giovedì 27 marzo 2008

E cammina cammina


Incrocio i tuoi occhi all’uscita del cinema, sotto la pioggia fitta e gelata, sono grandi, neri e profondi. Hai lunghi capelli castani e una faccia affilata. Ci guardiamo a lungo, come se già ci conoscessimo, come se non ci fosse bisogno di parole. Restiamo a guardarci ammezzo alla gente che apre gli ombrelli, che si saluta, che attraversa la strada o aspetta un taxi sotto la pioggia battente. Ti guardo ipnotizzato senza saperne il perché. Tu non vuoi andartene, resti lì impalata con l’ombrello chiuso. Sei fradicia e immobile. Chi sei, cosa vuoi da me? A guardarti meglio hai una somiglianza impressionante con l’interprete principale del film che abbiamo appena visto, ma no, non è così.
La gente va via, rimaniamo soltanto io e te sui due marciapiedi opposti, nessuno dei due vuole voltarsi ed andare via. Entro nel tuo nero senza nemmeno accorgermene e mi lascio trascinare. Arriva il mio taxi.
I tuoi occhi li incrocio di nuovo quando, vestito da soldato, con la spada tengo lontana la folla di curiosi da un uomo che porta sulle spalle la sua pesante croce. Tu ti fai avanti per dare un po’ d’acqua a Gesù di Nazareth, ma io brutalmente ti ricaccio indietro, nessuno deve aiutarlo, è scritto che, con la dovuta sofferenza, deve salire su quella collina e morire. Io sono un soldato e non mi interessa se quest’uomo merita o no la sua fine, io ubbidisco a degli ordini. Ma i tuoi occhi riescono a farmi sentire un ottuso carnefice. Ci riprovi, corri avanti, ed io ti lascio fare, questa volta faccio finta di niente.. Sei sotto la sua croce mentre lui muore, ed io vorrei chiedere scusa.
Sei ancora tu, gli stessi occhi, lo stesso volto appuntito, accusata di essere una strega. E sono io ad accompagnarti sul rogo, solo perché ti hanno sentito ridere e cantare sconcezze nel sonno, così come usano fare le streghe. Ti hanno preso e trascinata da me per bruciarti in piazza. Accendo il fuoco sotto i tuoi piedi mentre la gente ti insulta ed urla. Mentre bruci mi guardi dritto in faccia, io mi tolgo la maschera e della tua morte atroce sinceramente mi dispiace. Basta con questo mestiere, non voglio più uccidere nessuno. Ma ti guardo bruciare, e dopo di te moriranno altre due, colpevoli di altrettante probabili stranezze.
Mi guardi prigioniera, insieme ad altri, infreddoliti e ridotti pelle ed ossa, tutti in fila, scheletri all’appello davanti alla baracca di un lager. Sei solamente un numero, non hai più diritto a una vita, aspetti solamente che venga il tuo turno. Sei in fila in mezzo alla neve, ed io ho una divisa nera lorda di sangue, ho il potere di vita e di morte su di te. Il tuo corpo, che non vale più niente, posso annientarlo in una camera a gas, gettarlo in una fossa comune o farlo bruciare in un forno. Sono qui per ucciderti. Ci guardiamo a lungo e non scelgo te, i tuoi occhi me lo impediscono.
Quando entro nello scompartimento e mi siedo, ti riconosco, sei tu e mi stai seduta di fronte, riconosco il tuo volto appuntito e i tuoi occhi neri, forse mi sbaglio, ma anche tu hai capito chi sono.
Alzati a va via, altrimenti sarai la mia prossima vittima, non riesco a resistere molto senza uccidere, è un vizio, è un vezzo, è una malattia. Ma tu ti alzi per andare al bagno ed io ti seguo. Entri, non farlo ti prego, non voglio. Ma tu entri e stai per richiudere la porta, io la blocco, in un attimo e senza guardarti, mi ritrovo ad essere ancora il tuo assassino. No, non è vero, ho colpito senza guardare e ti ho mancata. Arrivederci alla prossima volta.
E la prossima volta ritorna in un assalto in piena regola. Entro in assetto di guerra, di notte, all’interno di una scuola e picchio selvaggiamente chiunque mi trovo davanti, ragazzi che dormono nei sacchi a pelo. Lo faccio solamente perché sono pagato per farlo, sono un eroico tutore della legge io, approvo la tortura e adoro l’odore del sangue. E’ una libera e personalissima interpretazione del mio dovere, è un sistema per esorcizzare un pensiero diverso. Ti trovo in un angolo che dormi, ti prendo per i capelli e picchio e picchio, poi ti trascino con me. Ti giri ed i tuoi occhi me li trovo addosso. Non ci diciamo una parola, lascio spaventato la presa, ancora tu. E allora mi accanisco altrove.
Ma non puoi sfuggirmi, ma il destino ci riappiccica insieme, tu credi nella rivoluzione, tu devi assolutamente spararmi, ma volutamente sbagli inspiegabilmente la mira, per un assurdo motivo che anche te stessa non spieghi, non puoi uccidermi. Ci guardiamo ancora, ancora rimandiamo alla prossima volta.
Sono steso in terra in un angolo riparato della stazione ferroviaria quando nuovamente mi accorgo di te, hai due gambe lunghe e i tacchi alti, ti muovi come un’antilope, sei vestita elegante. Mi guardi assolutamente per caso, attraverso la barba incolta e gli stracci intravedi i miei occhi, prendi una moneta senza che io ti chieda niente, ti pieghi lentamente e, dispiaciuta me la posi accanto, sembra quasi che mi sorridi, che sei contenta di rincontrarmi. Ma la donna alla quale ho trapanato la testa per salvarle la vita ha soltanto i tuoi occhi, non sono matematicamente sicuro che si tratti di te, te che sei riuscita per un centimetro ad evitare di investirmi con la tua macchina proprio davanti al cinema dove ti ho visto la prima volta. Scendi dalla macchina, piove, lasci che la pioggia gelida e battente ti bagni. Adesso mi ricordo più di mille anni fa, di averti così tanto desiderato. Finalmente mi prendi per mano e scompari insieme a me nel buio.

sabato 15 marzo 2008

La danza degli infiniti


Disinnescare, fantasticare e rimescolare fino quasi a tarda notte. Ricominciare a declamare la propria improbabile estraneità. Fluidificare la deposizione già depositata in precedenza, cambiare disposizione dei verbi, imbrogliare i soggetti, riconsiderare la propria posizione. Andare a marcia indietro.
Sorseggiare l’accadimento, metterlo a disposizione dell’improvviso rifiuto. Ballare per essere più gradevolmente convincente. Fingere di dormire, fingere di deglutire più volte. Volteggiare nelle improbabili dicerie. Riconsiderare per un’altra intera notte eventualmente il da farsi. Irrompere di nuovo, farsi esplodere nel centro.
Bivaccare, gozzovigliare nella nuova versione dei fatti, sodomizzare i misfatti, ingiuriarli, ridirli a bassa voce ed esercitarsi a ridere. Inoltre ridare forza e nuovo smalto alle virgole, spostare i punti interrogativi, copulare,e godersi gli avverbi. Esercitarsi a minimizzare.
Girare improvvisamente sulla destra. Fermarsi e farlo notare. Rotolarsi e creare solamente due contraddizioni. Ripetere alla rovescia con toni diversi. Distribuire a piacere sei nuove stonature, rifarci di nuovo le pieghe e accarezzarne con lentezza esasperante i bordi.
Cercare almeno sette decodificazioni valide. Invalidare con coraggio tutto l’intero ed interminabile resto. Sospendere il risultato, ridicolizzare il risultante. Candidare altre incognite, altre affascinanti incognite spuntate fuori come per caso. Adesso mettersi in ginocchio, adesso saltare in piedi all’improvviso, puntare in alto e morire per terra.
Giocarsi incoscientemente la libertà, quella che mai più sarà nuovamente proposta. Allora poi sentenziare di nuovo, parlare con slancio ad una folla che non c’è. Contare e ricontare le dita delle mani, gettarle in alto per essere più convincente, inconcludente quanto deve bastare, in alto mare proporsi nuovamente.
Come da manuale invocare il miracolo, mettere in fila per due le speranze, raccomandarsi e cominciare a pregare camminando all’indietro. Saltando però.
Corrugando la fronte.
Poi dritti e di corsa verso l’infinito, respirare a pieni polmoni l’inaccessibile, considerare l’imponderabile, tenendo conto di non essere ancora completamente sospettato.
Ingiuriare se stesso ogni tanto, così da non farsi dimenticare, per provare ad oltrepassare il consentito impunemente.
Dichiarare apertamente di volere sbirciare nell’aldilà, e se si presenta l’occasione di volerlo sfidare in duello, che è bello da sentire, che rende più alteri e più tronfi.
Cambiare quindi marcia e provare a farsi dimenticare, chiudere la finestra e nascondersi, negare e rinnegarsi, cancellare le ombre e d affermare di volersi organizzare la dipartita. Dipartire sul serio quindi, evitando gli inganni, dipartire e mai più ritornare. Facendosi cremare per verificare l’effetto che può fare.

martedì 4 marzo 2008

Sono tornato


E’ il mio compleanno. Sono tornato nella mia bella casa di pietra ereditata dai nonni materni, sono tornato dal mio grande leccio secolare che forma una gigantesca cupola d’ombra davanti alla casa. L’albero che racchiude, nascosti dentro il suo torace molti segreti della mia giovinezza,. i ricordi pulsanti e bagnati dei miei primi innamoramenti. Dentro di lui riposano le pagine che ho scritto e le risposte che non ho più potuto rileggere, perché la guardia forestale, una mattina d’inverno è venuta a mettere il cemento di rincalzo per rinforzare il gigante esausto e malconcio, e ha seppellito per sempre una parte di me, un grande pezzo del mio cuore.
Seduto davanti alla porta, guardo davanti al sole quello che ero, una carriola ormai deformata, la vecchia ruota di un carro, gli alberi, le pietre, l’erba, il bosco che comincia a pochi metri davanti a me, e i cespugli che scandiscono i miei anni. Ascolto il verso degli animali, dispiaciuto perché non riesco più a riconoscerli ed il rumore, quel magico rumore del treno che passa sulla ferrovia più in basso, quel rumore che mi ha fatto compagnia nel buio della mia camera nella casa dei miei nonni, a un chilometro di distanza da qui. Sono venuto per parlare con quello che resta di me, con le mie pensieri annebbiati e i miei batticuore, oramai poco distinguibili, ma ancora presenti.Sono andato via dopo la morte dei miei nonni, deciso ed entusiasta di affrontare la vita di città, a gettarmi in un frenetico mucchio, tutto preso da un’accelerazione soltanto immaginata. E adesso sono qui, il giorno del mio compleanno, messo in fuga dalla consapevolezza di essere troppo debole e troppo ingenuo per la vita cittadina e di avere ancora una volta bisogno del mio padre albero. Sono tornato per raccontare a queste pietre e al silenzio di questo verde tutte quante le mie stanchezze, a scusarmi perché non ho capito che da qui non mi sarei mai dovuto muovere. Annuso l’aria per cercare il latrato dei cani, per riempirmi la faccia del profumo della legna che arde nel grande camino, del profumo di lavanda e della minestra che cuoce lenta e saporita. Per catturare, fra le labbra e la fronte quest’aria così troppo limpida e crudelmente sincera. Sono tornato perché è il mio compleanno.
Salgo ancora sulla groppa del grande leccio, come facevo tutti i pomeriggi di tanti anni fa, la salita è comoda e non pericolosa, i rami sono talmente grandi che non c’è bisogno di appoggiarsi. Accanto alle sue immense radici devono essere ancora seppelliti gli oggetti che rubavo a casa dei miei nonni per rappresaglia, dopo ogni sgridata. Statuette, bicchieri, vasi, piatti, fotografie. Trovo ancora il grande buco, tappato dal cemento, nel quale nascondevo i miei grandi sogni, le lettere a Marisa, la figlia del maresciallo del paese e le sue risposte enigmatiche. Le dichiarazioni d’amore a Maria Pia, l’amica di mia sorella più grande. L’amore, quello strano ed inquietante amore per la mia sorella adorata. Nel buco anche i miei progetti futuri, precisi e chiari in tutti i dettagli, la mia vita come volevo che fosse.Volevo andare in città per fare il dottore. Lì nascosto giace tutto il vino, che venivo a bere, per cancellare le insicurezze e gli appuntamenti mancati, steso su un ramo ogni volta più alto a cantare le mie stonate filastrocche sotto voce.
Nel grande buco, tappato con il cemento, c’è però rimasta una piccola apertura, che si allarga con facilità, ci ficco un dito, poi due, poi tre e sono a due passi dal mio tesoro nascosto. Dentro sento vibrare qualcosa, sono zampe, sono ali, sono centinaia, una nuvola di Ammazzasomari, così si chiamano i calabroni gialli e neri, dei veri e propri combattenti. Escono velocemente dal piccolo foro e si vengono a posare, sopra la testa, sulle braccia, sul torace. Sono immobilizzato dalla paura, ma loro danzano avanti e indietro sulla faccia, s’infilano nella camicia, la loro è una danza gioiosa, è un benvenuto. Mi assicurano che hanno fatto buona guardia alla mia memoria. Ora che mi hanno ritrovato loro si occuperanno di me. Mi entrano in bocca, riescono, mi frugano ovunque e più non se ne andranno.

lunedì 3 marzo 2008

intorno alla notte


La notte, questa notte nasce come la condanna di un tribunale, cambia i colori, stravolge il ritmo del tempo, i suoi rumori diventano più distinguibili e minacciosi. Questa, come tutte le altre notti, ha un esito incerto, cammina su un cornicione, in bilico. Quando arriva, il buio sale lento e furbo dalle caviglie, si sparge nelle vene, invade la pancia, il torace, le braccia, prende possesso delle mani, della gola e le mascelle. Arriva sugli occhi inesorabile e definitivo, e raddoppia il suo effetto, diventa buio nel buio e porta il sonno con se, allo stesso modo di una malattia terminale. Il sonno si appoggia sul mio torace ed aspetta di possedermi a suo piacimento, soddisfatto di rendermi suo servo per il tempo che gli occorre, per il giusto tempo che basta. Una ripetuta prova generale della brutta morte definitiva.
Mi accorgo allora che il mio torace non fa resistenza, si lascia penetrare nei reni, nelle scapole e fin su al naso e la fronte. Mi rimane ben poco per organizzare i pensieri, per non essere preso alla sprovvista e sbattuto, e travolto, e annegato nel mare in tempesta dell’imprevedibile, facile vittima del mio inconscio infido, traditore e dispettoso. In balia di un giochino troppo violento, costretto a brindare ad una festa maledetta e fetida farcita dall’incontrollabile, da visioni apocalittiche ed esagerati presagi di sventura.
Il mondo dei sogni è spietato e traditore. Bisogna stare attenti perché i pericoli e i danni di una sola notte possono avvelenare la mattina seguente e tutti gli altri giorni che dopo verranno, sempre che accetteranno di arrivare.
Ed io così faccio anche questa volta al sopraggiungere dell’ennesima prova generale della definitiva notte. Ancora prima di spegnere la luce, mi scelgo i pensieri in sequenza, la posizione più comoda e le immagini che potrebbero favorirmi un sonno senza danni ulteriori, così da andare in contro a sogni nei quali l’orrore non è di casa. Sogni sicuri, sogni sorridenti.
Mi sistemo sul fianco sinistro, infilo la mano sinistra sotto il cuscino, la mano destra deve restare per solo cinque minuti fuori delle coperte, ma poi devo infilarla dentro e posizionarla a poca distanza dal naso, il naso che deve annusare un giusto e salutare freddo. L’esperienza poi mi suggerisce di non stendere le gambe, ma nemmeno tenerle troppo rannicchiate, e le dita dei piedi è sbagliato e controproducente tenerle accartocciate su se stesse. Il telefono e lo sprai per il naso sempre a portata di mano.
Dopo queste accortezze decido il ricordo con il quale iniziare il pericoloso viaggio e spengo la luce.
Il mare luccicante della città nella quale ho vissuto da adolescente, il golfo, il grande vulcano, il lungo mare, i vicoli stretti della città vecchia. L’odore di cucinato, quell’aria sorridente, tutti quegli occhi spensierati, le ricchezze e le miserie
gomito contro gomito. D’altra parte non è la prima volta che vado ad iniziare la notte a questo modo e mi ritrovo ancora per grazia di Dio sano di mente.
Allora mi avvio davanti alla grande finestra sul golfo della mia bella casa. Le scuole medie,
Ecco, ho ingranato la marcia verso una notte che non mi tradirà, continuo a guardare il luccichio del mare e i vicoli pieni di gente. Ma all’improvviso il rumore assordante di una porta a vetri che, per colpa del vento si abbatte su di me, il mio naso pieno di sangue e un sonoro schiaffo di mia madre. No, questo è un particolare che devo scartare, saltare, eliminarlo subito. Saranno state le ginocchia troppo piegate a chiamarlo in causa. Accendo la luce sorpreso, è la prima volta che risale a galla quella porta a vetri, mi rifiuto comunque di sapere e di indagare oltre, il sonno è già in viaggio verso l’ombellico, mi devo sbrigare. Riposiziono le gambe, mi schiarisco la voce, mi soffio il naso, mi stropiccio la faccia e ricomincio dai miei amici, da quelli che ricordo, dalle facce dei miei compagni di scuola, e poi la mia prima ragazza, le sue guance, quel ridicolo bacio nel buio improvvisato di una festa di compleanno, i tremori della sua pancia, l’imbarazzo. ancora lei con le mani in mezzo alle mie gambe nel buio del cinema “Amedeo”. Uffa, ma il cinema Amedeo non è stata la mia meravigliosa prima volta, così proprio non va. E’ successo durante una lezione di ginnastica in seconda media, mentre saltavo e allargavo le gambe, ho impiastricciato il pantaloni della tuta con qualche cosa di appiccicoso, e così imbrattato sono arrivato a casa convinto di essere ammalato gravemente, non ho detto niente a nessuno. Anche questo particolare è da depennare, saltarlo a pie pari e non tenerne conto.
Continuo con i nomi e con le facce. Paola era bionda e indossava sempre un cappotto blu, Massimo era troppo grasso ed era figlio di un professore universitario, Giancarlo era già un teppista ma dal sorriso sfavillante, Piero sedeva al primo banco della mia classe…no Gesù, proprio lui che un giorno non è venuto a scuola perché è morto suicida, così mi rovino il sonno. Ma forse mi ricordo male io. Vado a bere un bicchiere d’acqua e ricomincio. Non posso nemmeno ricominciare dal mio compagno di banco Alfredo che ha perso tutti e due i genitori giù da una scarpata il pomeriggio che dovevo andare da lui a finire i compiti. Che sfortuna, il giorno dopo all’interrogazione di geografia non ho aperto bocca !
Va bene, ripenso dalla mia grande casa con la vista sul mare. Era stata ricavata da un vecchio convento aggrappato alla montagna, la portineria era all’ultimo piano, il portiere si chiamava Enrico ed era fesso e pure antipatico. Un giorno, insieme a mio fratello gli ho scaraventato dentro casa una grande busta piena di bombe puzzolenti al gusto di uova andate a male. L’androne davanti alla porta di casa ci serviva per giocare a pallone, urlare a perdifiato, picchiarci e correre con i pattini a rotelle. I’appartamento era addirittura a due piani, lo studio di mio padre aveva una vasca di pesci rossi. Dalla terrazza e dalla finestra di camera mia potevo vedere il golfo tutto intero, con il mare immenso, due isole e le barche, tante, piccole e lontane. La scrivania dove ogni pomeriggio mia madre m’inchiodava per fare i compiti era piazzata proprio davanti alla grande finestra dei sogni. Mi sedevo e scrivevo su un grande foglio di carta “La matematica mi fa schifo”. Urla e schiaffi, schiaffi e urla di mia madre davanti a quel panorama da sogno. Non posso permettermi di arrendermi al sonno con codesti dolorosi pensieri, non posso proprio perché rischierei di risvegliarmi con qualche difetto importante.
Rimescolo in fretta nei ricordi e pesco il viaggio premio per l’avvenuta promozione, ma lo devo abbandonare in fretta, perché le immagini della corrida mi fanno sobbalzare. Infierire su un toro, accompagnando la tortura con grida di gioia, tutto un intero stadio, ed io con le mani davanti alla faccia a supplicare di non ucciderlo.
Di corsa a pesca di un altro ricordo decente, in un vuoto temporale causato proprio da quella corrida, dalla spada imbrattata di sangue, dal berretto nero del torero lanciato in aria, da quella gioia collettiva e assassina.
Mi giro allora sul fianco destro, azzardo una manovra mai tentata prima, mi abbraccio stretto, vado alla ricerca dei miei amori.
Titti, eternamente sopra di me, a cavalcarmi e cavalcarmi, fino a quando un giovane turista orientale non le ha pestato un piede. Paola che era innamorata perdutamente e solamente dei miei occhiali, ho cambiato montatura e la sua passione per me si è dissolta. Olivia che non voleva mai togliersi le calze, che aveva i capelli troppo lisci e neri con dei riflessi blu, che non sapeva spogliarsi, che un giorno intero senza far l’amore non poteva stare. E’ bastata un brutta influenza per far finire l’incanto. Giovanna, dalla quale una sera non riuscivo più ad uscire, incastrati così e trasportati al pronto soccorso coprendo l’imbarazzo con un solamente un lenzuolo. L’imbarazzo fu troppo bruciante. Milena, troppo secca e troppo pazza, che ho potuto amare solamente ad un metro di distanza e con parole ben studiate e su misura. E alla fine quel volto senza un nome, quel corpo così caldo e attraente senza una forma, quell’alito inebriante addosso a me senza una data di nascita e un colore, quel ritmo del suo ventre a tempo di musica, per anni aggrappato a me evanescente. Con quel corpo vicino, in cielo e in mezzo ai prati, nell’acqua e sulle cime delle montagne, a me sempre incollato.
Così, adesso posso finalmente dormire innamorato, ingordo di quell’umida pancia invisibile ed ubbidiente ad ogni mio desiderio.
Il sonno arriva che ho fatto appena in tempo. Un sogno così ovale e suggestivo.
Sposto una gamba, mi assesto, mi rigiro sicuro ed il libro che ho lasciato incustodito sulla coperta si apre spintonato da me a pagina quindici. Dalla pagina quindici esce il fumo dei corpi di migliaia di deportati, i corpi scheletrici ammucchiati al gelo di uno spietato e macabro inverno, accanto ad una montagna di denti e occhiali, e un fetore che cresce e non si vuole fermare. Il sogno si sposta e mastica e ingoia quella pagina crudelmente inopportuna.
Ed io mi ritrovo a navigare nell’orrore.
Prigioniero per sempre di un sogno che non mi appartiene, respiro quel fumo e quel tempo e come loro rimango imprigionato nel lurido e nell’ingiusto.