martedì 27 novembre 2007

Il ponte romano




Abito fuori città, non ricordo di aver preso la macchina e aver guidato per 40 chilometri fino ad arrivare in pieno centro storico. Non ricordo come sono arrivato sul ponte Garibaldi, il più bello e il più antico. Ricordo solo una grassa risata cattiva e poi il ponte.
Il ponte romano, stretto, adatto solamente al passaggio dei pedoni, in continuo restauro, sempre attrezzato di assi di legno, tubi e putrelle. Un ponte che la città vuole assolutamente preservare. Sotto, il fiume scorre marrone e nauseabondo, pericoloso, infetto, dall’animo infido. In alto, il ponte è lastricato con pietre lucide e scivolose per il tanto passare dei pensieri e delle scarpe, per la sua storia che avanza lentamente ma non si concede pause. Lì non si passa solamente , lì ci si sta, è anche la casa degli ambulanti, di certi derelitti che parlano al fiume, di qualche pittore, di ladri che scrutano i passanti. Di certi intellettuali che la città la percorrono solo rigorosamente a piedi. Qualche frettoloso, ma raro e fuori posto. Poi le signore con le borse che costano care, che guardano dritte e tese in avanti, senza dare confidenza a nessuno. E infine gli uccelli che svolazzano in gruppo, guardano, ti deridono e ti cacano addosso.
La risata mi è ancora dentro e si ripete da zigomo a zigomo, da orecchio a orecchio, cavalca il naso, costruisce uno sguardo perplesso imbecille. Sono sul ponte, all’inizio, appoggiato alla pietra del cornicione, mi guardo i piedi, tiro fuori una mano dalla tasca come fosse un ingombro. Le dita sono ben strette al un telefono cellulare. E’ acceso, squilla, non rispondo subito, mi pesa il braccio, gli occhi mi vanno addosso ad un barbone che è lì, seduto in terra, a solo un metro da me. Anche lui mi osserva. Squilla il telefono ancora
- Pronto,T’ho chiamato? Davvero? -
- Mi ricordo che ridevi e ridevi. Che ho detto? Ho detto che me ne vado per sempre-
- A certo, grazie infinite, adesso mi ricordo, eccome no, una mia continua pretesa -
Il ponte Garibaldi, la memoria che torna, e il compatimento del barbone e la sua testa, enorme.
- Ti devo implorare ti devo, e poi ti metti lì rigida e aspetti, e male lo sopporti perché ti vedo che ti viene da vomitare. Certo che sì, vomitare –
- Urlo? Non urlo, te lo dico, rifletto, si che te lo rinfaccio –
- Un sospiro, di più non ti sprechi, un gemito e basta -
Un tremore mi prende, una rabbia, una specie di… Il barbone mi dice qualcosa, fa segno di avvicinarmi, prende la sua bottiglia di birra e me la vuole dare,
- Non abbassare, aspetta, dimmi che non ti piace, dimmi perché. Guarda che se non parli mi ci butto davvero. Come dove? Nel fiume, qui sotto –
Mi sorprendo a dire una cosa del genere, il barbone si allarma, è infastidito dal mio minacciare crescente, è quasi sicuro anche lui che mi ci butto davvero, vuole alzarsi, ma pesa.
E ribadisco.
- Lo so fare soltanto in un modo, e allora? Casomai sono tre –
- Sì va bene, solamente appoggiato a sinistra, sì va bene, non parlo e sudo, si va bene-
- La posizione 67 non riesco a rifarla, non c’è verso. E’ dispari, è difficile per la miseria, è impossibile –
- Ti ho conosciuta che manca poco mi mangiavi un orecchio. Come sporco? Ma quando mai? Può capitare no? –
- No, di mutande bucate ce n’ho un paio solo, ci sono affezionato, ecco perché non le butto. Vogliamo allora parlare di te? -
- Va bene , tagliamo corto,io mi butto e più non se ne parla ne di te ne di me–
Tutto il ponte mi guarda, si aspetta la tragedia o ride, oppure mi compiange. Lei mette giù il telefono, un piccione fra i piedi mi vuole far perdere l’equilibrio, mi piego sul cornicione. Quelli mi osservano, è un bel pezzo di teatro davvero
Il barbone vuol dire la sua
- Di un po’, ma sei fuori di testa? Ti vuoi buttare? E buttati. Viziato e ricco –
- Pronto, pronto ma che , ci sei o no, pronto –
- Ma guarda me, ma falla finita, e io che dovrei dire, mi dovrei essere ammazzato da un pezzo. Ho un letto di cartone, le pulci, lo scorbuto, la sfiga, le ragnatele in testa. Ma c’hai tutto c’hai, anche il cellulare e che altro, una bella macchina? La casa al mare, una schifezza di lavoro qualunque, una domestica? –
Il piccione non mi da tregua, adesso mi svolazza sulla testa, il barbone mi morde, il cellulare suona.
- Pronto, tu il telefono in faccia non me lo devi sbattere che io mi sto per ammazzare. Cosa? Lo studio legale? Ma che, adesso non ho tempo adesso, ma che avvocato, ma quale? Hai sbagliato numero, fetente –
Il cellulare mi sfugge, schizza via dalla mano, lo riacchiappo proprio sotto la suola di una scarpa.. Mi è appare davanti un qualcuno come nei film dell’orrore.
Rifaccio il numero,e così mi viene da dire di slancio
- Io adesso mi voglio ammazzare -
Quest’altro è troppo esile, mi prende per un braccio, ha un occhio aperto e l’altro chiuso, barcolla, da dentro di lui esce una voce.
-. Se vuoi ti do una spinta, ti dico che meglio così, che questo mondo è una schifezza vera. Ma tu , prima di volare di sotto, qualche spiccio? Per la mia benzina hai capito?–
E il barbone mi fissa ingolosito le scarpe, vuole assicurarsi le mie.
E anche se i motori della città tutta intera e le voci continuano a disturbare la mia autentica disperazione, tengo il mio cellulare ben saldo.
Il piccione sta prendendo la mira. Mi sposto nello spazio vitale di un musicista ch’è lì che si attrezza a suonare
Ruggisco.
- Non mettere giù che ancora c’ho da dire, voglio sapere di mio figlio, figlio di chi è mi devi dire-
Ho le vene di fuori e mi esce uno sputo, il musicista è paziente ma ho la sua coda dell’occhio incollata
- In questo posto qua io mi guadagno da vivere, se urli suonare non posso, vai un po’ più in la a soffrire –
- Visionario? Pazzoide? Mentecatto? -
- Ora basta, ora lo faccio, ora mi butto giù –
E la tromba del musicista si mette a farmi da colonna sonora
- E’ una tromba, non sono a un concerto. Mi sto per uccidere , non è un’interferenza–
Mi sposto, il cellulare ribolle e anch’io. E una specie di pipistrello mi si para davanti, m’impedisce l’accesso al cornicione. Il fiume continua ad aspettarmi. Il pipistrello è basso di statura, di carnagione è troppo bianco ed ha il cappotto grigio abbottonato fino in cima. I suoi capelli sono radi e pochi e gli occhiali due televisori passati di moda.
- Dammi quel telefono fratello, ci parlo io, magari è meglio, può darsi che risolvo –
Il segno della croce, e una lotta comincia per la conquista del mio cellulare.
- Vivere è sacro, pregare è un obbligo. Fatti aiutare. Cantiamo un salmo, diamoci da fare. Fammi parlare e vedrai. Dio ti osserva. Glielo dico al telefono e la facciamo finita. Dì, sai servire la messa? –
Un calcio negli stinchi e la lotta finisce. Sul ponte rimbalza l’eco dei suoi anatemi. Intanto nella colluttazione se n’è andata la comunicazione. Il cellulare ricomincia a ballare.
- Pronto, io non sono Andreina –
- Pronto, il dottore chi? Ma che cosa vi è preso, ma che cosa vi ho fatto? E come se è sbagliato –
Casco a sedere per terra con vicino il solito piccione che non si contenta di avermi cacato sulla testa. Rifaccio il numero e lo rifaccio ancora
- Pronto ?–
Ha riattaccato. Piango, urlo o bestemmio?. Il barbone sta raccogliendo le scommesse, il tossico rilancia, il musicista ha accettato.
- Sto per cascare guarda ! –
Il musicista smette di suonare e mi punta furiosamente un dito sulla faccia
- Palle non se ne dicono –
- Per esempio potresti venire a soccorrermi. Come un appuntamento? Come c’hai altro da fare? Come non ti importa e basta? –
La batteria del telefonista sta per finire, a pochi metri da me improvvisamente mi sembra di vederti, ma com’è che sei qui ?. La folla dice che a questo punto mi devo tuffare, se no che figura ci faccio.

domenica 25 novembre 2007

Lunghe detenzioni




Prigioniero di che cosa? Prigioniero a vita di un’unica frase esca, di un cattivo sogno, di un magnifico credo. Di un muro portante e di una finta finestra, di una città labirinto e cimitero. Prigioniero di una sola bugia e di una mano destra. Di una fissazione, di una perfida emozione, sempre la stessa e ripetuta negli anni. Prigioniero di un verbo coniugato senza perdere fiato, di un mito maledetto, di uno spazio sfinito e di un tempo lacerato e morente.
Prigioniero della geometria e dei suoi risvolti psichiatrici, di un ottuso e perpetrato rispetto e di qualche sottile analogia. Prigioniero dell’entropia, di una simbologia, dell’analisi logica.
Ergastolano di una splendente morale corrente, delle spalle al muro, di un angolo cottura e di un letto cigolante a due piazze Di un solo semaforo, di un senso unico e di un famigerato raccordo, di soli cento passi, di un urlo solamente pensato, Di un solitario cancello, della distanza che c’è, di un ben arredato seminterrato, del ripetere cadenzato e di un rumore solo apparentemente molesto, di un camminare continuato, ostinato, scomposto.
Prigioniero di codesto amore e di un perché torturato e dei suoi gesti da camaleonte. Prigioniero ancora fra il colore e la mente,chiuso dentro una fronte, chiuso a vita dentro una sfumatura, un mezzo sorriso,un sospettoso silenzio, un tic nervoso, un solo naso e due soli gomiti, un solo racconto, due gambe, un tramezzo che prima non c’era, un colpo di tosse, un solo centimetro di pelle nuda, un sudore.
Prigioniero di un guasto, dei pezzi di ricambio, di un volontario dolore, dell’effetto nefasto di un pezzo di carta, di un quaderno perduto, di un avverbio e di un’esclamazione.
Prigioniero per sempre di un numero avverso, del telegiornale delle otto di sera. Del segnale e la notizia dentro la notizia, Prigioniero del necessario obbligatorio, dei conti che tornano. Prigioniero di quel piccolo rettangolo blu, dell’unica finestra sul cortile, dei racconti di mare, di una nave che riposa sul fondo, di un vecchio cannone arrugginito. Prigioniero a vita di quel tramonto messo lì a bella posta. Di una pietra e di un legno, di un sacrilego me stesso, di quel vento che prima non c’era.
Prigioniero per gioco, per finta, per piangere un poco.

lunedì 12 novembre 2007

Un artista




Un artista. Una vita per immaginare, e scrivere, e scoprire. Una vita per curiosare negli occhi degli altri, camminando, bussando, chiedendo. Una vita insieme ad una vecchia macchina fotografica, a scrutare, a cercare di vedere più in fondo. Una vita che ha lasciato i suoi avanzi nella vaghezza di un presente inquieto e confuso. Un’indigestione velenosa. Adesso i suoi ritratti appaiono sarcastici, vuoti, bugiardi, chiusi in certe scatole e circondati da specchi. Adesso fotografa continuamente se medesimo, adesso gli occhi dei suoi ritratti lo sbeffeggiano, guardando attentamente lo sfidano. Lo ingiuriano pubblicamente. Lo cercano per urlargli dietro volgarità senza fine
- Sei un artista? E che artista! Fesso –
Ha anche scritto nella preistoria dei suoi anni, ha provato a frugarsi dentro, ma ha visto l’irraccontabile. Si è fermato rifiutandosi di saperne di più.
Ha dormito e sognato sul divano, perché il letto non è più suo complice, perché dal letto rischia di sentire il brontolio diabolico della vicina di casa. Ma anche la prima notte sul divano non è andata come doveva. Tossisce e geme, spalanca la bocca e si toglie la mascherina da aereo sugli occhi, macabra abitudine per scongiurare ogni pericolo di luce notturna. Com’è andata? Anche dal divano, anche da lì gli sembra di sentire la psicotica vicina ?
Per salvare la giornata da questo fastidioso pensiero prova e riprova a dire che anche stamane può definire se stesso. Un artista.
Una stravagante persona di età a volte assolutamente misteriosa, che vive dentro una specie di caramella, un mausoleo di zucchero filato vecchio di anni, una galleria d’arte di gusto vomitevole, una confusione intellettuale cronicizzata, una casa affollata di oggetti e di umori che devono per forza, ma non ce la fanno a stare vicini. Montagne di fogli scritti, vecchi, ingialliti, messi così, dice lui, a maturare, ad aspettare chissà. Addosso a cuscini francamente stomachevoli, piatti e bicchieri, statuette, dei pagani, santi, papi e parenti, incensi e icone, pastelli e specchi, specchi a moltiplicare. Poi pietre su pietre, appoggiate ovunque, pietre levigate da dita nevrasteniche, mai ferme, che ritornano e ritornano e consumano, alla ricerca di qualche pensiero svanito, fuggito improvvisamente nel nulla. Ed ecco gli scaffali sopra il divano. In alto tante mele verdi vere e finte, maniacali, ossessive, preoccupanti, a ricordargli un periodo vuoto, un tentativo disperato di riempimento. Mele seguite da altrettanti barattoli vuoti, che non vogliono più essere guardati, ma nemmeno buttati per carità, altrimenti chissà quale orribile sventura. Ed ecco che ci si imbatte in una specie di tavolo da lavoro pieno di gessetti colorati, fotografie tagliate a pezzi, rimasugli di nastri adesivi, matite e pennarelli inutilizzabili. Lì lui si siede appena sveglio, guarda, prova a mettere insieme, disfa e dimentica, dimentica chi è stato e chi è, con gli occhi persi in quel guazzabuglio creativo. Allora si precipita verso il telefono in cerca di una voce, di una conferma, di un appiglio sicuro, cerca nei numeri. Ma i numeri non gli sono mai stati amici, ci rinuncia subito, altrimenti deve arrendersi ancora ad una tortura estenuante che puntualmente si ripresenta. No, meglio aspettare che il telefono squilli così qualche ricordo potrà emergere anche questa mattina.
- Pronto, non è l’ospedale, questa è casa mia –
Vestirsi e uscire, scegliere i soliti calzettoni rossi, da anni solamente quel colore di calzettoni. Poi davanti allo specchio per ricordare bene, per vedere che il sangue circoli comunque, prendersi a schiaffi per favorirne il flusso.
- Non sono morto neanche stamattina -
Uscire in strada a contare forse, contare tutto, targhe delle macchine, autobus, quante donne e quanti uomini, vecchi e bambini, storpi e mendicanti, ricchi e poveri, nasi, orecchie natiche e guance. E zigomi, quanti sono quei maledetti zigomi?
- Quanti sono i matti? Ci sono e dove? -
E ogni volta guarda agghiacciato se stesso prigioniero di quella fissazione orribile.
Al telefono è meglio di no, allora vuole provare a ricordare un passato probabile, si aggrappa ad un sasso, un rimasuglio di una sua precedente fissazione, chiude gli occhi e chiama se stesso.
Allora lo specchio più grande. Lo specchio sopra il divano parla di una testa di tartaruga che imprigiona un cervello di un collegiale con tanto di divisa, troppo biondo e troppo ingenuo, e un ‘anima schizofrenica in balia dei posti, degli odori e dei sapori. Un dinosauro ancora miracolosamente vivo, nonostante i solchi e il sonno sempre più pesante. Un dinosauro che di se stesso non si ricorda più. Certo che guardarsi allo specchio più grande può essere veramente insopportabile. Va bene, e allora, per non essere sopraffatto, come ogni mattina, come dopo ogni farneticante risveglio, si aggrappa al desiderio, che ancora c’è, che ancora può tentare di dire la sua.
A sì?...E la confusione comincia a cantare le sue canzonacce. Toraci, seni, nasi, natiche, caviglie, bocche, cosce, in una indefinita insalata sudata che gli ordina di eiaculare e poi basta. L’amore è un’altra cosa, l’amore è un dolore insopportabile che lo specchio non osa nemmeno suggerirne il ricordo.
Si ficca la mano nelle mutande, sbarra gli occhi. Non sa come continuare perché il muro si agita, bisbiglia, ricomincia.
E’ la sua testa oppure il muro? Dall’altra parte, sicuramente la vecchia, quella vecchia che ce l’ha con lui, che vuole farlo arrendere, che lo costringe ad impazzire.
Annaspa, apre un cassetto, apre il secondo, ne cade giù tutto l’intero contenuto. E’ in cerca di amuleti. La vecchia batte, urla, ride, bestemmia, lo chiama, sicuramente con lui ce l’ha. Ha chiesto pure a qualcuno dei suoi amici di ascoltarla, ma niente, loro non l’hanno sentita.
- Sei un artista, e sei pure un po’ strano, ma non guasta, non guasta –
Ecco gli amuleti: una pietra blu, un corno, un piccolo budda, un santino, e alla fine Padre Pio. Li schiera tutti sul tavolino, sgrana gli occhi, aspetta. Suona il telefono. Chiedono ancora dell’ospedale, sbagliano sempre, portano iella, lo fanno apposta, scelgono sempre i momenti sbagliati. La risposta è ancora una volta furibonda.
- Le dispiace sostituire il numero 3 finale col numero 5 e non rompermi più i coglioni? Sono superstizioso e così mi verrà un infarto, o forse è proprio quello che vuole? Comunque questo non è un ospedale, questa è la casa di un artista-
sbatte giù il telefono e ripete allo specchio
- Artista?-
La risposta potrebbe diventare un tonfo sordo nel mezzo del torace.
Vestirsi e uscire è l’unica salvezza per sfuggire alla vecchia e agli scellerati cittadini di una città che molto probabilmente lo detesta.
Ed è troppo forte la tentazione di infilare l’amuleto che ha al collo, un lapislazzuli veramente pacchiano, giù dentro il cappuccino. Questo come lo spiega? Come un qualcosa di veramente irrefrenabile, dovuto sempre al collegio, alle vicissitudini della sua vita, a sua sorella, a dei ricordi curiosi, a qualcosa di veramente inquietante che si sta facendo strada nella sua testa di tartaruga. Forse è anche da attribuirsi ad un mago che ha conosciuto anni fa. Comunque l’immersione nel cappuccino va fatta velocemente, per non essere visto. Altrimenti la gente può risultare crudele.
Pausa, improvvisamente sembra essere ritornato in se, si ricorda che ha una mostra da fare, deve dare un perché ai suoi famigerati pastelli, deve ritirare delle cornici, prendere un tram. Sì, ma prima starnutire tre volte. Il ricordo forse confuso di tutto questo da fare lo agita. Si dirige verso il tram guardandosi intorno incredulo
- Questa strada è la mia. Io abito qui? Certo che sì. Sono un artista, certo che lo sono -
C’è un tram fermo, deve sbrigarsi e salire. Salire dove, salire là dentro? Sarà tutto chiuso, con troppa gente. Ecco il ritorno di un’antica fobia, solamente accantonata in un angolo degli anni, insieme a quella dell’allontanarsi, passata come un tornado negli anni della sua misteriosa gioventù. Non è facile immaginarselo giovane, adesso assomiglia ad una tartaruga, o forse di più alla corteccia di un albero troppo lungo e troppo malato.
Ma si trova in terra il suo nemico più imbarazzante: nel fango un elastico solo e abbandonato e sporco, giace.
Sicuro, lui di elastici ogni giorno ne trova un’infinità, ne ha riempito tutti i cassetti di casa. Si tratta di un bisogno irrefrenabile per distruggere quella voce che si fa sentire all’improvviso, che pare seguirlo, persino in strada. Anche l’elastico che giace inerme vicino alle rotaie. Anche quello può servire per non fermarsi in ascolto. La vecchia dovrà tacere prima o poi.
- Io sono che cosa ?…-
E il numero di una targa che passa non troppo veloce gli offre un appiglio, un altro tranello faticoso. Mettersi a contare per non pensare, farsi travolgere. Lo faceva in collegio, lo faceva per combattere tutto quello che non capiva. Un conto delirante e velocissimo correndo dietro alle macchine che lo incrociavano ringhiando insofferenti delle sue attenzioni morbose. Sì, ma non solo. Contare i passi fino al prossimo semaforo e non resistere al bisogno di tornare indietro e rifarlo da capo, almeno 5 fottute volte. Eppure c’avrebbe giurato che, prima di sentire la vecchia al di là del suo muro stava sicuramente meglio. Ma quando? Prima della vecchia lui si ricorda di avere avuto forse un infarto. La paura di morire gli ha imposto per anni continue visite da tutti quanti i medici della città. Questo fino a quando, nei giardini comunali, trascinando il suo cadavere in avanti, non si era imbattuto in qualcosa di simile ad pietra luccicante, che poi luccicante non era. Stretta fra le mani quella pietra la fobia dell’infarto era scomparsa nel nulla.
- Non sono un matto, sono semplicemente un artista miracolato –
Cammina precipitosamente, inseguito da tutto, sognando di raggiungere solamente una tisana e di affogarci dentro se necessario. Ma non può ripassare dai giardini pubblici, deve fare un giro lungo, sempre correndo, per non farsi raggiungere da quella voce, dalla sua faccia che gli sta addosso, la vede addosso a tutti i passanti che incrocia. La tisana gli sembra l’unica salvezza.
Gli appare davanti la stazione della metropolitana, ci s’infila dentro, scende le scale, lì sotto forse la vecchia tace, non può raggiungerlo. Si guarda intorno. Impermeabili, giubbotti, nasi, barbe, foruncoli, braccia, pance, maglioni. Aspettano che il treno arrivi, nemmeno uno sguardo diretto a lui, lo ignorano, sembra proprio che lo facciano apposta. Attende poi quello che tutte le volte lì sotto gli accade, la claustrofobia è in agguato. E come le altre volte la sfida ricomincia. Ecco il rumore del treno, ecco il buio che il neon non riesce a vincere, ecco l’ennesima resa. Marcia indietro ed è già su, affamato di aria aperta.
S’infila nel condominio che la mattina è già passata
E la vecchia gli appare in cima alle scale, protetta dalla penombra, lo sta guardando, è sicuro, sogghigna, è sicuro.
Deve dire qualcosa, e non si dicono nulla. Anche il silenzio di quella pazza è significativo, provocatorio, addirittura criminale. Si tratta di un silenzio pieno di dispetto, quello che precede una coltellata magari. Sta per tornarsene indietro, ma la vecchia scompare, adesso sente solo il suo arrampicarsi. Allora non trova di meglio che urlargli dietro
- Buon giorno signora, buon giorno signora, signora buongiorno ! –
Non può rientrare subito perché è sicuro di sentirsi male, cerca allora qualcosa da fare che giustifichi un’altra fuga e un preventivo ritardo
- Ecco, vado a farmi ricaricare, dopotutto fa bene, anche se costa –
Un inquilino ascolta e gli passa accanto rasente il muro
- L’ha vista anche lei? Quella ce l’ha con me –
La ricarica energetica funziona così…in una sala d’aspetto con un numero colorato fra le mani e un fantasma segaligno che quando arriva il turno poggia le sue mani sulla faccia, carica l’energia, acchiappa un bel compenso e rimanda a casa, dritti ottimisti e soddisfatti. Così funziona. Così l’artista a grandi passi torna verso casa che tutto è favorevole, che il portone e la scala sono ben disposti.
Entra in casa e va alla caldaia, la accende e la spegne, l’accende e la spegne, quattro e cinque volte. Adesso se ne accorge che deve passare ad altra occupazione, per esempio i suoi pastelli, no, meglio mettersi a sedere davanti alla televisione, no, meglio prima sentire se la segreteria gli ha regalato nuovi messaggi. No perché se quella voce ci fosse entrata dentro…anche il telefono gli diventerebbe ostile. La televisione prima e la cena dopo, oppure viceversa. Così si aggira per il suo spazio stracolmo di divinità, tocca tutto e invoca tutto, la voce per adesso tace e un sorriso si fa strada nella sua faccia che a quell’ora e con quella luce assomiglia a un tartufo. Si siede finalmente e per la prima volta si accorge della presenza benevola di un neon montato sulla parete, una luce con la forma di una parola magica:
- Forse –
- Forse posso pensare liberamente, guardare la televisione –
Spinge il telecomando e attende, e, come se ci fosse un accordo il telefono squilla. Ecco l’occasione per rompere l’incantesimo, per raccontare il maleficio che arriva dalla parete, per convincere il malcapitato interlocutore delle proprie capacità, oppure sovrapporre il ridere addosso alla crudeltà della sorte, oppure ancora il non ascoltare, anche se solo per la durata della telefonata, le stranezze che la sua mente propone.
- Pronto !? –
Dall’altra parte della cornetta una voce si sforza di farsi sentire, addirittura di pronunciare. Si tratta dell’unica sua amica ferita da un ictus. Le parole vorrebbero, ma non riescono ad uscire.
- Pollo!!? –
E chissà cos’altro avrebbe voluto dire, con voce esitante, ma cattiva, ma insinuante, ma provocatoria. A lui il pollo non serve, non lo vuole, di altro avrebbe bisogno e in più, per un attimo, gli è anche sembrato che la voce fosse quella delle vecchia e non della sua disastrata amica.
- Pollo pollo pollo –
Lui chiude il telefono con una lunga e ben articolata bestemmia. Cerca un quantunque da fare. Riempirsi immediatamente gola e pancia, schiaffarsi dentro un’intera confezione di mandorle, una decina di prodotti d’erboristeria che sicuramente male non fanno, le pasticche contro l’infarto che forse non ha preso la mattina.
Cerca di ingoiare quel pasticcio che gli ingombra la bocca e colpi, leggeri e ritmati ricominciano dall’altra parte del muro.
- E’ lei, è la vecchia, ancora! –
Lo dice a una fotografia imprigionata in una scatola e stretta fra due specchi, una sua creazione bislacca depositata sul tavolo. Una delle sue opere invendute. Una settantenne infastidita dall’età e intenta a guardarsi una calza a rete maciullata. La donna alza la testa e lo guarda furiosa per poi continuare ad osservare lo sfacelo della sua abnorme coscia valorizzata dalle calze esplose. La fotografia e la scatola finiscono sul pavimento in tanti pezzi.
I rumori dall’altra parte del muro si perfezionano in passi furibondi, cadenzati, insistenti. Un tip tap micidiale. Di seguito colpi sordi e risate forti con tanto di eco. In canzonacce oscene che entrano di forza nelle orecchie e nel naso, che deformano le mascelle. Ancora tonfi. Un esercito di pazzi forsennati non una sola vecchietta.
Lui corre via in un’altra stanza, si tappa le orecchie, urla forte per non sentire. Sbraita e insulta e insulta. Un inferno nel condomino che apre e richiude le porte, che accende e spegne le luci delle scale. . Si continua mentre la notte si sviluppa.
Lui si contorce, s’inginocchia, risalta in piedi, non si accorge di far roteare le braccia, non si accorge che il collo ha cominciato a girare e girare. E tutto in casa sua si schianta. Un’insalata spaccata, un trita trita di oggetti variopinti. Statuette, santini, lampade, convincimenti, piatti, scaffali, souvenir, libri, tic, fotografie, fobie, quadri, ricordi, pentole, la sua arte, tutto vola, salta e si spacca.
Un ennesimo botto sordo quando un’altra mattina umida si fa strada nell’isteria. La porta dell’appartamento di fianco cede facilmente e si apre. Gli inquilini del condominio indemoniato trovano il coraggio e accorrono davanti a lui, seduto in terra sul pianerottolo. Per lui l’incubo appare finito, nella sua faccia le rughe sembrano scomparse, ha gli occhi aperti più del solito, la vena del collo non è più così gonfia.
- L’ho uccisa e è tornato il silenzio –
- Scusi ma ha ucciso chi? –
- La vecchia, la pazzia –
- Ma se questo appartamento è vuoto da anni !? –
- Lei non ha ucciso nessuno e il manicomio è a un passo da qui –
- Come? Sentite, sentite come batte, è ancora dentro allora -

venerdì 9 novembre 2007

Questo sono io




Il bianco e il nero. Il nero. Lo scarlatto, il rosso primario e il blu di Parigi, il viola. Il verde cobalto e l’ocra rossa. Il grigio piombo. Il grigio perla, il verde muschio e il verde veronese. L’indaco, l’indaco, l’indaco.
Il giallo di Napoli, il bruno Van Dyck, l’amaranto e il malva. Il giallo Senegal,il ruggine, il verde bottiglia. Il sabbia. Il verde oliva. E il viola ritorna. E la iattura.
L’insalata e la girandola. Il sogno ad occhi aperti e quello ad occhi chiusi. Il guazzabuglio, l’incubo e il coltello a serramanico. La confusione, la sua bellezza.
E le parole e gli sputi, le urla.
L’evolversi, il silenzio e i vuoti. Stonature.
E i gesti, e i guasti ripetuti e ossessivi.
Della follia il rumore, la voce, il nettare. Calcinacci, un gioco a non distinguere, un muto domandare, un tentativo di peggiorare e confondere volutamente. Uno scucire e non ricucire: Un vomitare. La festa di compleanno dei contrari e dei reietti.
Muffe, escrescenze curiose, intelligenti interiora e bugie. Magie.
E l’insonnia e il fango e di seguito il fuoco. E l‘acqua sporca e il rantolo e la festa. Questo uomo ha tante facce, è vittima e carnefice, ha anima di belva, è cattiveria sublime, è aquila e rettile. E’ lupo, è ragno e squalo. E’inoltre pipistrello. E’ piranha e maiale e tartaruga. E’ il sogno feroce della viltà e della rivincita. E’ il traditore, è la voragine. E’ il Cristo. E’ l’eco della maledizione. E’ il Vudù.
La possibilità, il canto della solitudine, della disperazione l’ebbrezza. E’ una ferita che non è possibile rimarginare, è il dispetto e la ferocia di un bambino, è di se stesso la tenerezza. E’ la bellezza e la malattia. Un vuoto a perdere, l’amore che abbraccia tutto, anche la morte.
Il blu pavone, il blu cobalto, il seppia, il prugna, il terra d’ombra bruciata, il grigio fumo, il lacca solforino. Sempre il viola un’altra volta.
Questo sono io.

giovedì 8 novembre 2007

Settantotto ed altri di me




1) Non so quale altra atrocità aspettarmi dagli altri
2) Detesto la matematica
3) Le bollette da pagare mi provocano le crisi di pianto
4) Per autoprovocarmi la commozione mi invento qualsiasi cosa.
5) Odio le parole crociate
6) Spero sempre, prometto sempre, giuro sempre
7) Non so qual è la verità su me stesso.
8) Mi dimentico facilmente i dettagli
9) Prima di andare a letto chiudo il gas e la porta di casa almeno dieci volte.
10) So di essermi inventato amici d’infanzia che non esistono
11) Bestemmio con dolore
12) Con dolore rinnego
13) Con dolore io fuggo
14) Con dolore lo ammetto, ma ricomincio da capo
15) A dodici anni volevo fare l’amore con mia sorella
16) A dodici anni ho dato un bacio a mia cugina
17) Il collegio. La mia ferita più grande
18) Il servizio militare. L’incubo che mi ha seguito di più
19) Ho paura di me stesso
20) Ho paura della solitudine
21) Ho visto morire mio padre. Le sue mani aggrappate alle mie per resistere alla morte
22) Ho adorato mio padre fingendo di odiarlo
23) Ho visto mio padre legato al letto di una clinica psichiatrica
24) Ho letto sulla bontà e la giustizia
25) Non ricordo quante volte ho chiesto scusa
26) Non mi vergogno di chiedere scusa
27) Progetto continuamente di fare e dire
28) Mi distraggo con patologica facilità
29) Mi dicono che rido troppo forte
30) Mi dicono che ho la coda del diavolo
31) Quando ho staccato la maschera d’ossigeno di…
32) Quella notte in quella casa, l’ago infilato dentro, la prima volta
33) La prima volta che un amico mi ha picchiato
34) Il furore, la rabbia sorda, e poi subito dopo lo sgomento e la pace, così credo di essere.
35) Non amo l’acqua, ne ho paura
36) Di morire ho paura
37) Prima di addormentarmi ho paura, credo volentieri in Dio e in Budda.
38) La mattina al risveglio mi sento perduto.
39) Ricordo il viso di Rosanna, i piedi di Titti e la giugulare di Francesca.
40) Ricordo tutte le mie disperazioni, ma non ne parlo mai a me stesso.
41) Riconosco anche tutti i miei inciampi, uno per uno, ma datarli non so.
42) Degli altri mi piacciono gli occhi e le mani.
43) Mia madre diceva sempre che tutti erano più capaci di me.
44) Penso a me stesso con tenerezza, ma non mi stimo
45) Sono un mangiatore di pastasciutta
46) Posso facilmente contare le mie ossessioni fino a trentasei
47) Io sono la mia unghia disfatta
48) Ricordo a sette anni l’operazione di tonsille eseguita con l’inganno, seduto su una sedia da barbiere e sedato dall’etere. Ho urlato al tradimento
49) Le mie notti di dieci anni fa, piene di vino e di vomito
50) Non sarò mai un vincitore
51) Non sarò mai un carnefice
52) Cerco l’apocalisse e la vedo
53) Come si fa a cantare sotto la doccia? Io straparlo
54) Un barbone o un prete, questo nella prossima vita io sarò. Oppure magari forse…una puttana. Oppure forse un boia.
55) Qualcuno ha messo per me una lettera d’amore nella bara.
56) Sprofondo in un baratro quando mi siedo comodamente
57) Non riesco a dividere ne a moltiplicare, mi sento penalizzato per questo
58) Sono già le cinque del pomeriggio e di giocare non voglio smettere
59) Cosa significa essere attratti dai negozi di ferramenta?
60) Cosa significa detestare le fontane?
61) Cosa significa sognare sempre la stessa minestra di semolino?
62) Io riesco ancora a respirare, e tu?
63) Potrebbe succedere che mi dimentico di respirare? Ossessione numero 40
64) All’altezza dello sterno ho una chiusura lampo, se l’apro può saltare fuori una testa di lupo affamato e mai sazio
65) Il colore arancione mi fa stare male
66) Il nero mi sbatte forte
67) Ieri ho fatto il conto dei miei amici, non torna.
68) Ubriacarmi all’interno di un cimitero? Una sola volta e mai più
69) Medicina fai da te, ossessione numero 42
70) Ho scaricato il gabinetto? L’ho fatto con quale mano? Ossessione numero 51
71) Ah che sarà che sarà? Sarà la solita notte di merda
72) Ah che sarà che sarà? Sarà la solita riunione di fantasmi
73) Di me così pauroso sotto le lenzuola
74) Di me che desidero il cielo ma non lo degno nemmeno di uno sguardo
75) Di me che non comprendo bene
76) Di me che ho un paranoico bisogno di me
77) Di me che quando arriva la sera non ricordo chi sono
78) Di me che racconto di vedere tutti i giorni la morte

I cadaveri di una giornata


E’ un altro, che sempre fa parte di me. Sbadiglia e sorride, sorride sempre e menomale. Religiosamente cammina nell’universo di scarto, universo molto spaccato, sporco alquanto, infetto, riassunto in angoli scabrosi.
Carezza i cadaveri di una giornata, dondola dolcemente la testa. Sbadiglia e li sfiora con la punta delle dita.
Predilige scheletri d’armadio. Annusa scrupolosamente la carta da macellaio. Saltella, canta il suo amore nelle fognature.
Si sveglia di soprassalto, scosso da un rumore lontano di bottiglie e lattine. Gentilmente compone un pensiero con bucce di banana, un altro con pezzi di bambola. Si raggomitola dentro i resti di una scatola. Beve il fiume, beve la pioggia.
Cosa c’è di più struggente di un gigante arrugginito? Cosa c’è di più pietoso di un giornale lacerato? E una scarpa vecchia non fa forse tenerezza?
Ruggine e plastica addolciscono i suoi sogni. Il labbro superiore più grande, forse un occhio di vetro, forse un braccio più corto. Ma non ci pensa alla bellezza, continua.
Un brandello di giacca abbandonata sotto il ponte, sola, ormai indigesta, non più degna di una marca qualsiasi. Le danza intorno, la porta in processione.
Un’altra faccia, ma sempre la mia.
Cammina nel buio alla ricerca di ruote di bicicletta e vecchie fotografie, vecchie pentole e fantasmi di varie cianfrusaglie. Va a dormire circondato da pezzi delle sue bambole preferite. Le ossa di un vecchio tram lo culla no e lo distraggono dal freddo.
Nel suo sogno le mani accarezzano ancora l’inutile, e ancora un chiodo arrugginito piange fra le sue braccia. Nel suo sogno tanta schiuma di detersivo e i denti spietati di una grande ruspa.
La ruspa della morte nera arriva su di lui e lo schiaccia.
Ma la sua testa mozza ancora sbadiglia, ancora una lacrima dal suo occhio vuoto. Dalla sua mano staccata ancora un allegro saluto.
La coda del ramarro rinasce, anche lui raccoglie i suoi pezzi, se li rimette, storti, ma un’altra volta vivi.

Ci stanno i pensieri




Dormo. Guido scaraventato sulla strada, pericolosamente nel mezzo, a casaccio infilo gli occhi tra i fanali. Adesso piove e adesso piango, qualcosa nella parte sinistra di me si inceppa di continuo. E perché adesso canto?
Mica canto, ripeto ad alta voce i cartelli stradali e il dolore.
Volta, gira, stai attento che c’è lo stop, tieniti a destra, occhio al cartello, occhio alla macchina di dietro. Ma che fai deficiente quel passante vuoi proprio ucciderlo? Fermati rifletti e ricomincia. Io, se fossi in te, me ne sarei rimasto a casa. Sai guidare oppure hai voglia di scherzare?
E guardo a intermittenza nel sedile accanto. Mio figlio non c’è, non c’è il suo respiro, neanche i suoi occhiali, la camicia con le maniche troppo lunghe. Sogno di frenare. Voglio telefonare, cercare dentro la notte, se di notte si tratta. Voglio implorare in modo imprecisato.
Adesso la chiamo in un bisbiglio, dopo la curva. Dopo la curva le chiedo di ammazzarmi ancora, desidero sentire un colpo secco, il corpo che se ne va in un colpo solo. Mi formicola il solito scomodo braccio.
Agito il braccio togliendolo dal volante. Ma sono sicuro del sogno?
Agito il braccio e il tremore sale così fino all’occhio. Dalla gola sta arrivando un miagolio. Sei finalmente tu figlio mio? Sei tu anche mio padre.
Mi scortico la fronte, sulla fronte mi sfrego le mani. Guido.
Guido e la mia solita faccia non c’è, c’è la roccia violata da un martello, c’è un tono fesso, c’è un grande occhio allagato, c’è una palude schifosa di moccio. Mamma mia che schifo! Ci sono i pensieri.
Adesso piove o adesso piango, ma piango proprio male io, ma piango come un catarroso pierrot. Oppure canto?
Non canto, ripeto a voce alta i cartelli stradali e il dolore. Poi convulsamente riprendo a dirmelo.
Mio figlio non c’è, gli occhiali di mio figlio non ci sono, il suo respiro di notte non c’è, non ci sono i suoi calci, i pugni a tradimento nello stomaco.
Freno, voglio telefonare, lo voglio fare magari sicuramente implorando, strisciando e ricominciando, con assolutamente alcun senso dell’onore. Uccidimi.
Non lasciarmi ti dico, guarda questa faccia crollata ti dico, guarda come si sfascia. Mi tocco, tocco la faccia di un indiano, secco, morto, messo a sedere e per sempre muto.
Muto per sempre, ciao figlio mio, come va stamattina, che sogno hai fatto? Per favore, inventati qualcosa per me.
Ciao, io sono qui, per sempre seduto nel buio secco, con due ciuffi di capelli ancora curiosamente vivi. Gli occhi sono riposti in una scatola accanto. Piove.
Mi diluvia addosso e poi arriva il tuono, l’urlo del vetro che mi si frantuma in faccia. Ma che, sono andato a sbattere sul serio ? Ma tutta questa menata non poteva essere solamente uno scherzo?
- Ho paura dei fulmini papà -
Dormi, qualcosa di me è rimasto sul cuscino, l’odore
- Papà io però ho paura del buio –
Anch’io e di tante altre cose. Per esempio ho paura delle merdate che ho fatto.
- Merdate papà? –
Le merdate che mi sono rimangiato e quelle che ho rifatte. Per solitudine dichiaro. Dormi tranquillo che io torno presto. E giù a capofitto nelle merdate ancora. Neanche mi sono alleggerito che mi ci ributto. Sai figlio mio, sarebbe bastato un sorriso per fermare lo sconcio. Quel sorriso, tua madre, il suo inequivocabile ghigno. Quel ghigno capace di seccare tutte le piante del giardino, spaccare i tubi del riscaldamento, e fare esplodere le lampadine. Quel ghigno che, alla lunga m’ha colorato il sangue di marcio. Quel ghigno che di notte trasforma la casa in un castello scassato.
Sto guidando e non so se sono ancora indubbiamente vivo.
- Lo vuoi il mio sorriso papà ? –
Si che lo voglio, adesso fermo la macchina prima dello schianto definitivo, mi sveglio, telefono, mi ripropongo. Ma mentre me lo dico lo schianto avviene, un botto bastardo, pieno, ma…
- Papà hai visto che non ti sei fatto niente, svegliati che voglio da bere -

mercoledì 7 novembre 2007

Mangio e mi metto a ballare


Lei giace perché è volata giù dalla roccia. Ci si è lanciata giù, ci si è lanciata mentre sui tavoli del ristorante ballavano il sirtachi, mentre io la guardavo e sgranocchiavo forse un gambero.
Volava giù nel nero ed io a seguirla, ed io nel domandare, a tampinare anche in quel brutto momento. Immerso in un bicchiere certamente di vino.
- Nel mezzo della cena ?-
- Col matrimonio appena all’inizio ? -
- Così senza spiegare? -
- Fermati e spiega ! -
- E sbrigati che ti schianti ! –
- Prima di sfracassarti parla –
- Forse che la torta nuziale t’ha fatto proprio male? –
- E del bambino che si fa ? -
- E’ stato lui a farti sbilanciare? –
- Mi hai spinto tu. M’hai sposato, ecco come hai fatto, adesso scusami che devo crepare, manca poco che arrivo giù in fondo –
Nel buio e nel volo all’ingiù mi ritrovo una ciocca dei suoi capelli in mano. Per un secondo perché poi mi sfuggono. Poi di un seno solamente la punta, che mi scivola immediatamente via. Poi del naso la punta, ma il suo moccio solamente mi rimane. Infine del suo sedere un lembo, che bel sedere, che pensiero avvolgente. Ma nel buio seguente niente più.
E così urlo cercando con le mani.
- Altre domande ho da farti –
- No, sono morta stecchita, adesso non si può –
Il chiasso del ristorante, la ribellione rumorosa dell’immaginazione. Una chiassosa festa nel baratro nero. Qui così come faccio a spiegarmi, devo in fretta alzare di più la voce. Spiegarmi con la morte non è uno scherzo.
- E colpa della macchina fotografica. E’lei che t’ha ammazzato, io non c’entro –
Il buio chiassoso non mi vuole rispondere, cerco ancora la sua testa con le mani, trovo niente, sabbia.
E questa roba? Pomodori di mare? Qualcosa liscio e umido si lascia trasportare avanti e indietro sulla linea dell’acqua
- Le tue budella ho preso?
- Le tue budella? Mio figlio allora? –
Se è così devo cercare dove si trova la testa. Mentre cerco e non trovo, mentre ancora palpeggio quella cosa molliccia. Ma del bambino niente, ma di lei nemmeno. E così parlo e mi rispondo da me.
Il matrimonio una fregatura di sacramento. Il prete ubriaco, il pranzo e quel furibondo mal di stomaco premonitore. Le tue gambe chiuse con il vinavil, quella dose ingerita di bile e vino bianco. Il bacio di Giuda e la mia torta in terra. Il bambino quando come e di chi. E ancora tante volte nel gabinetto rinchiusa .
Il chiasso del ristorante aumenta ed io mi ritrovo a riscavalcare il parapetto che mi separava dal baratro, nelle mani ho qualcosa, il qualcosa lo metto nel piatto. Mangio e mi metto a ballare

Non scomodardi a difenderti


L’orologio va avanti di una tacca sola, ma poi torna, ci ripensa. L’orologio non è mai stato un mio amico.
E adesso cosa succederà?
I peli della barba si fanno sentire.Il foruncolo sul naso è ancora lì, il mio naso ch’è sempre chiuso, ch’è come se fosse finto. Il disagio esiste. Come il cerume nelle orecchie, come l’eterno mal di gola, come l’odore delle ascelle, come quello delle uova andate a male. Il disagio prepotentemente c’è.
L’elastico delle mutande è lento.
Le mutande sono state troppo tempo sul termosifone acceso.
E’ sempre così che mi gioco tutte le mutande. Il divano è scomodo, i cuscini scivolano giù, il divano è nero ed esageratamente sporco.
Ho le gambe spalancate addosso al tavolo. Il tavolo ch’è troppo ingombro.
Cose rotte, pennarelli senza più il loro inseparabile colore, pupazzi mutilati, extraterrestri.
Quello non c’ha più un braccio, quell’altro ha la testa masticata da un cane, sono rimasti lì chissà da quanto. Devo stare attento a non urtare quello che resta di uno yogurt. Le mosche su di lui e su di me.
Ho in mano il telecomando del televisore, non mi accorgo che lo schiaccio volutamente, non mi accorgo che davanti a me il televisore è acceso. Frigge, urla, delira per i cavoli suoi, sta per esplodere.
Dietro la testa la libreria s’è inclinata di nuovo. Il suo contenuto s’è aggrovigliato, parole e lettere in un confuso gomitolo indecifrabile. Pensieri sconosciuti e indistinti stretti in troppo striminzito alveare, conoscenze violentate, grotteschi sovrapporsi, titoli affogati in se stessi, numeri contro vocali, consonanti impiccate, verbi disperati, rassegnati a gorgogliare dentro se stessi. La strage dei significati, il genocidio degli avverbi.
Lo so, lo sento e quindi non posso mica guardarla.
Ma le lettere all’improvviso riescono a liberarsi e volano fuori dal gomitolo dietro di me. Ondeggiano ubriache e minacciose, si cercano fra di loro, a mezz’aria, nel salotto. Sento il mal di mare, un gruppo mi svolazza troppo vicino agli occhi, Alibellule con cattive intenzioni. Miracolo! Si uniscono in parole, già mi rassicuro, prima me la facevo addosso.
S’infilano sotto i cuscini del divano, riemergono. Mi sono davanti in parata. Il tempo di mettere a fuoco e loro velocemente ricompaiono. Dove sono? Pronuncio come un demente quello che mi è sembrato di poter leggere.
- Papè satan, cadi nel baratro bello di mamma, fatti travolgere dalla schifezza altre alternative non ce l’hai. Fesso non ti sei mica accorto di abitare con il demonio. Non ci credi? Prova ad alzare il deretano dal divano, provaci ma è sicuro che non ci riesci. C’hai anche la diarrea e tutta la casa ti è contro. Hai preso un acido forse? E’ come se l’avessi fatto, te l’ha ficcato in gola lui, il demonio in persona. Sudi puzzolente? E’ un segno. Non hai voglia nemmeno di respirare? E’ un altro segno ancora. Dicci fesso, come intendi soccombere, così ci godiamo lo spettacolo. Non scomodarti a difenderti –
- Aspetta, se vuoi un consiglio…buttati giù da un ponte, un ponte qualsiasi -
Com’è possibile, è inammissibile, queste cose simpatiche mi vanno dicendo!. Non ho letto abbastanza forse, non ho sputato sangue sufficiente su di voi?
Annuso il vento, il suo rumore s’infila nella finestra aperta e si mischia a quello della televisione che non faccio a tempo a capire quello che intende trasmettere. Due grattacieli vanno in mille pezzi, crollano giù. Le immagini si ripetono ancora, l’apocalisse, si ripetono e si ripetono, il fuoco e la morte ancora e sempre, così immediatamente, così immediatamente canti e fucili. Non sono più fucili, le esplosioni ed i crolli si mutano con uno scatto improvviso in corpi di donna danzanti, poi ancora in cartoni animati, adesso una risata fragorosa cambia tutto e ritorna il pianto e l’orrore, le immagini girano e impazziscono. Ho ingoiato il telecomando, ho il telecomando che ha deciso di fare da solo.
Mi tengo la pancia con una mano, me ne accorgo distintamente, lo faccio da un tempo indeterminato.
L’altra mia mano s’è arresa, sdraiata e vinta su un tappeto di polvere. La polvere c’è, ha sempre vinto lei, la polvere è viva, si muove e c’ ha le zampe. E’ talmente terribile e nemica.
E’ grigia e sta lì, rumoreggia e minaccia, aspetta uno sbadiglio per precipitarsi nei miei polmoni.
In mutande e senza forze sto sbracato proprio sotto la grande macchia sul soffitto, quella macchia da quando c’è ha sempre fiaccato i miei pensieri, li ha resi fragili, li ha spezzati come grissini, poi li ha dissolti. Di quella macchia ne sono sempre dolorosamente consapevole, anche quando riesco a spostarmi dal divano e andare oltre, anche quando, e di rado, riesco a fare altre cose.
La macchia è sempre lì.
Adesso mi sembra di vederci un caimano. In mutande, sdraiato storto sul divano con un caimano aggrappato al soffitto. Uno di quegli strani animali che mio figlio disegna in centinaia di varianti. mio figlio ha sette anni e sogna caimani dalla mattina alla sera.
L’animale sta lì sul soffitto ma non si cura di me, incombe sul disordine merdoso del tavolo, sui resti dello yogurt, sulla scatola di legno rotta e imbrattata d’inchiostro, sui relitti di pennarelli mutilati del colore, su di un libro contorto nel contenuto ed anche nella forma, sui fogli accartocciati, scritti da me che volevo dire ma poi non ho detto niente. Fogli, mutande, calzoni e calzini accampati e molesti, sul tappeto che mia nonna dopo la morte m’ha affidato. Se mia nonna mi vedesse in questo miserabile stato !
La stretta allo stomaco si ripercuote sul telecomando, una tempesta nuova che mi entra dai talloni e sale su attraverso il sedere.
Ho freddo, e il freddo s’impossessa della mia ebete attenzione e la dirige senza resistenze verso il primo cassetto a destra del televisore, il cassetto delle fotografie. Cosa accadrà se riesco ad alzarmi e provo ad aprirlo?
Le fotografie urlanti e taglienti nel cassetto sono ammucchiate alla rinfusa, altre sadicamente ordinate negli album. Nel buio del cassetto parlano fra di loro, si combattono, si alleano, cospirano, si tirano per i capelli, tirano calci, qualcuna sputa, si massacrano. Talvolta si uniscono, con quale schifoso intento non so.
Io, così come mi trovo, quel cassetto non posso nemmeno guardarlo.
E invece c’è una fessura, una ferita che vomita e inghiotte la polvere viva.
Tutte quelle zampe grigie corrono e si agitano convulsamente, tutte quelle mascelle che masticano anche il nulla in un chiasso infernale, un chiasso che assomiglia ad un canale della televisione sintonizzato male. Una mossa inconsulta del gomito e mi ritrovo imbrattato. Il barattolo di mosto nero sul divano nero non l’avevo visto.
Fa freddo, e cosa potrà accadere?
Ora il cassetto è aperto. Una tonnellata di fotografie sono già sul tavolino. Perché questo dolore in più ? Guardare io non voglio, rimestare nemmeno, ricordarmi perché sono lì, spossato ed in mutande.
Pesco nel mucchio contorto.
Una sedia vuota su una spiaggia, davanti al mare in tempesta: Il mare minaccioso davanti. Ma che vuole farne, ma chi c’era seduto su di lei, e di che cavolo di ricordo si tratta? Più lontano, a spezzare l’orizzonte, alto e spettrale quello che resta dell’interno di un vulcano, l’interno di un cadavere, un obelisco morto, l’inferno pietrificato bellissimo e minaccioso.
Appiccicata alla sedia c’è una seconda fotografia. Non ricordo a chi appartiene quella faccia posseduta dal vento, la bocca è spalancata e gli occhi socchiusi dal dolore dell’orgasmo. Oppure forse le scappa solamente da cacare?
Il vento che viene dal mare, perché anche qui di mare vuole tormentosamente trattarsi, la penetra ovunque, nelle orecchie, nel naso, nei capelli e dentro la pelle. Le braccia indicano qualcosa che non si vede. Da un momento all’altro potrebbe parlare, direttamente a me, mandarmi a quel paese e uscire per sempre dalla fotografia. I suoi sono cavoli che non mi riguardano. Si, il suo nome me lo ricordo. Sì, ma io non ne voglio parlare.
- Cos’è, non ci riesci? Cos’è, non sei normale? Cos’è, non ti tira da sempre? Tutto in questo posto mi chiava, e te invece? -
Il caimano sul soffitto sposta solo una zampa e ritorna immobile.
Fra le mani la polvere mi mette la fotografia di un muro, un muro colorato di urina malaticcia, un fegato sofferente, un muro tormentato di graffiti, cicatrici vive e pulsanti. Insulti su insulti, date e nomi, gocce di colore, di sfida e rabbia. Dichiarazioni di guerra, maledizioni, stregonerie. Lapidi.
E una fessura profonda scavata da un coltello. Dalla fessura all’interno di una bocca di pietra, aperta nera e profonda. Tre scalini nel parco dei mostri per immergersi anima e corpo nell’ignoto.
Che scherzo osceno, la fotografia m’ingoia e il salotto non c’è più, è scomparsa la luce del giardino, è scomparso il televisore, le mie gambe e la pancia. Non vedo più ma sento qualcosa muovere. E’ il sangue che scorre, è un altro me che mi vuole per forza accompagnare, è lo smarrimento che sfrega le sue zampe e fa rumore.
Sono caduto in una trappola.
Nella gola buia si mettono a svolazzare veloci e invisibili su di me sciami di voci pipistrello.
Lì dentro non vedo, giro su me stesso, tendo le braccia in avanti. Sono prigioniero di una fotografia.
Non vedo ma sento di più, fra le voci di pipistrello, ammesso che siano veramente loro, mi sembra di distinguere altro. Una voce bionda che ne racchiude un’altra ancora. Parlano sovrapposte, ridacchiano.. Ma una vuole uscire dall’altra, nascere, dal buio volare via. Vogliono sapere da me come mai l’animale di stoffa che sta sopra la mia testa si muove. Il caimano che m’ha seguito nel buio. I miei figli mi avvertono.
Mi prendono per mano, restiamo al buio così.
Faccio, azzardo un passo indietro, c’è uno scalino dietro di me, il nero del divano nero, una voce mi augura il buon giorno. La voce del televisore deve essere capace di certe magie
Sì, lì sono sempre, in mutande e svuotato, demotivato e colmo di fotografie sulla pancia, ma in più il buio, quel buio m’ha regalato delle orecchie bioniche. La televisione sta trasmettendo ancora e sempre una guerra a un passo da me, le mie orecchie percepiscono il tono artificialmente concitato, qualche scoppio di bomba ben selezionato, due o tre sospiri di profughi che scappano, e ricordi, e stermini e intenzioni. Promesse di vendette, colpi di tosse invece rassegnati, un rumore di vento carico di mostruosità, una coltellata ben assestata e a freddo. Guardo fisso il televisore, non vedo la guerra, ma la sento.
E adesso rido. Rido più forte come se fossi indemoniato Il dolore, del sangue il sublime sapore, la colonna sonora che evapora da quel friggere di immagini confuse davanti a me.

Dimmi la misura


L’alta marea, la marea così alta e poi il fango. Gli scogli freddi e i discorsi appuntiti, le punte avvelenate degli scogli. Di chi è il figlio e quando partorirai? Partorirai quando?
Io sono incinto e tu, tu come? Tu sei davvero. Anche tu sai che un piacere deve. Un piacere sul serio deve sbrigarsi ad essere. Pazzo.
Pazzo ed innamorato, isterico sognatore pericoloso e deficiente. Inconcludente e bugiardo insieme. Immaturo. Tu mi detesti ed io? Io perché, io nonostante, io con compiaciuto dolore.
Dimmi la misura, dimmi quale dei due si sta piangendo addosso, chi si squaglia di più, chi riesce nell’essere ancora più atroce. Balordaggine e schizofrenia.
Immerso nel dolore, quel dolore che mi arriva da sotto le ascelle, che così rapidamente è capace di spargersi altrove, di contaminare capelli, naso, ciglia, dita delle mani ed ogni cosa intorno. Che adesso è dentro e mischia.
Ascolta ora.
Ora è il 3 febbraio o circa, niente più possiamo azzardare insieme. Adesso invece il figlio cos’è? Adesso in faccia ci sputiamo e il perché non sappiamo spiegarcelo.
La minestra sciapa, i cani e il cancello aperto, sempre aperto, a dispetto specificatamente di loro. La ferocia di un sorriso, le nove di sera, la ghignante stanchezza, la mondezza, il divano, il quadro conteso e la premonitrice macchia sul soffitto. Il sogno esplode e.
Declamare e rinnegare, tradire soprattutto e pentirsi, pentirsi ed esclamare che si vuole a tutti i costi ricominciare. Uccidere amando teneramente. Sfasciare tutto e ricucire. Poi a tradimento nel senso opposto, di nascosto.
Chi è che canta di notte e a quest’ora, e cosa si muove sul soffitto? Chi disturba la schifezza di queste mie obbligatorie ossessioni?
Piove. Adesso piove, piove a rotta di collo su di me, sulla mia testa una tempesta si abbatte. Io ho una testa o ce ne ho due?
Ho un solo braccio, l’altro si è dissolto sotto il lenzuolo mentre ti cercavo. Il lenzuolo è tutto imbrattato di te, sotto di te corrono i topi, un rimorso così arrapante, i vermi, i pensieri scaduti e le parole rimaste. Sotto l’armadio che odora dei miei. Quali specificatamente non distinguo.
Sto pregando o ruggisco, non mi accorgo nemmeno di qualche mia ragione, del vento che mi chiama, della parola chiave che inutilmente mi aspetta.
La porta del bagno che cigola e di respirare mi accorgo che mi manca la voglia, anche quella di alzare gli occhi dritto davanti a me.
Dritto davanti a me ho l’immagine scema dell’apriscatole, del dentifricio alla menta, del senso del ridicolo alienato, di un vecchio odore, un odore stuprato da un altro. E tu?
Ti cerco ad occhi chiusi, ti cerco nel mio mal di pancia, ti cerco nel grottesco di un’idea imprecisata, sul pavimento, sotto il cuscino, fra le forbici aperte, in una macchia di cerume.
Ti cerco dentro un urlo, nel gorgo di un orgasmo finto, nella testa di una cavalletta spiaccicata. Ti cerco nella mia saliva che in certi momenti di disperazione si fa troppo densa.
E tu sei al di là di qualsiasi porta chiusa, tu sei nel gabinetto eternamente, tu sei contro e tu non sei mai.
Ad occhi chiusi allora provo ancora, e mi dico addosso per evocarti .
Riemergono così, le mie emorroidi vergognose. Subito sinceramente mi schernisco sperando nella tua furibonda attenzione, sperando che possa aprirsi finalmente la porta del gabinetto.
- Ti ho mentito, non erano calcoli, no –
- Erano autentiche emorroidi, schifose, gonfie e doloranti –
Non le basta, tace e si sposta nervosa e veloce. Il perdono non me lo da e si richiude nel gabinetto. Debbo così flagellarmi ancora.
Sono in mutande e urlo, sono dolorosamente e ridicolmente in piedi, pendo troppo da una parte, magari rischio di cadere. Guardo stravolto i fornelli della cucina.
- Allora ieri mattina non è vero che sono andato alla posta –
Non basta, lo so.
- Allora io sono…Cosa sono? Qualche cos’altro sicuramente -
- Sì, oggi al salumiere, forse ho detto di non essere io –
Non basta esagerare, devo sparare ancora più forte. Cerco di corsa nelle mie enummerevoli stronzate.
Aggrappato al lavabo mi ficco due dita nella gola e tiro fuori le colpe che più in cima mi stanno. Ma loro bastarde escono a ultrasuoni, lo fanno senza fragore, scuotono solo me e la scena non cambia.
Alzo la faccia, sento chiaro e dolciastro della menzogna il sapore.
Guardo nel lavandino: schiuma giallastra e nient’altro. Allora insisto, spalanco tutta intera la mia voce, voglio dire di quel giorno.
Quel giorno lì, quando dentro di lei sono venuto, stavo pensando a una cosa diversa, a un non dicibile pensiero…Ma dalla gola mi esplode un fragoroso insulto, assolutamente non quello che volevo dire, e giù pezzi di cibo nel lavandino, il cibo di quello specifico giorno forse, melanzane al funghetto.
Mentre, ma lei.
Lei si schiaccia i punti neri nascosta in una camera che non so. Ma invece so che l’insulto mi ritorna con voce diversa dalla mia, è lei che ci gioca a ping pong.
Tutte le porte si spalancano insieme, il corridoio al galoppo, un pugno lanciato in avanti con le vene di fuori. La vedo che s’infila dentro lo specchio, che mi guarda e mi guarda. E se la ride.
Non le ho detto, della mia mente non le ho parlato per esteso, e dietro la porta chiusa è proprio quello che lei si aspetta da me.
Ecco di nuovo il rumore dello sciacquone. Lo sciacquone che s’infila nel televisore e ridiventa fragore di guerra, lampi rossi e arancioni, corpi sventrati per terra, fiamme sulle case e fiamme nel mio stomaco, che si ritrova sul divano nero ancora una volta, che non si è mai mosso di là, che per poter ripensare a se stesso, dopo qualche tentativo claunesco si ritrova infilato nell’immagine di mio padre. Mio padre ch’è uscito anche lui dal cassetto.
- Te lo ricordi quel quadro enorme e nero? Io cancellarlo non posso. In mezzo al nero solamente un pezzo di braccio, un altro muscolo, un occhio, la gobba del naso. Me lo dovevi dire chi era, non me l’hai mai detto –
Un antenato, un orribile sogno, un buco nero. Forse solamente l’urgenza di un bisogno.
- Te lo ricordi il silenzio, nemmeno avevo il coraggio di tossire, perché tu stavi pensando, oppure stavi dormendo, o altrimenti non c’eri. Eri nelle formule chimiche completamente immerso. No, poi ho saputo, eri strizzato dalla vita sballottato da un presuntuoso destino troppo grande.-
Quand’era e com’è successo? Un pericoloso qualcosa alla fine t’ha così ferocemente fermato. S’è infilato dentro il polmone ed è esploso.
Accadrà che di te prenderà completamente possesso, o è già accaduto anni fa. Ed io chi ho detestato allora? Una controfigura.
Nel caso invece che l’arancia ancora non t’avesse essiccato, fra uno struggente colpo di tosse e altri mille, vorrei sapere almeno tutto il resto che c’è da sapere.
- Insomma chi sei, insomma dietro di te chi veramente si nasconde.-
Ma non basta così, prigioniero di questo divano, che tipo di linguaggio usare?
Ma il genio dev’essere per forza così furibondo?
- Ma quando, in che giorno e a che ora, l’amore ha preso possesso di te? -
- Dimmi il colore della solitudine tu che lo sai. Lo stesso della diarrea? -
- Sai raccontarmi di tutta la tua scienza il dolore? Quantificarmela in bottiglie, in povere ed inutili scopate? Non lo sai-
Adesso si vede ch’è stanco, si avvia barcollando dentro il muro e mi saluta sottovoce chiamandomi con un nome diverso. A dopo papà ma ricordati che niente abbiamo ancora risolto. A dopo perché lei adesso passeggia in giardino.

martedì 6 novembre 2007

Giù, in fondo alla barbarie


Ho ceduto un mio sogno, l’ho svenduto perché straboccava, mi s’era messo nel fegato e pulsava forte.
Adesso questo è il sogno di fuoco del mio più abbondante cugino, il suo sogno più laido e ricorrente.
L’adrenalina, il sapore del metallo, la polvere e il lampo. Il lampo e l’urlo, di morte e di gioia cupa e necrofila.
Lo svilupparsi del macabro suo lo strappa dal letto, lo veste in grigioverde e lo scaraventa in platea. In un mare di sabbia rovente, in compagnia di sorella sete e del fuoco inseparabile e a tracolla. In balia dell’acidulo coito dell’ubbidire.
Il mio cugino abbondante spintonato e stretto fra la sorte e la medaglia, fra la medaglia, la ferocia e la paura. Volontario senza alternative nelle sigle, le strategie e le possibilità. Volontario a nuotare nell’incubo, nella voragine del conteggio dei caduti, i dispersi e i fuggiaschi, coloro ai quali è vietato possedere un destino diverso.
Il mio cugino abbondante nel mezzo del giusto, del previsto, dello scandaloso e del necessario. Nella barbarie al bagno.
L’ordine è notturno nelle guerre di questo magnifico secolo? E l’inizio guerreggiato è sempre contro luce, contro i lampi e i boati degli altri. Ed è sicuramente fotogenico.
Al cugino non gli sudano più le ascelle e nemmeno le mani, e non ha più saliva abbastanza. Ha i piedi di sabbia e nessun ricordo apparente, solo un’ebbrezza e una leggera commozione al momento del primo terrore dal vivo.
L’adrenalina e la colite nel videogame, a inondare di magnifico fetore pungente il primo bagliore variopinto. E il boato simultaneo è già passato, già subito un altro, già nelle orecchie e nel torace un tumultuoso via vai.
La sabbia dentro le mutande, nei polmoni e nelle imprecazione, e il cronometro non ha nessuna intenzione di fermarsi. Dal cielo nessuno peso nell’abisso del salto, nel dondolarsi ad occhi sbarrati, nell’offrirsi per contratto come bersaglio, nell’impatto e nel crepitio. Uno sparo e migliaia di altri, una struggente canzone di inizio secolo, una copia perfetta di tutte le altre.
Si tasta il cugino, con teatrale lentezza muove la testa e cerca il foro d’entrata. Il sapore del piombo, la parola fine, la pesantezza delle palpebre, il sangue scuro.
Nessuna traccia sull’abbondante mio cugino, che allora, senza perdere tempo, deve continuare verso nord l’impeto iniziale, nello sconosciuto entro terra, verso l’alba, ancora di più addosso al fragore.
Ancora un lampo e uno schianto, subito prima del sorgere del sole. Questa volta si che deve giocoforza essere morto. Ma il colpo di tosse smentisce, nemmeno un graffio miracolosamente ancora.
Bisogna rialzarsi, non c’è tempo ne spazio per sostare, è necessario invece far pressione su quel grilletto. Urlare dalle tempie, dalla fronte e dal cuore, dimenticarsi la colite e andare.
Il cugino abbondante a nord est, contro le ostili apparizioni della mattina presto. E la fuga a piedi scalzi, la paura e la paura, il pianto per suo figlio trucidato dal mio scatenato cugino.
Il lampo talvolta può apparire blu, senza nemmeno lo schianto. Mentre il cugino mio è impegnato a scavalcare ossa, metallo e denti d’oro, senza guardare pisciando…buongiorno sono la morte e così via. Sì ma c’è stato un errore, la camicia è squarciata, ma la vita continua a non andarsene. Ed accanto nuovamente lo schifoso respiro del sergente, quel sergente che non ci voleva per niente venire. Lo stesso sergente che, immediatamente dopo si mette a giacere dilaniato.
Dieci secondi e dal cielo una liturgia di piombo, la bomba. Il cugino corre di là, il cugino è malamente scaraventato all’indietro, stramazzato, piegato e rilanciato in alto. Il cugino si cerca sfiduciato sotto il sole rovente e buio. Incredibilmente si ritrova.
In piedi e con sgomento, ancora intatto, ancora come nuovo, forse un tantino stanco, probabilmente eroico, con l’alito assai puzzolente e incredulo. Allora avanza carponi nel sempre deserto sempre abbondante e sempre cugino, a prendere dimestichezza con il coraggio, a sberleffare il terribile stupore di un’altra notte illuminata a giorno.
E’ così che il fianco sinistro improvvisamente gli brucia, la gamba destra ha uno scatto e il morso cattivo sulla lingua impreparata. Ma nessun rosso sangue, ma nessuna traccia di dipartita. La forma del cugino è ancora intatta, forse con un pizzico di stanchezza interiore, un insignificante e impercettibile spiffero freddo.
Pronto per rimettersi in gioco, mascherato e guardingo, sempre in compagnia della colite. Ma il gas nervino su di lui cilecca clamorosamente, solamente una leggera raucedine, solamente quasi la consapevolezza di essere originario di un altro mondo.
E così il vento lo solleva per mostrarlo al nemico, il guerriero che si muove nel giusto, colui che, anche sforzandosi, non riesce a morire. Il solo in grado di sfidare e sfigurare il mostro, la spada della saggezza, il crociato, il giorno della vittoria, lo sterminio. L’icona, l’esempio, la medaglia, la lecita necessità.
Meritatamente il ritorno a casa, la banda all’aereoporto, l’abbraccio dell’intera nazione, la cena della mamma e il sonno del guerriero.
Il mio abbondante e decorato parente che adesso è cugino di tutti, respira prontamente, annusa l’aria di casa e ininterrottamente sorride. Una lacrima, una goccia di eroica gioia per la colite momentaneamente scomparsa.
A cena con la famiglia gusta finalmente il suo brodo di vecchia gallina, fumante e riconciliante. Il premio più gradito.
Una dietro l’altra le cucchiaiate bollenti, avidamente, con tutto l’amore. Talmente che il cugino va sussultando, sotto gli occhi estasiati di sua madre.
Talmente che scoppia, il sangue si mette a schizzare da cento buchi di cento proiettili. Una guancia gli crolla sul tavolo. Nel brodo, esageratamente caldo, l’occhio destro si fa cotto, e cotto è raccolto prontamente dalla madre perché niente va sprecato.
Voragini gli si aprono nella pelle, il dono in ritardo del gas nervino. E nella pancia appare improvviso l’effetto di una cannonata. Il mio abbondante cugino sgretolato e disciolto nella guazza del suo sangue. Tutta colpa del brodo di gallina.
E alla madre e alla nazione resta l’occhio bollito per sempre.

Per colpa di una tromba


Non riuscire a mangiare, deperire poco a poco per colpa di una tromba, pare impossibile, inammissibile, molto improbabile. Pare, ma non è.
Un violino, tempo fa, un altro po’ e mi riduceva in fin di vita. Con la carne attaccata alle ossa , il sangue in colla, un buco profondo e puzzolente all’altezza dell’ombelico.
Figurarsi una tromba che effetti può avere sulle mie ossa fatte di psiche.
Non è stato un amore casuale, ma una schiavitù germogliata e discesa da un secondo misterioso piano di un misterioso palazzo a un misterioso incrocio in una misteriosa foschia. Può essere anche colpa di una radio, i medici non lo escludono, può benissimo essere.
Tutti lo sanno che qualcuno spia, che qualcuno fiacca, divide, perseguita e sfruguglia i musicofissati.
Tu esci con alcune delle più belle note del tuo sonno nella testa e ti metti ignaro a camminare. Sei seguito e fotografato e anagrammato, sei spogliato, istupidito, centrifugato. Lo sei ogni qualvolta pesti le strisce pedonali, oltrepassi i semafori e appoggi i glutei su note di carburante, e mentre ti accodi ad interminabili file di valige ventiquattrore. Cartelloni pubblicitari, vetrine di negozi, farmacie, studi notarili, banche, grandi firme e grandi schermi. Solo non sei lasciato mai. Qualcuno, dietro di te, o a te di fianco, saggia il terreno in attesa, del peggio nel peggio se il peggio col peggio.
Ci si nasce dipendenti d’altronde. D’altronde due chitarre mi hanno entusiasmato per nove lunghi mesi, distogliendomi dallo sforzo di mettere la testa fuori dalla pancia di mia madre. Quando poi la luce l’ho dovuta guardare a viva forza, le due chitarre si sono involate. Da qui l’itinerario dei guai del sottoscritto.
Una vita di amori travolgenti, ma sovrapposti, ma poco chiari, ma allucinati, ma morbosi, ma.
Ma una breve emozione vibrante e feroce non fa male. Ma se perdura sei costretto a costringerti.
C’è dunque da morire se mi separano da questa tromba. O se lui di lui si dimentica di soffiarci ancora.
- E allora suonala tu –
- Io con le mie rinunciatarie budella? –
- E allora, l’unico rimedio possibile è quello di tenere in vita e sempre in buona salute il suonatore –
- Ma fattene una ragione, sorridi e tieni presente che, alle brutte, potrai morire in concerto–
Così si resta ammalati e si progredisce consigliati, La tonsillite si evolve in appendicite, l’appendicite si gonfia in epatite, l’epatite si perfeziona in sifilide, la sifilide in sifilide in sifilide.
- O forse, o più semplicemente, ti sei innamorato del suonatore, e non del suo strumento –
Per associazione e per prolungamento. Certo che senza la tromba quell’uomo è un pedone, è un second’ordine, è una merda qualunque.
Uomo con tromba ha tutto un altro suono. Eppure ammala, isola e distrae dai fatti. Uomo con tromba potrebbe trattarsi di strategia omicida.
Lei, così squillante, sfacciata e arrogante, si fa viva quando si accorge dei miei pensieri da gabinetto, quando addento un bicchiere, quando giro intorno, quando mi manca veramente poco, quando sulle montagne, quando sull’albero e dentro il vento. Quando l’angolo sinistro della bocca si piega.
Non bisogna più ascoltare musica. Pianoforte è anticristo, batteria è lucida follia. L’organo che non si nomini neppure, sventure di secoli ricompaiono.
Non bisogna più ascoltare musica? E’ come dire che non bisogna più bere acqua bensì piscio di tarantola.
Con il pollo lesso potrei tentare, con la mozzarella al gratin, con la tortura del fegato alla veneziana e il cervello lesso con piselli. Con il famoso e sempre vincente inguacchio di patate, con il cavolo nero insieme alla trippa. Nulla vale di più della mia tromba ben lucidata.
Altro rimedio è sbattere la mia immaginazione contro il muro, raccomandando l’assenza assoluta di ritmo. Ma anche l’assenza assoluta di ritmo è musica.
Allora con l’indifferenza, con l’autoipnosi, con il silenzio filtrato scrupolosamente, così che non passi nemmeno una microonda dell’oltretomba nemmeno.
Sputo tutto e richiudo. Vero, sano e meraviglioso sadismo, un capolavoro, un male blindato. Un comandamento.
- Se non mi mandano al concerto, se la tromba e lui, se io non posso un’altra volta ascoltarli, se io senza la loro saliva… Mi spaccherò la testa, mi vendicherò –
Ed eccomi a lanciare la mia testa, con felice ferocia nella testa, ubbidiente e sorridente sgretolandomi la testa.
E tutto il resto è merda di falso, e tutto il resto non c’è mai stato. Io rinnego e m’incastro.
- Io e l’uomo tromba siamo amanti e complici. Conosco ormai tutti i suoi spartiti a memoria, curarmi non serve a niente. Ma si capisce che le cure addosso a me sono inutili, scivolano. Ma chi l’ha detto che ci si deve curare per forza? E chi l’ha detto che i malati sono malati? -
Finiamola, non ho reni da vacca, sono invertebrato, mi piego su me stesso, sono fatto d’orecchie e niente più. E per di più ci tengo a dire che il tacere è sano. Perfettamente mi rendo conto che il piacere è…che io dovrei…che opportuno sarebbe.
- Almeno il ronzio di una mosca, un tarlo, il mio respiro, uno starnuto, uno sputacchio. Perché nemmeno quello? –
Correggersi per correggersi, offrirsi, decapitarsi, rioffrirsi inchiodato a una croce.
Spingo questo doloroso sogno sano benessere incubo di sughero, dei salvi ossia redenti aspiranti, giustamente sulla via, inodori, completati e illibati giustamente.
- Un momento, ho letto da qualche parte che contro la tromba funziona solamente l’alchimia. Con aggiunta di zabaione –
La tromba, l’ago, la vena, il caldo nella gola, i dolori nella schiena, la voglia e la voglia, i sogni. La tromba. L’eroina.

Per la salute del mio spazio


Il dilemma fondamentale riguarda il mio liquido seminale. Per la salute del mio spazio e di me è necessaria un’osservazione più attenta, una ricerca accurata e una definitiva e liberatoria diagnosi. Un’assoluzione, oppure una limpida condanna senza rancore.
Il timbro e il benestare dell’unità sanitaria locale.
Sportelli e perplessità, domande su domande, file e digiuni. Il problematico via libera, il lasciapassare per oltrepassare la targa del laboratorio d’analisi. Il primo e coraggioso passo.
E’ possibile estinguere il problema in una sola mattinata?
Devo esercitarmi misurando e cronometrando i gesti, sfidando e torturando lo stato d’animo, essendo tutt’uno con il camice bianco che, si sa, ha il nervosismo facile.
Posso riuscire arrivando al laboratorio già disponibile e sbottonato, lavato e disinfettato, profumato per decenza. Organizzando minuziosamente l’indagine, scartando e saltando a piè pari i vuoti, i punti morti, gli inutili e depressi corridoi. Contrassegnando le sedie utili e le apparecchiature indispensabili. Studiando bene alcune frasi da dire.
Mi lancio di buon’ora, evitando con diligente rammarico la prima colazione dannosissima. Nome, cognome e indirizzo. Indirizzo, età conclamata e numero di telefono. Numero di telefono e dichiarazione giurata e a voce alta del sesso di appartenenza. Stare all’erta e rimettersi in fila.
Questa donna ch’è davanti a me, ch’è stata più veloce e accorta, col suo naso contorto, può essere seriamente ammalata? Come me o di più? E l’uomo che prima di lei sospira e biascica è venuto a misurare la sua vecchiaia, ma così facendo l’ha aumentata. Il bambino accompagna oppure è danneggiato anche lui? Ha gli occhi bianchi e mi fissa, mi fissa e mi vuole avvisare, dei camici bianchi è il riflesso. Si dondola, è cieco.
Vado via, no, rimango, è il mio turno.
Nome, cognome, indirizzo un’altra volta più una. E, senza interrompere, scopro mostro e porgo il braccio, quello sinistro, sempre e solo quello, come prestabilito. Il sangue può lasciarmi da subito.
E subito devo togliermi la camicia per inquadrare il torace nell’occhio radioattivo e quindi immortalarlo. Senza respirare, senza pensare, senza chiedere e disinvoltamente. Ma un solo scatto non svela il mistero.
- C’è una macchia –
- Una macchia? Come, cosa, una macchia di che genere, e col mio basso ventre cosa c’entra? –
- Non sono autorizzato prima del risultato scritto. Si tranquillizzi, minimizzi, si rivesta e vada –
Macchiato, preoccupato e affamato, ora affidato all’ecografica verità. Dai reni fino giù, e a ritroso per maggior sicurezza. Un bel respiro, un quarto di respiro e nessun respiro, ancora il nome, poi il cognome e l’indirizzo. Perché non il numero di telefono?
Pigia l’incaricato, ci riprova. Macchè vuole sfondarmi?
- Sente dolore? Lo ripeta, ci faccia caso, stia ben attento che quest’affare costa –
- Cos’ha detto? Non ho sentito, non respiri e non parli –
Dolorante e sudicio di unguento di melassa andata a male, mi faccio infilare in’astronave. Il tubo della Tac, la cosiddetta prova del nove. Tre volte avanti e tre volte indietro, ben legato e ben stretto. Da rifare per colpa della mascella e della mosca. Da rifare ancora perché addirittura ha pensato.
E il cronometro mi vuole indicare la stanza seguente, il percorso e la registrazione del rimbombo del mio cuore. L’elettrocardiogramma, il gran momento dell’inchiostro e dell’ago.
- Batte? Che fa, è regolare? Ma cosa c’entra con il liquido seminale? –
- Zitto e fermo, che passa il tram ed è tutto da rifare –
- Ma il nome, l’età e l’indirizzo? –
- Non gliel’ho chiesto? Sarà la stanchezza. Glielo chiedo dopo –
- Come? Cosa? Perché? –
- Fra una settimana, non prima. Tanto lo sa che una settimana c’è sempre nel mezzo –
Con l’ombra, il dubbio, la debolezza e la fame, m’incammino verso l’ultima tappa, quella riservata finalmente al succo di me. La mia sintesi spiata al microscopio.
Devo raccogliere il mio liquido seminale in un contenitore specifico e caratteristico. E la mattina sarebbe finalmente terminata.
Mi si offre l’opportunità di un rifugio, uno spogliatoio. Un sottovuoto nel quale l’azione si dissangua e smarrisce il motivo, muore. Nemmeno muore, non è e basta.
Il liquido dunque deve uscire da me, osservato da una folla di cappotti, sciarpe, cappelli e camici. Sono i cappelli però che più mi disturbano. Oltre la porta posso sentire chiaramente il via vai, lo scartamento e lo stantuffo, dei pazienti l’impazienza e la scoglionatura delle infermiere, i gelati commenti delle siringhe. Il contare e ricontare del direttore capo in testa, le risate sfottenti di qualche verdetto finale.
Non c’è la chiave nella porta, c’è un grande e luminoso buco della serratura.
E il motivo come posso cercarlo?E l’imbarazzo come posso ucciderlo? E i necessari pensieri avulsi, stranieri e necessariamente deviati, non salgono a galla.
Scade il tempo e io resto col mio prolungamento che si schernisce e non vuole.
- Ei là dentro ha finito? Mi dica a voce alta l’indirizzo, il nome, il cognome e il sesso-
Io rinuncio e allora me ne vado e anche non me ne frega e non mi piace e non voglio più. Punto e basta.
Invece eccezionalmente, verificata l’importanza dell’analisi, potrò tornare nel pomeriggio, ma sempre nello sgabuzzino senza chiave. In più ci sarà la sorpresa di uno sgabello e di alcune riviste da sfogliare e guardare attentamente.
E allora, quand’è così le bionde si mischiano con le brune. Le espressioni diventano umide, le carni saporite, il pongo. Gli anfratti senza più segreti, le gole e le lingue, le mani identiche ai piedi. Davanti alla porta un continuo e musicato passaggio.
Il pomeriggio si esaurisce ma il liquido seminale non vuole uscire. Allora la mattina seguente? La compagnia dei cappotti e dei camici si sarebbe potuta spostare.
Sì. La stanza appare meno affollata, priva di spettatori e più intima. Forse tremendamente desolata. Fuori della porta le voci sono sempre voci, più allusive e meno squillanti.
Sullo sgabello, accanto alle riviste, aggiornate e arricchite e sempre truculente, un paio di mutande rosa. E, fuori, la voce della probabile proprietaria., la migliore infermiera, sicuramente brutta e certamente segaligna. Sicura di avermi facilitato.
- Dica, così va meglio? Abbiamo indovinato? Abbiamo fatto un passo avanti? Coraggio che lo sgabuzzino ci serve –
Ma no perché le mutande rosa sono frasche di bucato, e il sapore di detersivo non è effettivamente eccitante. Ma la consegna appare forzata e inderogabile.
Un altro pomeriggio, davvero l’ultimo a mia disposizione. Un dopopranzo ancora a tu per tu.
Dunque una poltrona al posto della sedia scomoda. Lo sgabello, le solite riviste più altre dieci, il paio di mutande più una radio. Mi siedo e mi aggiusto, sfoglio, odoro e cerco di sintonizzarmi. Gracchia la radio e le mutande adesso hanno l’odore della brutta infermiera.
Chiudo gli occhi e con la mano, sempre quella sinistra, slaccio i pantaloni, con quella destra reggo il recipiente. Ma mi ricordo di non essere mancino.
Cedo allora alla mano sinistra il recipiente, la mano destra è, presumibilmente, più pratica e leale. Comunque devo fare i conti con il torpore del dopo pranzo, incoraggiato dall’inaspettata comodità della poltrona. Nulla di fatto se non più riposato.
La mattina presente una deroga mi spetta e mi presento in anticipo addirittura. Possono forse restituirmi la sedia scomoda da puntellare contro la porta senza chiave? Fino a mezzogiorno e poi basta.
Con la porta bloccata tutto si dimostra possibile, l’ipotetico si dispone ad accadere. C’è troppa luce, la stanza angusta è attrezzata di una finestra senza imposte e senza tende.
La luce è inquisitoria, decisamente mi blocca.
E qualcuno bussa. Forse è la brutta infermiera che pretende indietro le mutande sue?
- Si sente male, ma come è possibile? Forse i suoi gusti sono più ampi di quelli sospettati? Ma che sta dormendo? –
Quindi le riviste si arricchiscono di personaggi a sorpresa. E come se la ridono fuori della porta! E che ressa!
Bussa entusiasta l’orrenda infermiera
- Apra. Mi siedo accanto a lei là dentro? Il direttore avrebbe pensato che un televisore e un video registratore, con una bella scorta di cassette. Guardi che ha tempo fino alle otto di stasera. Forza orsù che ce la fa –
Nell’indecente così mi tuffo. Gambe e schiene, lingue e ascelle, teste e braccia bianche e nere, interiora grotte e foreste, sciacquettii e perlustrazioni. Quarti di bue ancora freschi e pulsanti, zombi senza ironia. E ancora bocche e deretani di alieni in cattività. Fiati rauchi interrogati e torturati da riflettori arrapati.
E un crampo alla mano destra, e l’escoreazione psicosomatica, e il torpore. Il televisore ritorna nero. Ed io per caso sto russando?
Ma una parola, un suono, oppure addirittura un disatteso avverbio, dal dentro di me o fuori della porta, sussurrato da un paziente inconsapevole. Una veloce e sorprendente durezza lancia in alto il liquido seminale incredulo.
Ma quale parola? Ma che tipo di meccanismo? Non so, già non ricordo, mi rammarico.
Il contenitore, sorretto dall’altra mano, cerca il liquido, lo insegue, non lo trova. Morente, ha appena inumidito il pavimento.
- E il nome, il cognome e l’indirizzo? Rinuncia così, senza poter essere riconosciuto? Mica può farlo. La scienza che dirà? -

Dove nessuno oserà raggiungermi


Cosa c’è in quel bastardo arancione? Un lamento agghiacciante venuto fuori da un sogno appiccicoso. Un cucchiaio bucato, il coltello, il fuoco, il muso della belva, il sogghigno, l’occhio bianco, quella strana dolcezza, il blasfemo. Il ricordo strozzato.
C’è la testa del pappagallo, l’accetta e lo sguardo obliquo, la testa decapitata del mio gatto.. Quell’amore, al primo tragico chiarore del giorno. La luna che scompare nel baratro, la frase contraria al pensiero, il vento caldo.
Ci sono i giganti prigionieri del fango, un fango bizzarramente arancione. Il colpo di rasoio e l’urlo, un urlo continuo e ripetuto nel campo di girasoli.
Il bacio arancione del mostro, la sua tristezza, la forza ignobile della sua gola.
Io voglio andare laggiù, dove nessuno oserà raggiungermi, fino dentro l’essenza di quel colore. Lì dove la puzza d’orina è così forte. Lì dove riposano l’una dentro l’altra due menti giustiziate.
Quella terribile musica è il respiro del colore, il suo autentico perché. Nel culo e nella testa il bruciore, la luce assassina sulla strada del ritorno. La frenata brusca, il colore del bagliore prima che il cuore interrompa il suo battere.
L’amore, l’amore di che, l’amore di cosa? La cattiveria sublime di una chiavica di sentimento. Devo ridirlo mille volte ancora.
Voglio uccidere ancora, ancora inginocchiarmi, pentirmi ancora. E ricominciare, e pregare tanto, e correre e correre.
Scavare e scavare, strappare e strappare. Arancione senza scampo e ovunque. Riderne fino a scoppiare.
Buchi ovunque dentro di me, buchi sorgenti dai quali sgorgano enormi quantità di quell’arancione liquido e velenoso.

lunedì 5 novembre 2007

Il motivo


A destra e a sinistra una grande folla, spintono fra le teste più alte e voglio guardare anche io. Non sono lì per caso e non intendo perdermi nulla.
L’uomo è di ossa, ha il collo che parla da solo. Ha un occhio troppo celeste e troppa brillantina sulla testa. L’uomo ha i polsi esili e i baffi ispidi. Finti?
L’uomo si scrocchia le dita delle mani e si prepara.
Prova il primo passo poi torna. Cerca il motivo? Cerca lo slancio?
E la gente è lì che si chiede.
Chi è e chi invece non è affatto. Cosa mangia di solito. Se per caso è infelice più del livello di guardia. Se i suoi parenti sono loro compaesani. Se il suo spettacolo rientra nell’avanguardia e dentro questa si rigira. Se è pazzo o scemo oppure calcola.
Se magari ha un utile o se magari si sente inutile. Se prima ha soddisfatto i suoi bisogni o se ne ha altri in programma. Se agisce senza grigie eminenze di dietro.
Se è rimasto in contatto con la madre e a che età ha finito di odiarla.
Se le sue intenzioni sono per i tre quarti marce. E se questa volta muore? Qualcuno ha pensato qualche cosa in merito a questo?
Ma se è vero che non pensa, che non ambisce, che il suo non è sicuramente un divenire e nemmeno un diminuire ? Ma il bello ed il buono per caso lo interessa ? ma l’arcano lo attrae?
C’è o non c’è di che avvalersene della sua esibizione? Non parla perché non parla o perché non sa parlare? Quali cose eventualmente non conosce?
Capisce che le precauzioni intorno a lui sono inevitabilmente di ordine pubblico e psichiatrico ? ha un suo pubblico veramente affezionato? Ci sarà un trucco, ne avrà di ricambio?
Li ha fatti i dovuti conti col simbolo e il significato? Tutto questo ha allacci con l’avvenire, è forse puro e pericoloso empirismo?
Le parole servono solo a se stesse, le azioni fanno comodo solo a se medesime.
L’uomo guarda in avanti, fissamente. Si sta per avvicinare. Il pubblico, numeroso già s’immagina tutto finito, già vuole un bis, già ne vuole rigodere che quello non si è ancora mosso.
C’è qualcuno che non sa resistere ancora prima dell’esibizione. Perché il fine a se stesso gli è tossico, perché lo vorrebbe fare lui, perché per lui il dolore è un problema irrisolto.
L’uomo prova ancora una volta la consistenza e la determinazione, senza concedere nessuna soddisfazione ai doppi sensi.
Diluviano allora tutti gli altri inutili quesiti.
E si dà coraggio. E deve dimostrare. E ha paura anche lui della morte. Ed è colpa della sua malata sensualità. E’ sicuramente una patologica forma maniacale. E’ un segno ostile, di questo sicuramente si tratta, un grido di battaglia. Oppure un’allusione alla natura. E’ uno strappo, indubbiamente un fasullo. L’irreversibile l’ha fregato eccetera.
Il pubblico schierato fiuta la tragedia esaltante.
Fa un gran respiro, non si guarda intorno e in linea retta si avvia. Mille volte nei cuori della gente l’azione si ripete, va a ritroso e ricomincia.
Fino al tramonto è lo stesso rumore: SPAF!

Andreina


Mi ricordo troppo bene i suoi occhi grandi, troppo neri, sgomenti.
Andreina trova il cancello aperto ed entra. E’ giovedì pomeriggio, un pomeriggio grigio, immobile e rovente. In giardino non c’è nessuno e lei arriva fino alla porta della grande casa dominata dal leone di pietra.
Quel giorno, come tanti altri giovedì, lei e il suo compagno di scuola fanno merenda insieme. Masticano seduti su di una massiccia panchina di pietra, all’ombra di uno scorbutico albero che ha solo voglia di raccontare faccende non lecite. Il suo compagno di scuola non parla molto, è timido, forse per questo le piace. Masticano, talvolta sorridono, talvolta si guardano Andreina è una ragazzina di diciassette anni magra e troppo lunga e adesso suona alla porta di quella grande casa.
Il suo compagno di scuola non apre subito, forse è fermo dietro la porta e la guarda chiusa, poi apre lentamente guidato da un automatismo. Sorride e scende due scalini. Si ripete come ogni giovedì lo scambio troppo lungo di sguardi silenziosi. Andreina vorrebbe prendergli la mano ma, come ogni giovedì, ci rinuncia. Anche in classe questa voglia non la può soddisfare. Andreina non s’è accorta che oggi pomeriggio il leone di pietra ha la bocca spalancata.
- Facciamo merenda? –
Gira su se stesso, risale gli scalini e rientra in casa. L’intero giardino ha un brivido di spavento, ma Andreina non se ne accorge. Sta lì ferma, con i suoi grandi occhi spalancati e sorride.
Dentro il ragazzo chiede qualcosa alla madre, poi, tranquillamente di nuovo esce, con la merenda nelle mani.
Andreina barcolla sulle gambe
- Cos’è, che roba è? –
Ha detto troppo, ne è sorpresa anche lei. Il suo compagno di scuola ha nelle mani due cuori ancora pulsanti. Attraverso la porta aperta Andreina può vedere, sul grande tavolo della cucina, i corpi senza vita dei genitori, con i toraci aperti.
- Io sono timido, non so spiegarti perché…una merenda diversa -