mercoledì 9 gennaio 2008

Infilati nel bianco




“Una punta ,un’eresia. Un rotore, Una teoria”
Questi sono versi li ha scritti mio padre, scienziato di mestiere, ma anche artista, ma anche geniale svitato.
Tutto è cominciato con un thermos di cristalli di emoglobina che si portava dietro da un continente all’altro. Una magnifica avventura, lui la racconta così. Ma gli effetti collaterali dell’avventura sono stati nefasti.
I tentativi di dare una forma intelligente alle sue stranezze, lo hanno trascinato sul tetto di casa. Non so nemmeno se è vero che sono andato, di notte, per convincerlo a scendere, con la polizia di sotto, con la casa piena di animali. E poi il manicomio, a quell’epoca si chiamava così. Da un primo manicomio a un secondo, il ricordo delle sue braccia legate l’ho riposto nel fondo di me. E adesso qualcuno mi racconta che scappava dai cinesi nascondendosi dietro i pilastri della stazione ferroviaria. Mia madre lo ha detto. Poteva anche tacere mia madre.
Ma allora di che uomo si tratta ? Come può ,un uomo di scienza, salire su un tetto e mettersi ad urlare… aveva in mano anche una pistola giocattolo, oppure un lanciarazzi, qualcosa di sicuro aveva. Non so, forse anche questo adesso mi sembra un ricordo sbagliato. Una cattiveria da pescivendoli.
Uno scienziato è giusto che un po’ svitato lo possa diventare.. Dicono anche che la notte la passava scrivendo formule matematiche sulla carta igienica. Anche questa una bugia? E allora le sue distrazioni, i treni sbagliati, gli appuntamenti inesistenti, il motoscafo saltato per aria per colpa di una sigaretta, il laboratorio dell’università saltato per aria a causa di una banale distrazione.
Ancora una voce cattiva si è divertita a raccontarmi che aveva già tradito mia madre in viaggio di nozze. Affari suoi, sicuramente gonfiati e stravolti da un’aneddottica troppo facile.
E poi c’è quella storia della ragazza cinese. Una stupidaggine !. L’avrebbe conosciuta in America, forse una studentessa, e lei lo avrebbe seguito sulla strada del ritorno. Mica le aveva detto ch’era sposato. Ripudiata, scacciata e suicidata su un treno regionale, di quelli con scomodi sedili di legno, che vagano nelle campagne in cerca di stazioni dimenticate. Comunque la sua scienza e la sua presunta pazzia mi hanno sempre messo a disagio. Parlarci era difficile. Capirlo era difficile. Guardarlo vivere era difficile. Smentire gli aneddoti da barzelletta è tutt’ora impossibile.
Era prigioniero, solo e soprattutto. Prigioniero di se stesso, legato da corde che si formavano dalle estremità delle sue dita, imbavagliato da una bava collosa che gli scendeva da alcuni pensieri indecifrabili. Un doppio di se stesso lo tirava in dietro.
Ricordo i pranzi insieme al ristorante. Parole isolate, un specie di sorriso di traverso, e poi tutti e due con gli occhi affogati nel piatto, io a pensare a qualcosa di interessante da dire, lui non so, lui nel torpore del suo silenzio, lui a scappare dai rimorsi suoi, lui appiccicato nei suoi universitari muti ragionamenti. Volevo ogni volta scappare, il conto ci metteva sempre troppo.
Ricordo tutte quelle bottiglie di whisky vuote in salotto, erano la base di un tavolo. Ma lui può permetterselo, lui beveva perchè poteva, perché la sua intelligenza si è presa l’impegno, ed ha la superbia di preservarlo comunque, nell’eternità. E poi bere è cosa da grandi, e poi si tratta di una sfida, e poi per il professore è un gioco intelligente, un atteggiamento implicito.
Mi ricordo la cucina di casa sua trasformata in laboratorio, per studiare e pensare alle alghe, per credere e materializzare il cibo del domani., mi ricordo la fede incrollabile delle sue ricerche. Era strano mio padre?
E adesso mi ritornano le immagini di una sua lezione all’università, in un’aula enorme gremita di studenti, attenti, carta e penna alla mano. Mio padre era di spalle alla lavagna, dall’ultimo banco in alto appariva come un quadruccio di striminzite dimensioni. Parlava fitto e a voce bassa, diceva a se stesso di spalle all’aula, e con un gesso disegnava formule su formule alla lavagna. Pochi secondi, e poi cancellava, la lavagna si dimostrava troppo piccola per tutto quel sapere. Passava oltre.
Gli studenti pur di seguire quella sua lezione da ventriloquo, scendevano dai banchi e gli si accalcavano addosso. Ma aveva già cancellato. Una chiacchierata interminabile con se stesso.
Uno di loro era rimasto seduto e guardava meditabondo un pezzo di pongo informe, sul banco, davanti a lui. Il pongo aspettava impaziente una forma qualsiasi. Ma quale?
I rapporti fra di noi sono sempre stati complicati e pieni di curve. Il suo linguaggio oscuro e sicuro, contro la mia schiuma confusa, le frasi a metà, i pensieri anche. Poca profondità, una sostanza abbozzata come il pezzetto di pongo che ancora non ha deciso la sua forma e mai potrà, in un cavolo di mondo che giura e spergiura, ch’è troppo veloce per tutti.
- Usciamo e parliamo? –
Un sabato mattina, a sorpresa
In macchina, attraverso la città che a rotta di collo si muove, cerchiamo in silenzio qualcosa da dirci.
- Parliamo di sesso, di come si fanno i bambini, oppure…?
Dieci anni c’avevo e quello non mi sembrava un argomento interessante, però se poteva trasformarsi in un inizio…Aspettavo il seguito.
Ma siamo già arrivati all’università, siamo già entrati nel suo studio, si è già immerso nelle carte, ha già cominciato una interminabile telefonata in inglese. Io mi guardo intorno e gli voglio chiedere di un colore, di quel tavolo grande. Ma lui esce dallo studio e mi dice di aspettare. Resto solo davanti ad un quadro gigantesco, un volto minaccioso che mi pianta gli occhi addosso ovunque mi sposto. Dopo due ore la sua mano sulla mia spalla mi libera dall’incubo e mi riporta casa, promettendomi una futura prossima volta. Il quadro è quello di un mio antenato, bruttissimo, minaccioso e Santo.
La prossima volta studierò qualche bella frase da dire.
E adesso l’unico suo schiaffo mi ritorna in mente. Quello il giorno che ha allungato la nostra distanza all’infinito?
Siamo in Spagna, in un viaggio premio per la mia promozione in prima media, o forse quella di mia sorella. In Spagna a guardare la corrida con le mani davanti alla faccia per non guardare la morte. Il suo schiaffo è calato su di me perché mi sono rifugiato a giocare dove nessun torero potesse raggiungermi
Il suo unico schiaffo era fuggito insieme a lui e chissà dove ed appresso a quale molecola o donna, e ritornato per cercare di spiegarmi come era potuto accadere. Ma le sue parole, come sempre non avevano suoni per me comprensibili.
Il disagio e una colpa pronta e confezionata da poter esibire come prova.
- Di me poco gliene importa –
- Ha tradito mia madre, è scappato con quella, certe volte neanche telefona la domenica. –
- E’ strano, è cattivo, è davvero un po’ matto? -
- Beve troppo, come farà a capirci qualche cosa –
Ha un altro figlio, oltre noi tre, nato quella stessa sera nella quale s’era rifugiato sul tetto, il figlio di un altro lui, un ennesimo. Un figlio nato da una donna comparsa da una magia. Ma tutto si perdona ad uno scienziato che adesso si è messo in testa di diventare un artista, un orgoglio in più, oppure un modo di mascherare una follia incontrollabile che gli preme le tempie, che già gli ha regalato un sibilo acuto e continuo, di notte e di giorno, sempre, tanto che per pensare deve accendere la radio.
Adesso ha un tono di voce diverso. Si è messo a dipingere, si è messo a sognare. Salda insieme grandi strutture di metallo vibrante. Poi disegni e poesie, ripetitive e sempre quelle:
“Un martello Una clessidra.Uno smalto Una tastiera “
I disegni infantili. Follia pura può darsi, ma più umana e fragile della sua scienza.
Forse potrei amare più facilmente un artista scienziato.
Allora ritento un approccio, allora gli mostro cosa anche io riesco a fare. Una sera. mi presento da lui e gli dico
- Lavoro per la televisione. Ho una mia teoria sulla preistoria, faccio dei riferimenti e azzardo altri fatti da altri tralasciati, arrivo alla fantascienza . Ti accendo il televisore e ti faccio vedere ? –
Avevo trovato la chiave, mi ero costruito una mia genialità da esporgli.
- Fantascienza? –
Già s’era girato dall’altra parte, doveva cercare un libro, s’era dimenticato di me. Il suo sapere incrollabile aveva ricominciato a prendermi a calci nel sedere. Le sue formule non ammettevano repliche. Un figlio? Il più sensibile? Niente affatto, non si può mica tornare indietro dal seminato. Niente eresie, che questo non è un gioco. Rispedisci tuo figlio da dove proviene con il suo tenero e blasfemo filmato in tasca. Io sono la scienza, non posso ne concedere ne pensare altre cose.
- Nemmeno la fantasia può trasportarlo fino a me –
E intanto il suo pianoforte, che ha sempre suonato la medesima canzone, mi consigliava di non tornare, di prendermela a male, ch’era una battaglia perduta in partenza.
Con l’intransigenza cucita addosso, ascoltavo di lui, rifiutandomi di vederlo e rifiutandomi di sorridere. Il silenzio allora…
“Una foglia un orbitale una goccia un’illusione”
Mio padre un mito folle, mio padre e la prepotenza del sapere, mio padre la quinta essenza del menefreghismo , mio padre un dispiacere sfilacciato nel tempo. Fra me e lui l’antartide.
Ma la sua scienza continua a camminargli sottobraccio, a sfidare il sapere canonico, l’arte intona la sua canzone imbarazzante e il suo nome vola al disopra delle città universitarie, degli stereotipi fritti e rifritti, sbeffeggia i luoghi comuni, fa il verso al già visto, azzarda intuizioni, spintona gli oscurantismi, alza la voce, ignora regole e confini, si spinge oltre l’orizzonte curvo, disegna mappe indecifrabili ma curiosamente possibili. Migliaia di pagine le sue, scritte senza conoscere ne soste ne stanchezze, dimenticandosi lungo la strada addirittura la sua identità, sdoppiandosi e continuandosi a sdoppiare, perdendo i pezzi e spargendoli in un’universo più grande. Uno scienziato, il più geniale e il più matto.
Il prezzo è altissimo, ma deve essere pagato per intero. Io annuso di lui la sua forza con imbarazzo…con la consapevolezza di avere perso l’ultimo treno della sera. Anche le sue cadute diventano merce preziosa da ascoltare rispettosamente. La sua saliva diventa una traccia da seguire. Il professore ha detto, il professore è stato qui, il professore ha le sue insolite e giuste teorie.
Fino a quando gira una chiave, una domenica pomeriggio, si apre una porta e non ricordo quale fratello mi dice:
- Ha il cancro –
Deve ridirlo perché io lo possa per bene capire.
- Tuo padre, il professore, ha il cancro -
Cerco…. qualcosa da dire e da chiedere, cerco… una manciata di comprensione dentro e fuori di me..
- Giù in fondo nel lobo del polmone sinistro -
- Quale padre? Quale cancro? –
Ed io adesso sono lì, scaraventato davanti a lui, che dopo vent’anni quasi non riconosco.
Cerco…
“Un rumore, un’inflessione, un sistema, una creazione”.
E’ seduto su un divano con gli occhi spaventati, sembra ubriaco e perduto, sta masticando chissà quale formula, non è più irraggiungibile, non è più il professore. La televisione trasmette una partita di calcio a volume altissimo. Il fischio nell’orecchio, quasi non ricordavo, non l’ha abbandonato, anzi anche io adesso posso sentirlo. Questo è adesso mio padre, centrifugato dentro un tempo che non ho più voluto guardare.
Mi fa vedere un pezzo di carta scritto e firmato. Leggo e rileggo ancora
- Carcinoma c’è scritto –
- Esattamente mi vogliono appiccicare una malattia che non ho. Mi vogliono far credere che ho un cancro. C’è scritto nero su bianco che non ce l’ho -
- Tua madre, i tuoi fratelli me lo sono venuti a urlare in faccia -
- Non ho un tumore è chiarissimo. Me ne intendo io, sono un luminare io –
Perchè si diverte adesso a negare questa lugubre evidenza ? Perché la sua scienza s’è messa in testa di commettere questo omicidio, perché vuole imbrogliare le carte e punirlo?
I suoi occhi spalancati mi spiano
- Una macchinazione! –
- Un complotto venuto dall’alto ? -.
- Annientiamo il professore una volta per tutte, facciamola finita una buona volta con lui –
Parla come un ferito a morte aggrappato a un delirio.
- Se qui c’è scritto che non si tratta di tumore, tumore non è. E forse quel medico non è altro che un compagno di scuola di tua sorella, oppure l’amante di tua madre per caso. Io invece sono un professore universitario –
Vuole che m’infilo nel suo farneticare e ci resto. Qual è mio padre, dov’è seduto?
Cerco nelle corde vocali.
Alle pareti del salotto sono appese le sue poesie incorniciate, i suoi disegni infantili….la sua scienza è relegata in una grande biblioteca ammuffita e invasa dalla polvere. La sua scienza ha perduto, tace.
Accanto a lui il figlio, l’altro figlio nato da una magia, il ladro del mio nome, la mia stessa voce, lo stesso difetto sulla guancia sinistra. Guardava e si agitava dentro un impasto acre di rancore appassionato, con la pericolosa convinzione di essergli specchio. Parla e ride forte, cercando di coprire quella fine annunciata, tentando di riportare il mio illustre padre al suo sapere protettivo.
Siamo arrivati in clinica. Siamo lì, prigionieri del bianco, stesi su un letto bianco di una camera bianca, sono accanto a mio padre, lo guardo, ascolto le sue parole incomprensibili, spezzettate..
Nel corridoio appaiono velocemente due lunghe poltrone che prima non c’erano, ci preparano al pellegrinaggio dei grandi cervelli, gli illustri colleghi dell’università, certe facce appuntite, discrete e dal sottovoce intelligente, certe giacche e polsini consumati dall’eccessivo sapere, alcune vecchie bucce dal nome importante. Due minuti ognuno, per ripercorrere un’esistenza così talmente illustre. Anche per me ci sono sorrisi e parole formulate ad ultrasuoni. Dopo l’ultimo le poltrone nel corridoio spariscono, l’amministrazione le rivuole indietro. Servono davanti alla camera quindici.
La pace ed il silenzio di tutto l’intero giorno seguente, costruita dal suo respiro pesante. La sera arriva un infermiere bianco e mi dice di non andar via, che forse la sera sarà questa. Dovrei telefonare, avvisare gli altri che fra non molto si infilerà nel tunnel in modo definitivo. E così, resistendo alla stanchezza, faccio la prova delle mie emozioni.
Le sue parole vanno a spegnersi. Le sue gambe, non vogliono rimanere sul letto sudario, cercavano di scendere, di andarsene via. Le mani, affusolate e quasi grigie, si muovono ogni tanto, come per dire cose che fanno fatica a formarsi nella gola. Mi alzo, mi avvicino e le rimetto al loro posto. Un carceriere. Nulla di lui si muove, sembra allora dormire, e allora anch’io, spaventato da quello che potrei sognare eventualmente.
Ma la sua voce indebolita mi arrivava ancora una volta.
- Perché ci sono le macchine sul soffitto? -
- Perché c’è sparso tutto il mio lavoro così colorato?-
- Come papà. Cosa? –
- Chiedi un collirio, chiama un dottore, è possibile che non se ne sono accorti? -
- Digli anche che voglio le ostriche per pranzo, non una cosa qualsiasi –
Ancora ficcato in quel sogno, mi alzo dal sudario bianco per andare a chiamare un dottore.
E’il delirio, mi spiega, passandosi morbosamente la mano su una tasca del camice sempre orribilmente bianco. Il collirio non c’entra.
- Una medicina ce l’ho, ma solo alla fine. Non io, ma i suoi parenti adesso –
Rientravo nella stanza con i polsi ed i gomiti che ballano senza più controllo…e il collirio e le ostriche? Niente, magari dopo, magari non si ricorda più. Sta con lo sguardo fisso al soffitto, immerso nel suo delirio.
Il telefono squilla con un eco assordante, l’amministrazione, viste le circostanze, m’invita a regolare il conto definitivo. L’amministrazione incalza ancora ma io mi richiudo nel silenzio bianco stavolta rotto soltanto dal fruscio delle sue ginocchia che si alzano e adesso più che mai vogliono uscire. Io faccio le prove della mia sofferenza, posso toccarla addirittura, ma rimane ben chiusa in una busta di plastica. Provo a parlare. Ma la sua voce s’infila nella mia e la busta di plastica del dolore si lacera e si sparge per terra.
- Tre persone mi hanno rovinato la vita, tutte e tre…-
Col fiato sospeso aspetto che mi dica quali, intanto gli rimetto ancora una volta le gambe nel sudario, e scopro che quasi ho paura di toccarlo.
- Quali papà, chi? –
Ma mentre lo chiedo crolliamo ambedue in un sonno malato. Immagino solamente qualcuno che viene di fretta e inutilmente a sistemare la stanza e in silenzio va via spalancando la finestra. L’amministrazione ha fretta d’incassare e ritelefona.
La porta della stanza bianca si apre. E’ l’ultima fidanzata di mio padre,. Si guarda in giro, parla forte, come se si trattasse di un risveglio del primo mattino, si drizza sulla schiena
- Ti faccio la barba ? Ti lavo la faccia?-
Mio padre non si è nemmeno accorto ch’è arrivata, mio padre si è ormai infilato in un sonno profondo. E allora chiude la finestra e si mette a pettinarlo, più lentamente che può.
- E’ stanco e non lo voglio svegliare –
Io mi alzo dal letto accanto e corro nel bagno a vomitare. Dal bagno ascolto l’arrivo di tutti. I miei tre fratelli e mia madre, la regina imbarazzante di quella bianca stanza.
Posano i cappotti dove capita. Il primo dei fratelli riesce subito ha bisogno di un caffè per preparasi evidentemente al peggio, il secondo fratello prede una sedia e si sistema in fondo alla stanza, nel punto più lontano dal letto di mio padre. A mia sorella le squilla il cellulare, vorrebbe spegnerlo, ma poi risponde. Quel lavoro è urgente ed urgente anche l’appuntamento di domani, mia madre riesce a prendere fra le sue una delle mani inermi e sempre più scure, la fidanzata fa un passo indietro, dice qualcosa senza alcun senso e poi decide di chiudersi in bagno. Io resto in piedi ebete e indeciso. Nella stanza il bianco è ancora il colore più forte.
Sento i passi di qualcuno nel corridoio, è il dottore che qui non entrerà, ognuno di noi vuole organizzarsi il tempo dell’attesa, ognuno di noi si sta chiedendo quando. Le gambe di mio padre non tentano di scendere più. Lo guardo, guardo il soffitto dove prima era apparsa la sua giostra personale. La fidanzata, soddisfatta del suo pettinare, ma imbarazzata dalla presenza di mia madre, propone di andare a comprare del cibo, è un silenzio spettrale che si deve colmare.
- Quando accadrà? –
- Quanto ci manca, è già notte? Prima succede e ed è meglio per lui –
L’infelicità di quella frase rimbalza sulle pareti e si spegne in un niente.
No, adesso si sente il respiro, prova ad essere profondo, ma il bianco della stanza lo rimanda indietro, lo spezza, lo tramuta in affanno. Siamo tutti lì, tutti girati verso di lui, tutti in ascolto, tutti con le mani sudate, il tempo adesso si è messo a correre.
Più il respiro si fa affannoso più la nostra agitazione e attenzione sale e scende come in otto volante. La mia faccia si riempie di lacrime come in un riflesso condizionato, ma le lacrime non escono, vengono riassorbite dalla gola, e così i pensieri…non ce n’è uno declinato perfettamente, nebbia solamente e gli occhi non si vogliono fermare, da lui alle facce intorno, alle sedie, a tutto quel bianco accecante. L’attenzione si perde nei rumori, i gorgoglii della pancia, il respiro di mio padre, il naso pieno di muco di mia sorella, una gola che si schiarisce, un colpo di tosse non so di chi. Qualcuno si affaccia alla porta e passa via, è il dottore e non è il dottore, mi alzo voglio seguirlo, ma la sua voce alta nel corridoio mi fa tornare indietro. Siamo così, sospesi, in cerca di una distrazione possibile, l’articolo di un giornale, un bicchiere vuoto, lo stipite della finestra, una maniglia, il rumore di un lontano sciacquone, il battito del nostro cuore. Siamo agganciati così ad una sorte che ci guarda e non le importa di noi, che sembra di non avere fretta …che probabilmente all’improvviso darà il suo colpo di grazia definitivo. Ed è così che, mentre tutti noi sembriamo assopiti dentro noi stessi, ed anche stanchi di attendere l’epilogo, il primo rantolo arriva improvviso e scuote l’intero suo corpo, lo solleva e un secondo ed un altro. Tutti ci ritroviamo alle sue mani agganciati, decisi a resistere. Un tiro alla fune, una fune che comincia a puzzare di acqua stagnante, che sembra uscita fuori dal fantasma di un’antica nave.
Io mi sgancio, ho le mani segnate, ho il suo rantolo addosso, il mio respiro va con il suo, esco a cercare il dottore, che parla al telefono, che subito non ha intenzione di smettere. Lui parla di una casa al mare, della ristrutturazione della sala da pranzo, di certe mattonelle che ha visto a un prezzo eccezionale, del figlio, della scuola del figlio, degli amici del figlio…lui parla e nella stanza bianca mio padre continua a lottare.
- Quella medicina?-
- Quale medicina? -
Gli dico sovrapponendomi alla ristrutturazione del suo salotto. E aspetto la sua risposta un tempo infinito.
Rientro con l’infermiere e la siringa, mentre la fidanzata di mio padre si vuole mettere a dirigere il traffico delle emozioni collettive.
- Non urlate così, state calmi, lui ancora vi può sentire –
Ma nessuno l’ascolta, ma il tiro alla fune s’è fatto furioso. La sorte ci mette più forza e scaraventa via le ultime resistenze sudate, le mani di mio padre lasciano la presa, le sue dita appaiono più lunghe ed ancora più magre, le unghie sembrano cresciute improvvisamente. Io e l’infermiere siamo il regalo finale.
- Pochi minuti ancora -
Ecco la mia patente di boia. Di quei pochi minuti nulla mi posso ricordare, soltanto che sono durati fino all’alba. Ed ecco il signor dottore, carezzandosi sempre la tasca del camice, entra, si avvicina e ci dice. Intorno a me la stanza è sottosopra, non è più così bianca. Coperte, lenzuola, cappotti, sedie, giornali tutto è volato via, è esploso, per poi ricadere annodato e scomposto. Vado dalla finestra al bagno, dal bagno al corridoio, dal corridoio al corridoio, mi muovo per non ricadere, intorno a me sento piangere, uno dei miei fratelli lo vedo seduto in terra con la testa fra le mani, mia madre e mia sorella sono scomparse, uscite, non so dove. La fidanzata aiuta l’infermiere a spogliare mio padre. Mi guardo mentre esco sul balcone, mi accendo una sigaretta e respiro a pieni polmoni una gelida alba. Il corpo nudo di mio padre è solo, è vuoto, è spento, tutto quel bianco è tornato padrone e l’ha invaso, tutto quel bianco ha anestetizzato il mio sentire. E il mio dolore dov’è? Qualcuno rimette troppo in fretta tutto a posto, disinfetta, pulisce. Lo ritroverò più tardi, nel traffico di una strada, dietro a un portone, dentro gli occhi di un cane randagio, dietro gli occhiali di mia sorella, sotto la doccia in una qualunque mattina, consapevole di essermi immaginato tutto.

Abbiamo finito di mangiare, il mio difficile sogno ad occhi aperti termina qui, mi alzo, saluto mio padre assorto nei pensieri suoi, ho da fare. E non mi accorgo che un piccolo pezzo di agonia, della stessa consistenza della gomma americana, mi è rimasto appiccicato ad una scarpa.