripetersi della chiave nel dorso? Lo straziante inizio di un nuovo aspettare.
No è il citofono, proviene dalla metà di se stessi.
Aspettare diventa di gesso, una colata sul vissuto, una serie di calchi del già visto.
Si tratterà di aspettare il termine di se medesimi, per consunzione aspettarselo. Davanti ad un muro bucato da un’unica stramaledetta possibilità, che doveva arrivare, che ci dovrebbe pur essere.
Ci si trova invecchiati, essiccati e stecchiti quando il clic è chiaro, è senza dubbio lui, è quello.
- Antonio ? –
La chiave entra, collima, gira, interrompe. Apre.
Oltre la chiave ha la spesa e sorride.
- Antonio ? –
- Ma io non mi chiamo Antonio -

Qui abita un mostro


Qui abita un mostro. La clinica ha i divani, i letti e le tende di un colore che assomiglia al verde penicillina, ha i portacenere sempre sporchi, ha la grande vetrata, ha il giardino e nel suo mezzo una sedia di plastica bianca sempre sporca di cacca.
Non volevo arrivare fino a qui, è stato lo sconforto, è stata la fatica, la tristezza, la resa è stata, un tremore continuo all’altezza dello sterno. Il non ricordare e il non voler più dire. E’ stato il fallimento.
Un giovane vecchio cammina curvo, con passo affannato all’esterno della veranda con un sacchetto di plastica in mano. Il sacchetto è vuoto, cammina velocemente, combatte con l’affanno, ma non si può fermare. Guai, se interrompesse la terapia, si fermerebbe per sempre. Il moto perpetuo è l’unica soluzione. Ma quanti anni può avere?
Qui abita un mostro.
Le gocce dolciastre e le pillole misteriose della terapia tre volte al giorno, tre volte al giorno e sempre. Dentro le gocce, infilati lì dentro, gatti sgozzati, diavoli danzanti, interminabili silenzi, litanie di parole, canzoni maledette, echi, lacrime dense come marmellata, crocifissioni e tempeste, sangue e rese, silenzi, abbandoni. Insignificanti e invisibili speranze.
Dove sono i miei figli, io c’ho due figli, ed io penso forte a loro e tutto mi gira intorno, intorno e dentro ai loro pensieri.
Nella stanza in fondo si sente ridere, c’è un piccolo uomo che ride e non sa smettere. E’ condannato così, ride da solo, ride sul sonno tormentato di tutti, ride con un dolore senza fine. Non sa, a parlare non riesce, ride sommesso l’intero giorno e la notte. Oppure è un ghigno?
Una donna grassa si racconta a Dio, prega e pulisce, mette in ordine un tatuino, un paio di occhiali e una penna che macchia e non scrive. Sposta questi oggetti su di un tavolino. Pretende la santificazione, la vuole perché è rinchiusa in quel verde penicillina da sempre, e sopporta e prega. E’ stata una voce una notte a dirglielo. Aspetta la santificazione.
Sobiria dove sei, fammi sentire la tua voce, dal fondo del giardino, da dietro il cancello, nel cuscino, dentro il telefono. Sobiria tu taci ed io ingoio bicchieri di tranquillanti…
Ma l’energumeno sprofondato in un sonno profondo in quel verde, improvvisamente si scuote, spalanca gli occhi ed urla.
E ancora una volta risuona l’ora delle gocce, l’inflessibile terapia. Ancora una volta, ancora e ancora una volta.
L’energumeno digrigna i denti fino a spaccarseli. Lo fanno scivolare dal verde penicillina e lo trascinano via.
Tutti chiedono sigarette, anche se non le fumano, girano su se stessi ed implorano sigarette, oppure accendini, anche se non fumano.
Un magro barbiere mi si para davanti all’improvviso e mi chiede:
- Come hai dormito stanotte? Io non ho dormito, non so a cosa ho pensato. Tu hai dormito, dimmi la verità, così, con la tua verità anch’io mi ricordo, mi devo per forza ricordare a cosa ho pensato. Ce l’hai una sigaretta? Dammi la sigaretta, dentro la tasca ce l’hai di sicuro…Chissà a che cosa ho pensato questa notte –
Mi sfilo, voglio andare a prendere un caffè nello striminzito bar verde penicillina gemito di gente e vedo. Vedo il prete che mi ha sposato, sono sicuro che è lui e glielo chiedo. Ma lui, lui dice di essere una specie di maresciallo, dice e tira giù orrende bestemmie. Ma è sicuramente e proprio lui, mi mette una mano nella tasca.
- Non lo faccio apposta, rubo e non me ne accorgo mica –
- Tu sei un prete, tu m’hai sposato –
- E’ probabile, si forse è veramente possibile, questo forse spiega la croce –
E’ una balla della mia depressione. Una balla colma di bestemmie. E’ lui che inconsapevolmente m’ha ammalato?
Tina ha il naso ad uncino e le dita a martello, dondola e dondola e dondola al cospetto di un grande albero fermo lì da secoli. La guardo dalla vetrata, qualcuno vuole fermare l’albero. Dalla vetrata al corridoio ventoso del reparto, una donna anziana mi si aggrappa al braccio e mi dice che non riesce a dormire, lei le medicine le prende, ne prende anche tante, a manciate, ma di dormire non se ne parla, vuole che stia con lei ad aspettare. Che faccio, la prendo a calci?
Antonella ha deciso finalmente di ricominciare a parlare, esce dalla sua stanza e bussa alla mia porta.
- Te l’ho detto come ho tentato d’ammazzarmi? Col gas, con la testa ficcata dentro al forno. Ma mio marito, il marito che non amo più perché non fa altro che contraddirmi, dice che ero appesa fuori della terrazza prima e pronta e decisa a strozzarmi poi –
Sobiria tu sei qui e cosa mi hai detto, non l’ho sentito, io non voglio sentirlo.
Questa è la casa del mostro.
E questa è una crisi di panico, il braccio sinistro mi trema incontrollato, non riesco a rimanere dritto, respiro forte, a bocca spalancata, non me ne accorgo e piango. Adesso mi faranno un’iniezione e dormirò, oltrepasserò l’angoscia e sbriciolerò ogni pensiero. Un po’ di bava sul cuscino ed il sonno, il mio sonno, quel sonno che è tanto che non voleva arrivare.
Seduto sempre sullo stesso divano ripete al nulla la sua frase:
- Mio padre è morto, se n’è andato mio padre. Mia madre canta la sua canzone. Mia sorella è seduta sulla sedia a rotelle, non riesce nemmeno a pisciare da sola e allora all’ospedale ci sono andato io, ho preferito così –
Questa frase ripete tutto il giorno sotto la finestra stracolma di luce.
E il giocatore di scacchi? E’ un vero fenomeno. Gioca a scacchi sempre e solo contro di me, lui insiste ed io non me la sento di rifiutare. Mette in atto mosse micidiali, poi ci rinuncia e sbaglia a bella posta, per farmi vincere, per prendermi in giro. Ma ecco che crolla con la faccia sulla scacchiera, la schiuma dalla bocca, i tremori, si divincola, butta giù tutto.
- Alessandro si sente male, è in terra, ma che fa, sembra che muore? –
E’ un genio epilettico quello.
- Mi dai una sigaretta? Me lo offri un caffè? Me l’hai già data la sigaretta? Fratello, dammene un’altra fratello che me la tengo per dopo. Senti, e una sega te la fai fare? Fa bene una sega, molto meglio di tutte queste medicine di merda –
La ragazza con gli occhiali mi racconta con la sua radio gracchiante a volume troppo alto che ha bruciato la sua patente perché la fotografia era inquietante, non sembrava la sua, non corrispondeva proprio alla sua realtà di adesso. Poi anche il passaporto perché il colore degli occhi e l’altezza erano una cattiva bugia. Sì, sua madre, era lei quella del passaporto, era lei che una notte aveva sognato di strangolare. Le aveva rotto gli occhiali a calci ed altro. E in più, proprio qui, in clinica, un paziente s’è innamorato e le ha ficcato un cellulare nel sedere, lasciandoglielo dentro e andandosene come se niente fosse. Da allora telefonate, voci, numeri, tutto dentro, un casino incessante tutto su per il culo. Non riesce più ad andare in bagno, e nemmeno a pensare è più capace.
Questa ragazza, mischiata al verde penicillina, io credo d’amarla, e la odio perché è il mostro che vive dentro di me. Mi guarda e non parla, è la mia malattia.
Entra qualcuno nella camera, non ha capelli, forse è una donna ma non è sicuro. Trema.
- Scusi questo è l’ufficio persone scomparse? Io la mia giacca non la riesco a trovare-
Un urlo liberatorio da in fondo al corridoio, più che un urlo un forte sospiro.
E’ qui che il mostro soffre.
Una nera e grassa con due grandi occhiali mi dice di aver tirato giù e rovinato molti quadri di un museo, perché tutti gli occhi dei dipinti la guardavano in modo severo, volevano rimproverarla, insomma l’accusavano, e poi anche quelli dei turisti. Il dottore era un turista mischiato fra di loro, il carnefice scelto fra tanti. Erano tutti occhi neri. Occhi neri maledetti.
Maurizio è un poeta che non riesce a scrivere più, ha paura e crede di avere la febbre alta. Guarda immobile i suoi piccoli piedi.
- Hai una sigaretta? Hai una parola per me? –
- Senza sigaretta non riesco a dormire, non riesco a pensare, non so cosa significa guarire. Hai questa cazzo di sigaretta? –
La voce del malessere corre dentro i termosifoni e nell’acqua corrente, illumina i corridoi sempre accesi. Sobiria tu sola puoi tirarci tutti fuori di qui, accompagnarci al cancello e mandarci via con un sorriso. Ma tu non hai proprio intenzione di farlo.
E’ qui che il mostro è prigioniero.
Bruna oggi deve uscire, mi trascina fuori in lacrime a salutarla, si aggrappa a me, stringe un piccolo pezzo di vetro e se lo conficca nella vena del polso.
- Questa è la mia famiglia e tu sei mio padre. Non voglio uscire di qua -