sabato 18 ottobre 2008

Suggestioni collettive


Una madre, una giovane madre caracolla giù dal balcone con i suoi due figli stretti fra le braccia, uno schianto unico e tre storie mozzate.
Nessuno conosce i motivi di quel volo a capofitto, anche perché trattasi di madre esemplare e amorevole e sana di mente. Ma un tale di nome Giacomo, qualche ora prima della disgrazia, ha suonato alla porta della madre moritura, l’hanno visto andare via due minuti dopo il volo, soddisfatto e in vena di cantare.
E chi ha salvato e dissuaso quel ragazzo sul ponte Garibaldi, quello che voleva assolutamente farsi un tragico bagno nell’acqua fetida e avvelenata del fiume. S’era fissato che voleva raggiungere le anguille. Chi gli ha offerto un appiglio e una birra e lo ha distratto con proposte oscene? Alcuni testimoni, tre barboni, due viandanti e due piccioni, affermano che è stato qualcuno che corrisponde alla descrizione di tale di nome Giacomo. Un eroe, con spudorato coraggio.
Sfoglio il giornale e leggo di due uomini armati. Disinvolti ed eleganti, entrano verso mezzogiorno nell’ufficio delle poste e telegrafi di piazza Sant’Anastasia, la rapina non si svolge in modo incruento come previsto, l’unico colpo di pistola, sparato dall’agitazione e dall’inesperienza, trapassa il cervello di una vecchietta venuta a ritirare la sua pensione. Materia grigia sul pavimento delle poste e telegrafi.
L’identità e l’aspetto di uno dei due rapinatori, lo sparatore, la carogna, corrisponde esattamente a quello del solito Giacomo onnipresente.
Ma c’è un tale, dallo sguardo dolce e malinconico che tutti i pomeriggi alle tre, si siede sulla stessa panchina di Villa Borghese e sta lì fermo e quieto ad osservare il gioco dei bambini e il chiacchierio delle loro mamme e governanti.
Si mostra divertito, appare inoffensivo, comunque dall’aria intelligente, ha tutti i suoi capelli per nulla tinti e indossa un maglione a vu, assolutamente signorile, legge il giornale, guarda, sorride, ammicca, pensa, si gratta, sospira, attende il tempo che ci vuole Poi si alza e se ne va con un’aria notevolmente più sollevata. Tutto questo dura da sei anni.
Una delle madri allarmata lo ha riconosciuto, si tratta del suddetto Giacomo, sempre lui e sempre lo stesso che poi scompare come per incanto. Sarà pericoloso! sarà uno sbaglio! Sarà magica suggestione !.
Probabilmente anzi sicuramente è lui il l’assassino del rapido delle sedici e trenta, colui che a quell’ora esatta, sale sui rapidi, segue le donne nel bagno e poi le scanna per pura noia esistenziale. Qualcuno l’ha visto uscire dal gabinetto del treno, veramente pentito, con il morale a terra. Sotto braccio stringeva un involto, la testa mozzata di una povera disgraziata, che poi ha abbandonato sul marciapiede della stazione, davanti al giornalaio. Quando ha comprato il giornale, il giornalaio ha visto le sue mani, quella sinistra aggraziata, forse di donna, quella di destra, di legno, segnata, brutale, un’arma, e poi un odore…un odore che non si può raccontare.
Ma è anche vero che a quell’ora è stato visto prestare servizio come volontario in un centro di accoglienza per senzatetto, certo che si trattava di lui, volenteroso, ben disposto e generoso quanto serve e si deve. L’amico dei barboni lo chiamano, l’angelo custode dei disperati.. Trova ovunque e distribuisce coperte, vestiti, parole gentili e carezze, non un lampo di cattiveria negli occhi a volte neri, a volte verdi ed anche rossi.
E poi, sempre lo stesso Giacomo ha difeso, ch’era notte fonda, una prostituta dalla violenza brutale del suo aguzzino. Sembra però che lei gli abbia visto una coda, o l’ombra di quella che poteva sembrare, lunga, come quelle di un rettile oppure di un topo. Ma insomma, allora non è un assassino? Dipende. Alla stessa ora, ma in un’altra città, lontana migliaia di chilometro con montagne, fiumi e mari di mezzo dei testimoni affermano di averlo visto affondare il coltello nel fianco un ignaro passante, poi perplessi l’hanno sentito esclamare che s’era sbagliato, voleva solamente abbracciarlo. Il suo prossimo, un fratello suo, come tanti nel mondo.Non c’era mica motivo di ucciderlo.
Altri affermano, sono pronti a giurarlo che Giacomo sia un’anima candida e poetica, all’angolo di una strada del centro lo hanno visto e ascoltato suonare il suo sax e declamare bellissimi versi. Come può, lo stesso uomo urlare il suo disappunto contro la guerra in una città di oltreoceano e nello stesso momento sputare contro un pacifista incatenato? Come può uccidere ed amare con tanto trasporto la gente? Va predicando nei parchi pubblici la giustizia sociale e poi, in macchina, ubriaco, investire un ragazzo che esce da scuola. E’ scappato, non ha pagato per quello che ha fatto. Giacomo riesce a non pagare mai.
Giacomo si è messo a fare politica, ha scelto i due partiti diametralmente opposti, due ideali irrimediabilmente lontani. I suoi ragionamenti si uccidono l’uno con l’altro. Giacomo predica e bestemmia, è detentore di un sorriso bellissimo e di un ghigno satanico, contemporanei e sovrapposti. Esiste davvero, non esiste affatto, è prigioniero ed ostaggio di se stesso, i suoi muscoli sono costretti a lottare l’uno contro l’altro. Lingua, zigomi, corde vocali, pensieri e sogni li immagino sconquassati da continue tempeste, da un crudele tiro alla fune.
Quale coscienza può avere un simile essere? Oppure Giacomo non esiste, è solamente il risultato agghiacciante di una suggestione collettiva.

mercoledì 15 ottobre 2008

Il pomodoro


Oggi è iniziato l’autunno. Oggi dovrebbero arrivare nuovi pensieri, ricordi migliori, la schiena più dritta e proponimenti più dinamici e vitali. Un’eredità, un nuovo lavoro, un portafoglio abbandonato e gonfio? Lo dico assonnato davanti a me stesso, lo dico alla mia stessa voce, lo infilo dentro all’alito fetido di una mattina presto. Lo affermo davanti alla fiamma del fornello della cucina che si sta per esaurire. Lo dico con la speranza che questa iniezione di intenti e speranze mi permettano e mi servano da stimolo per andare finalmente al bagno senza le solite sofferenze esistenziali. E poi basta con i soliti fessi pensieri.
Ma L’inutilità del ferro da stiro è sempre al suo solito inquietante posto, le gocce di pioggia, l’attaccapanni e il pettine blu, il candelabro grande, l’odore di muffa, quel biscotto dimenticato, due paia di calzettoni bucati assolutamente, la solita giacca immettibile e lisa, troppo corta e fuori moda, il rasoio e l’asciugamano che m’ha regalato mia madre, la sedia a dondolo aggiustata troppe volte e molto demoralizzata. Quello che resta di un ombrello. Il cane, il mio vecchio cane senza un nome e senza un perché, nervoso ed inutilmente esigente, lo specchio di me. L’albero ghigliottina davanti alla finestra, la finestra e il lago bugiardamente azzurro, depresso per partito preso. La polvere e il ventilatore che non ha mai funzionato, il ventilatore e la polvere. La bicicletta messa lì dove non deve stare se la ride delle mie buone intenzioni, la scatola e il quadro sono chiusi e fermi dentro se stessi, il nascondiglio e la scopa resistono nella stessa malata e ostinata posizione di sempre. Nel sempre la porta di casa continua ad essere sconnessa, quella del bagno sono dieci anni che non c’è più, ma sono ancora visibili i segni della sua vita interrotta sul pavimento. La finestra per dispetto non si è mai voluta chiudere, il latte stagna sul fondo della bottiglia, e quella magra felicità scaduta e non recuperabile si ostina a dormire. La stufa tace e non vuole.
Eppure al centro della testa passa la macchina di mio padre con l’autista, le mie scarpe lucide e nere e i pantaloni all’inglese con i bottoni di fianco, le estati interminabili nella villa al mare, la cameriera in divisa e la governante, i regali di Natale, l’applauso dei compleanni, la vasca dei pesci rossi in salotto, il sorriso austero della mia signora madre. Immagini che si fermano e che pulsano forte, che la mia testa si diverte ad inventare solamente per rendermi il più spiacevole possibile il soggiorno in questa dichiarata topaia.
Tutto mi osserva immobile e delle mie buone intenzioni non ne vuole sapere. Appesi al soffitto ad imitare i pipistrelli, dondolano la dimestichezza perduta e quel rancore specifico ingiustificato e sconnesso, quello che è ancora prigioniero nella bocca dello stomaco. I resti dell’ambizione ammuffiscono e sporcano le pareti. L’occhio destro rimbalza addosso all’illustre e ridicola presenza del vaso da fiori più piccolo, quello che inaugurava il pomeriggio del mio primo contratto da scrittore. L’occhio destro della noncuranza, l’amore bagnato e la disillusione. L’inadeguatezza. Tanti i progetti con la luce di mezzogiorno, dentro un bicchiere e dentro un altro ancora, derisi e ammazzati col sopraggiungere dell’inquinato imbrunire e dall’aggressività della luce elettrica. Uno dopo l’altro i poveri resti delle mie idee geniali per sbarcare il lunario e strabordare nella notorietà, finiti nel cesso e scaricati, oppure vomitati sul marciapiede in un giorno di pioggia, o scomparsi dentro una vagina della quale non riesco a ricordarne il nome.
La pasta scotta e l’insalata rimangono un patetico tentativo sconfitto. Quella macchia di vino che non se ne va, che ha ferito a morte la mia più bella camicia bianca. Quella macchia sta lì per svilirmi, per dirmi che di ottimismo adesso è inutile parlare, che non ci sono le basi e i presupposti.
E allora apro l’armadio e conto a casaccio e da capo la stoffa di un tempo passato, una stoffa indurita come carta vetrata, che non vuole saperne dell’acqua. I conti non tornano, solo sagome che non riesco ne a datare ne a riconoscere.
Allora è questo il momento di ricordare il sogno delle pillole rosse, quel sogno capace di fermarmi il cuore ed ogni avanzo di pudore. Una brusca frenata ed definitivo tracollo per scrollarmi le spalle e ricominciare da capo. Da quale capo? Ma le pillole rosse non hanno altri effetti che il riportarmi furbescamente a tutti gli aperitivi che mi tracanno facendo versacci osceni al futuro.
E il futuro, e del futuro mi accorgo e lo vedo comparire sulla tovaglia di plastica usurata della mia cucina sempre depressa. Eccolo, un piatto dipinto a mano e scheggiato con un pomodoro appoggiato sopra. Un solo pomodoro, nemmeno tanto maturo, aggredito dalla luce della finestra, Un’opera d’arte casuale, la materializzazione di una voce che giù al portone, sempre verso le otto del mattino, racconta all’edificio della gravissima crisi economica che ci sta impoverendo. Fratello, se hai fame ecco qua, ingoiato il pomodoro, per oggi, e forse anche per domani hai chiuso. No, il pomodoro no, il pomodoro è il mio futuro, deve restare sul tavolo, così posso guardarlo e chiamare la fortuna, qualcos’altro da scrivere, una lotteria da vincere, un incontro di quelli risolutivi. Certo che ho fame, certo, ma questo sbaglio non lo devo fare. Anzi mi siedo che un rimasuglio di alcool m’è rimasto e ci parlo, e convinco il pomodoro a portarmi bene.
Tracanno quel che c’è da tracannare, ingoio quanta più aria posso e mi concentro su quale tipo di fortuna posso sperare da questo pomodoro. Il mio cane sta lì che mi guarda come si guarda un fesso. Allora gli faccio vedere il pomodoro e provo a spiegargli del futuro sulla nostra tavola. Gli spiego e tracanno fino all’ultimo goccio. Prendo carta e penna e le avvicino all’ortaggio, in modo che l’intera notte si possano consultare su quello che avverrà, sul mio nuovo romanzo, sul nero su bianco che finalmente mi renderà famoso. Superstizione? Nella mia condizione rimane l’unico atteggiamento indispensabile. Saluto il mio cane dalla faccia delusa perché anche questa notte non ha niente da mangiare e dovrà urinare sul pavimento, e vado a dormire.
E’ mattina e mi trascino in cucina, il pomodoro è scomparso e il piatto sbeccato giace assassinato e in mille pezzi sul pavimento. La finestra è aperta e il mio cane, ladro e traditore per necessità, col pomodoro nella pancia, s’è involato di sotto ad incontrare il suo futuro.