sabato 13 dicembre 2008

La tua strada


Il giorno dopo leggo la tua storia sul giornale.
Hai la faccia nera come la pece. Sei arrivato dal paese dei serpenti e gli scorpioni, dove un vento caldo si alza all’improvviso e ti riempie la faccia di sabbia. C’è poca acqua e le mosche infieriscono sugli occhi dei bambini, i bambini che hanno gli occhi troppo grandi per le loro facce. Lì, fra la polvere e l’arsura, animali ed uomini condividono lo stesso destino e le stesse malattie, le pance sono gonfie come otri in corpi troppo magri e rassegnati a vivere sotto tetti di fango. Ma i sacrifici di tua madre e una debole speranza nascosta sotto un vecchio tegame e un foglio di giornale dimenticato da un missionario di passaggio, ti ha messo in cammino verso il mare. E la tua volontà è aumentata ad ogni passo verso un sogno comparso come un fasullo miraggio dall’occidente, lì dove uomini e metalli luccicano, indossano bei vestiti, studiano sorridono e leggono, guidano e comprano, guardano la televisione, lavorano.
Al tuo villaggio tutti ti hanno regalato qualcosa perché tu possa camminare fino alla costa e riuscire a imbarcarti ed arrivare vivo dove la vita è un’altra cosa, lì dove una leggenda può prendere forma. Sulla costa, sulla riva del mare ci sono ad attenderti i tuoi fratelli disperati che guardano terrorizzati le onde come l’inizio di un viaggio impossibile. Tu non sai nuotare tu chiudi gli occhi e t’infili fra centinaia di gambe. Le gole che non mangiano da giorni, la braccia e le mani che si aggrappano le une alle altre per avere una speranza in più, perché la vita migliore dev’essere dove comincia l’altra parte del mondo.
Ma il mare non vuole, picchia più forte e la barca potrebbe affondare. Tu non sai nuotare e appena l’occidente si avvicina di più e si può finalmente vedere, i tuoi fratelli giacciono senza più forze incollati insieme, qualcuno è già passato dal sonno alla morte e la barca affonda. Ti aggrappi, chiami, preghi, rivedi dentro l’acqua i tuoi fratelli e la piccola capra nera, il tuo amico albero, il lungo bastone di tuo padre, quella canzone che cantavi per riempire i silenzi. Accanto a te qualcosa galleggia ancora. Qualcuno. Un braccio, una schiena, una scarpa. Tua madre ti guarda nell’acqua scura. Sfinito, stai per chiudere gli occhi.
Ma l’occidente arriva con un grande uccello meccanico e un rumore assodante. Ti ripescano, ti tirano su, ti mettono in fila e nemmeno si accorgono del tuo sorriso riconoscente per l’avvenuta resurrezione. Ti lavano e disinfettano, ti chiedono in una lingua che non riesci a decifrare. Ti spingono oltre un cancello e richiudono. Sei dunque arrivato in Paradiso.
Ma di quale Paradiso si tratta ? Qui non c’è traccia del ricco e generoso occidente raccontato sul tuo foglio di giornale. Questa è una prigione e le facce dei tuoi fratelli sono appiccicate alle sbarre sgomente. Corpi su corpi si respirano addosso ammucchiati e galleggianti sui loro personali rifiuti organici. Feci e urina addosso e accanto a te, animale scomodo, ingombrante ed orribile sputacchio scuro da sputare via.
Ma questa non può essere la tua storia, c’è uno sbaglio, sei finito all’inferno, sei prigioniero, sei niente di niente, il tuo nome non serve e non c’è nulla che tu possa dire. L’occidente ti ha salvato per farti reietto.
L’occidente ha schifo di te. Puoi mangiare e pisciare, puoi attendere, se ci riesci. Ma pensare è inutile e fa male perché sei schiavo, sei una merda qualunque. Fuggire dall’inferno è l’unica cosa ragionevole che ti resta da fare, ma non puoi ritornare a casa, nella tua casa di fango senza nulla riportare indietro, con addosso soltanto l’umiliante fagotto della sconfitta.
E dal fetore nasce una canzone che ti da ancora forza nelle caviglie. Una cantilena che ti parla di fuga, che ti dice che forse l’inferno va visitato tutto, fino a raggiungere il cancello, l’uscita, che forze la ferocia dispone ancora di un granello di commozione oppure di una qualche apertura distratta.
Mangia, bevi, e poi si vedrà, che all’improvviso hai saputo che ti portano altrove. In un’altrove dove le sbarre non sono poi così fitte e i tuoi salvatori hanno altro a cui pensare, guardano a nord, si grattano, pensano ai regali di Natale, soffrono di emorroidi, s’interrogano e non sanno rispondere, lucidano la macchina nuova e si ritrovano alle prese col l’assenza del dubbio, ch’è più grave, ch’è cancerosa.
Arrivi in una grande stanza dove le voci sono dei vivi, dove la vita ricomincia timidamente a pulsare all’altezza delle ginocchia. Ecco quello che ti rimane da fare, ecco che puoi tentare, ecco l’unico sogno che si rivela possibile. Fuggire. Fuggire per cercare il coraggio, il perché, ed il necessario per tornare a casa portando qualcosa, anche solo una briciola di nuova speranza.
Un regalo per quella baracca di fango dove sei cresciuto.
Così, un altro tuo fratello, più alto e più magro e con gli occhi di fuoco, ti prende per mano e ti invita a correre, ad occhi chiusi per non trovarti faccia a faccia con la paura.
Correte insieme attraverso le strade fradice di pioggia e i marciapiedi pieni di gente e negozi colorati, sfidate così l’aggressività del metallo senza cervello, dormite nel buio umido, sotto i cavalcavia, in compagnia dei vostri fratelli topi. Continuate a camminare attraverso. La città non si volta nemmeno a guardare, ti lascia passare invisibile e il tuo compagno di fuga si perde ad un incrocio.
Il semaforo diventa rosso, freno, mi fermo, attendo, ed è allora che ti vedo con un secchio di acqua e sapone che mi chiedi sorridendo il permesso di pulire il vetro della mia automobile.
Sorridi ma hai le mascelle serrate per la fame e per il freddo, il freddo al quale non ti riesci ad abituare. Ti volti a guardare in dietro perché sai bene che per quel semaforo non hai chiesto il permesso, perché ti possono rimettere le catene, perché è importante per te rimanere invisibile. Sorridi e mi dici che ti servono i soldi per ritornare nella tua terra di scorpioni e serpenti, da tuo padre e tua madre, dal tuo albero e dalla tua capra. Io frugo nelle tasche. Qualcuno ti insulta, e allora i tuoi denti senza controllo si spalancano come quelli del leone. Urli qualcosa anche tu. Non sei più invisibile e ti senti in pericolo.
Colpo su colpo crolli in un lago di sangue sul vetro che mi volevi pulire ed io assisto al tuo martirio ancora con la mano dentro la tasca in cerca di monete. Ti stanno uccidendo ed io rimango seduto impietrito e protetto dentro il mio io. La tua faccia spiaccicata e maciullata, scivola giù e crolla sull’asfalto, il semaforo diventa verde e tutto si allontana, compresi i tuoi assassini. Rimaniamo soli. Scendo dalla macchina e tremando dalla vergogna, una vergogna avvolta dal tanfo forte della vigliaccheria, prendo il secchio rimasto in terra e pulisco singhiozzando il tuo sangue dal vetro. Il semaforo è verde ed il traffico cittadino ci passa affianco e non intende fermarsi.
Addio fratello, perdonami.