martedì 24 gennaio 2012

Valery

Caro Antimo, credo che qualcosa per te stesso tu a questo punto la debba proprio fare, continui ad agitarti dentro di me e questo mi crea disagio, dolore e anche imbarazzo, le tue visioni non mi vogliono concedere tregua. Erano divertenti all’inizio, un gioco ogni tanto, un volare fuori del consentito, per staccarsi dalla realtà, per riposarsi la mente dalle fatiche della orribile concretezza, dalla noia di quel marciare, quell’ubbidire ebete alle ore, quel ritmo che ne io ne te abbiamo mai particolarmente apprezzato. Certe sere, certe notti, era dolce lasciarsi andare e farsi trasportare nel fantastico, nello ironicamente inventato da te, che in questo sei sempre stato un maestro. Tu m’incoraggiavi a spintoni ad aprire quella parte di me restia, e guardinga, non pronta a volare e paurosa delle emozioni che non si trovano nell’elenco. Ma poi hai finito per trascinarmi in un curioso universo per me troppo audace, non tenendo conto che stiamo vivendo l’uno dentro l’altro, e se tu ti metti a sparare fuochi d’artificio io non posso restarne fuori. Il tuo inconscio è incastrato nel mio, questo dovresti saperlo.
Hai cominciato per gioco e adesso hai perso il controllo, la tua realtà è stata invasa senza che  tu possa mettere un freno, hai perso il controllo della tua mente ed io rotolo con te, penetrato dal tuo delirio, ma, mentre tu probabilmente ti diverti, io accuso colpo su colpo, resto indietro, mi agito, accuso un disagio e un dolore sempre più fastidioso. Fermati ti dico, controllati, ricordati che solo non sei, perché i tuoi divertimenti possono diventare per me vere e proprie torture.
Ricordati, era poco prima dell’alba, qualche mese fa.
Ero ancora nel pieno del sonno, guadagnato come sempre a fatica perché la sera tu non stai mai fermo e hai sempre bisogno di parlare. All’improvviso, quando era quasi giorno sei uscito fuori dal mio torace, hai aperto un varco ed hai tirato fuori la testa, spalancando gli occhi. Un sogno, che cos’era? Una delle tue solite visioni?.
Sei uscito completamente fuori da me provocandomi come al tuo solito un risveglio doloroso e violento. Volevi parlare, come al solito volevi svegliarmi.
    _    Annaffiava i fiori qui sotto, mi ha visto passare, mi ha salutato, ha i capelli rossi e gli occhi luminosi, le ho chiesto il suo nome, mi ha sorriso rientrando in casa, è bella, dietro la sua porta a vetri mi ha guardato ancora. Contemporaneamente, nel medesimo istante, è apparsa anche alla sua finestra, al secondo piano. Le mie gambe non potevano muoversi, lei muoveva le labbra da la su ed io le sentivo sfiorare le mie _
Ecco, ero sveglio, ci eri riuscito, un altro delirio?
    _    Contemporaneamente ? Antimo, come sarebbe a dire ?_
    _    Non lo so, ma così è, l’ho vista contemporaneamente in due punti diversi della casa, ma poco m’importa _
I soliti sogni di Antimo, si divertiva a svegliarmi così.
Comunque il sonno è stato interrotto e non intendeva tornare, anche se dolorante ogni volta che Antimo si sfilava da me così all’improvviso, tanto valeva alzarsi e preparare il caffè, anche per lui ch’era già in cucina e guardava fisso verso la finestra. Mentre il caffè saliva e io mi adoperavo davanti ai fornelli, lo sentivo parlare sotto voce.
    _    Va bene scendo, adesso arrivo _
    _    Ma dove, il caffè è quasi pronto, Antimo dove vuoi andare?_
    _    E’ lei, alla finestra, ha un collo lunghissimo e meraviglioso, mi ha detto di scendere a vedere l’alba davanti al lago _
Allora perdevo la pazienza, mi giravo a guardare, fuori alla finestra non c’era nessuno, d’altronde non era possibile, raggiungere addirittura il terzo piano, un collo lungo così non era immaginabile.
Solita storia !.
Antimo, usciva e andava. Mi affacciavo allora e lo vedevo attraversare la strada da solo verso il lago.
Non ci stava con la testa un’altra volta ancora, anche stavolta si voleva innamorare del nulla, un’altra donna fantasma fra me e lui,ma anche io cominciavo a pensarla pur sapendo che quasi sicuramente si trattava di un gioco.
Valery, come sarà? Un collo così lungo? Ma come era possibile? Sentivo anche io, se chiudevo gli occhi, le sue labbra col sapore di buono, umide, giovani. Ma chi era? Se abitava qui vicino come mai non l’avevo mai vista? Ma no, stavo cadendo ancora nella trappola dell’immaginazione di Antimo. Valery un nome inventato. Sentivo le sue dita però, che mi toccavano una spalla e si allungavano, si ramificavano, scorrevano, frugavano.
La porta si apriva, Antimo era di nuovo in casa, quanto tempo era passato non posso dirlo con sicurezza, forse addirittura già sera. Si sedeva in cucina e voleva raccontarmi.
    _    Mi ha portato a vedere l’alba, mi ha preso per mano e mi ha convinto ad entrare nell’acqua con lei, siamo andati avanti e avanti, verso l’acqua profonda, ero sorretto da lei, fino verso il centro del lago, ho intravisto due splendide gambe lunghissime color madreperla camminare sul fondo, sembra incredibile ma è proprio come dico. Abbiamo parlato di tante cose, del suo bellissimo lavoro. E’ una scultrice, scolpisce il suo mondo immaginario, si mischia al suo mondo e lo modifica, lo modella, riesce a trasformare se stessa , a entrare nella vita intorno  per capire i segreti e ricopiarli. Siamo tornati a riva, mi ha sollevato dall’acqua e posato sotto un albero, ho visto le sue braccia mischiarsi al legno dei suoi rami, i suoi rami che poi mi hanno stretto, abbracciato _
Non potevo farlo continuare, non potevo, altrimenti, anche questa volta il suo delirio sarebbe diventato il mio, già mi sentivo il lungo e magico corpo di Valery addosso, forse ero già innamorato e vittima di un incantesimo. Mi ribellavo, il giorno se n’era andato, mi rifugiavo nel letto.
Dalla mia camera lo sentivo ancora parlottare in cucina, in pieno delirio, ma non riuscivo a capire quello che stava dicendo, ancora con lei. Lo lascio fare, anche questa volta gli sarebbe passata e sarebbe tornato il mio Antimo di sempre. A notte fonda entrava in camera e nel letto e mi diceva.
    _    L’ho portata con me, devo, lo voglio, a questo amore non posso rinunciare _
Mi rientrava dentro e si apprestava a dormire, senza aggiungere altro. Con lui, senza che io potevo in alcun modo  oppormi, Valery si prendeva uno spazio suo dentro, fra il fegato e il mio rene sinistro. Adesso sentivo muovere ambedue, si toccavano, si accarezzavano, si baciavano, si accoppiavano, tutto dentro di me, senza esitazioni. Le lunghe dita di lei salivano fino alla gola, stringevano e tutto si annebbiava.
Amtimo sussurrava, quasi dispiaciuto.
    _    Perdonami, ma è arrivato il momento di separarmi da te, tu non accetti i miei sogni _

venerdì 13 gennaio 2012

Pape Satan

Finalmente sono riuscito a cancellarla dalla mia rubrica e dalla mia memoria, l’ho spolverata via dalla mia pelle in modo definitivo
    _    Cosa è successo ? Aspetta prima di rispondere, chiudi gli occhi, respira profondo, riapri gli occhi, parla ora _
Ci provo, mi viene da  vomitare, forse mi arrabbio, non so se riesco a ricostruire per intero. Si tratta dell’origine dei miei problemi di testa, è stata una storia importante, troppo, e insieme un’assurdità, direi una cattiveria, roba da manicomio. Una roba capace di rovinarmi per tutta la vita, condizionarmi, rendermi fragile, facile vittima delle tempeste psicosomatiche, scatenarmi tic nervosi, fobie, silenzi, bugie, alcolismo e tossico dipendenze. Non sto esagerando, ho paura perfino di raccontare, perché così sarò ancora in mutande, pronto e in posizione favorevole per essere preso a schiaffi ancora. Lo devo fare? Lo faccio.
L’ho incontrata in una strada dritta, lunga, assolata, nell’isola più bella del mondo, dove tutto è perfetto, dove la bellezza è la sola parola d’ordine, però dove l’inganno e l’apparenza è una caratteristica sconcertante e sempre in agguato. Cielo meraviglioso, cosce meravigliose, scogli e labbra da sogno, orologi e collane, la straordinaria perfezione dei sederi. E poi quella strada dritta inondata di caldo e lei, maglietta e pantaloni neri, occhi e capelli neri. Un buco, un virus nell’estate torrida, un punto esclamativo armato di tutto punto, sorridente, affilato, irresistibile, giovane e con il corpo scolpito e levigato per farsi vedere e toccare. Ecco il mio miraggio, ecco l’occasione per infilarmi dentro la giovinezza sul serio, l’occasione per scuotermi e svegliarmi dalla mia apatia malattia.
Si perché vivevo nella gelatina, avevo le acne e gli occhiali mi scivolavano sul naso reso viscido dal sudore. Le donne non sapevo come toccarle, a loro non sapevo cosa dire, e nude mi facevano venire la tremarella. Ed ecco la Giunone sorridente apparire dal caldo.
    _    La maglietta ha lo stesso colore dei tuoi capelli _
Più stupidaggine di così non gliela potevo dire, ma le sue mani affilate già mi sfioravano le spalle. Chi era, come mai era apparsa? Una nave scuola, una specie di angelo, un regalo per me che ero in ritardo su tutto, che non sapevo e non mi accorgevo, che barcollavo nella nebbia sessuale e esistenziale soprattutto. La sua pelle era liscia e profumata, le slabbra promettevano l’estasi, a me che l’estasi l’avevo sperimentata solamente nella solitudine chiusa a chiave del mio bagno. La sua peluria nera come la pece, con riflessi addirittura blu, mi avrebbero guidato e preso per mano nelle strade del mondo, mi avrebbero finalmente insegnato il come si fa e il come si dice. Finalmente in piedi e a schiena dritta, dopo che lei, con un sorriso non esageratamente palese, mi montava sopra e m’insegnava, m’inondava di speranza, m’inoculava autostima…si ma insieme a lei e basta. Bastava un pomeriggio da solo a fare ingrippare il meccanismo, ad anestetizzare tutte quante le mie risorte aspettative. E allora senza mutande il prima possibile, ovunque era possibile, per trovare la forza addirittura di finire gli studi, per prendere la patente, per cercare un altro efficace rimedio contro le acne, per un discorso intelligente, per un alto pensiero. Mentre si agitava su di me e mi guardava fisso, la vita mi riscorreva dentro, potevo ancora sognare un programma, immaginarne le varianti, il successo, gli applausi, la comprensione e la stima della mia famiglia tutta, a cominciare dalla governante. Per farmi venire, qualcosa mi diceva, il mio inconscio se lo ricorda ancora.
Pape Satan, mi andava dicendo. Un fiume tiepido sentivo scorrere da lei a me. Non era mica finita li, ancora nuda si metteva a suonare la chitarra, cantava canzoni di vittoria e di conquista dei miei sensi dipendenti e assuefatti a quella magica altalena. Voleva che cantassi insieme a lei, lei la conquista ed io la resa.
    _    Descrivimi meglio com’era, una sua fotografia, un attimo imprigionato nel tuo cervello, una resa. _
Tre fotografie, le solite, ingiallite e logorate, ma eterne, le uniche tre. Lei appare vestita con una gonna blu, con una giacca leggera e bianca e dei sandali bianchi anche loro, i capelli in balia del vento che le coprono in parte il viso e dietro di lei l’acqua, calma rassicurante e minacciosa nella stessa misura, che mi vorrebbe avvertire di un qualche spaventoso epilogo, se io solo fossi in grado di interpretare, ma i fili di burattino nelle tre fotografie non appaiono. La sua splendida voracità capace di muovere e far danzare tutto dentro di me, dalla milza alle caviglie, si nasconde e si confonde, nel panorama che mi ha suggerito di costruire. Una bella mattina senz’altro. Pape Satan mi mormorava mentre la fotografavo, e il vento l’aiutava.
    _ E quella sera?_
Dovevamo andare al cinema, una sera di fine estate, ed un inspiegabile rifiuto mi usciva incontrollato e ribelle dalla bocca, ma non tanto convinto e per nulla imperativo, un rifiuto debole, nemmeno il risultato di un pensiero preciso, facile da sconfiggere. Eravamo in macchina, fermi, sottocasa di mia madre. Al buio illuminato da un unico e fastidioso e ammalato lampione, la sua voce cambiava e così il suo aspetto, mi accorgevo per la prima volta di una orribile gobba che le deformava il naso,  gli zigomi spigolosi, appuntiti, le mascelle serrate, un altro colore della pelle, una voce profonda, spezzata, che non prevede repliche. Mi lasciava, si staccava da me, le dava fastidio il mio alito pesante, mi respingeva, le mie lacrime la facevano tremare di rabbia. E una dopo l’altra le mie incapacità mi ritornavano addosso, mi rientravano dentro probabilmente dalle narici, improvvisamente mi ritrovavo a respirare impotenza, ricordavo tutto quello che, sotto di lei, avevo dimenticato. L’inadeguatezza, i miei pensieri fatti di nulla, le gambe e le braccia inutili, le mani disperse e confuse sull’asfalto della strada, il cuore che batteva a casaccio. Il tentato suicidio di mio padre, in macchina, in una notte identica a quella che stavo vivendo, e le mie bugie endemiche, e la rabbia nei confronti di un mondo che non voleva aspettarmi.
    _    Va bene, andiamo al cinema allora _
Del tutto inutile, una punizione, una sentenza irreversibile, una enorme montagna di fango già tutta addosso a me che pietosamente chiedevo, invocavo un perdono di qualcosa che non avevo ne capito e ne commesso, che non sapevo nemmeno cos’era. Lei, il boia accanto a me, voleva essere riaccompagnata a casa e scomparire per sempre. Cosi, all’improvviso, mi aveva reciso una vena, fermato il respiro con una mano premuta contro il collo per impedire di avvicinarmi, le sue ossa pesanti e potenti come la pietra, le sue dita artigli. E verso casa sua ho spinto l’acceleratore verso lo stesso muro, quel muro contro il quale voleva morire mio padre. Pape Satan avevo nella testa Pape Satan. Il volante non voleva girare.
Mio padre non voleva, il volante girava all’ultimo momento e lei, con i capelli ispidi e duri e con la faccia invasa da solchi profondi, scompariva dietro un cancello sotto un diluvio di pioggia acida. Poi il silenzio, un muro di gomma a soffocare ogni possibilità di riparlare e ripensare. Giorni interminabili e inutili, giorni pieni solamente di buio.
    _   E le hai scritto la lettera che ti avevo consigliato. L’hai rivista poi? _
Mi ha concesso solamente di farsi guardare mentre, in fretta, saliva su un autobus, il trenta sbarrato,  poi lei e il suo ricordo si sono nascosti, cicatrizzati, irriconoscibili, causandomi un piccolo ma continuo dolore ad ogni respiro. E il trenta sbarrato, che si fermava cigolando, vomitava e risucchiava e ripartiva cigolando, è diventato il mio incubo ricorrente nel sonno e nella veglia, da ubriaco e da sobrio. Per un paio di anni sono andato ad aspettarla davanti a quella fermata, ho spiato fra la folla, sono addirittura salito sull’autobus con la speranza e la paura d’incontrarla, mi sono fatto strada fra mille ascelle sudate, ho spintonato pance e sederi, ho annusato e perfino chiesto. Niente, ingoiata dalla città, niente persino al suo antico indirizzo. E allora perché non farla riapparire dentro una bottiglia di vino oppure in un’avida boccata di fumo giallastro e mortifero ?  Nella masturbazione però era troppo rischioso. Ma è successo che, pochi giorni dopo, forse subito dopo essermi allontanato dalla fermata dell’autobus, è scesa la nebbia dentro di me, scomparsi o molto confusi molti particolari di lei, collegati a lei e intorno a lei, praticamente tutto. Quindi quello che ero non lo ricordo più, me lo sono dovuto far raccontare, fidandomi di verità esterne, non della mia pancia o delle mie dita. Ed un vuoto bianco fin troppo luminoso mi è apparso nei miei sogni notturni, e un continuo rumore di traffico, di freni consumati, di accelerate improvvise, di sirene. La mattina era diventata lenta, inconsistente, inutile a viversi, il risveglio colloso ed amaro, l’inutilità del lavarsi, il fastidio del vestirsi, la paura di uscire, il rifiutarsi di ricordare. Bottiglie di vetro, talmente tante da riempire una biblioteca, ormai vuote, invitanti e minacciose, la mia medicina, il mio stordimento. Il mio respiro ed il sangue, il fegato ed il cuore, la pancia e le gambe, il mento e quello che rimaneva di pochi e deboli pensieri incollati e appiccicosi, in un nulla di fatto. Le ore, l’orologio, i desideri, i cambiamenti di stagione, in un nulla di fatto. Le ginocchia vuote, le mani rimaste aperte, sgomente, il plesso solare inutile, così come la gola, in un nulla di fatto.
    _    Tutto consequenziale, previsto, inevitabile, nessuna sorpresa! _
La fa semplice lui. E che ne dice delle fughe verso il torbido, la ricerca compiaciuta dell’illecito, il maledetto gioco della bugia più grossa ? Come fare per punire lei, il mio amore più grande? Punendo me stesso, torturando sadicamente la mia anima, giorno dopo giorno, pisciando sadicamente sull’autostima, facendo del mio corpo una ideale cloaca massima. Pape Satan, le due parole rimaste scolpite.
Niente più sesso, solo isteriche masturbazioni pensando a corpi vuoti, senza faccia, avidi di me per il loro personale piacere, non per il mio. Che stupido, lei era scomparsa nel nulla e nulla dello scempio di me avrebbe saputo.
    _    autodistruzione, autolesionismo, con ossessione e teatralità. Voglia di morire ? _
Attacchi di ansia, svenimenti finti e veri, tremori autentici, rabbia autentica, bruciante, autentici deliri, fino all’ago e il caldo nella gola, fino a quello. Il risveglio disteso sotto la luce accecante di una sala operatoria.
    _   Salve, puoi parlare ? dimmi come ti chiami. Ben tornato fra noi _
Voleva dire resuscitato, risucchiato in dietro da un tunnel scuro e invaso da melassa grigia e appiccicosa, una schifezza il viaggio verso la morte, una fucilata, sparato con una molla il viaggio di ritorno improvviso. Rieccomi a casa a recitare la gratitudine e alle prese con l’immensa stanchezza per niente attenuata dalla resurrezione. Un nuovo programma adesso, ma quale? La normalità ? Soltanto quella del gabinetto. La Resurrezione ha dei costi spaventosi…ma lei, lei non c’è, non è prevista, è addirittura dimenticata, e questa si ch’è una notizia, peccato però che, al risveglio si è portata via, insieme al disagio e al dolore, anche una grande porzione di ricordi. Devo dunque rivivere con un buco nero, e sia!
   _   Comunque una ripartenza ! _
Una ripartenza sul niente, fasulla, col nero dietro, e quindi tutto dovevo inventare, parole ma non fatti, parole disattente a pugni fra di loro, parole deboli e a la merce di qualsiasi attento ascoltatore, un passato inventato da sputtanare in un solo attimo. Un inferno simile a prima, ma finalmente di lei, di quella lei, c’era rimasto solamente il nome, un nome come tanti altri, senza riferimenti, nessuna faccia, nessun odore, nessun indirizzo ne numero di telefono, nessun corpo, nessun dolore.
Però mi rimane una casa con il pavimento celeste, ho ancora due finestre sul fiume, ho un castello e una basilica che vedo di fronte, ho, se voglio la musica…chi più di me, mi dico e me lo devo dire parecchie volte al giorno, rinforzando la domanda con le diverse marche di alcolici di diverso colore da sempre inseparabili, così mi accingo ad andare avanti dentro e attraverso gli anni. E il resto del mondo lo posso osservare sullo schermo di un computer, un bell’aiuto dentro il suo schermo, così indisturbato posso insistere nei sogni non miei, solamente qualche volta disturbato dal suono delle sirene delle autoambulanze che i vetri delle mie belle finestre non riescono ad isolare. Dentro il tempo così.
    _ Ma?_
Ma un mercoledì sera, immediatamente dopo la cena, appena mi metto davanti alla mia finestra sul mondo, con una sigaretta innestata dentro i polmoni, lo schermo del computer mi blocca digestione e respiro. E’ lei, la sua faccia, è proprio un’altra volta lei e sue sono le parole scritte che mi compaiono davanti. Mi commuovo, tutto ritorna chiaro, tutto quello che non riguarda lei non è successo. Pape satan, la sua mano oltrepassa lo schermo, mi ha trovato e mi chiede scusa, poi un bacio, un bacio che ha il sapore dei nostri diciotto anni. Non le chiedo niente, non riesco, so solo che la pancia mi trema. Anche se fosse un incubo non posso non viverlo. Gli occhi sono gli stessi, sorridono di meno ma sono loro, la pelle, quella bella sua pelle, non usa più l’abituale profumo, ma uno nuovo, forse un pò acre, ma poco importa. Si scusa, si scusa ancora, perfino piange e ricorda, riempie la mia voragine nera, attacca dei pezzi e li incastra.
    _   Fantastico ma anche pericoloso _
Possiamo ricominciare, mi ha detto, possiamo essere felici, mi ha detto, ci possiamo divertire, mi ha detto. Ed ha ricominciato a divorare la mia pancia, lo ha fatto in modo famelico, ingordo, sembrava volesse arrivare a succhiarmi il sangue. Io? Dalla tenerezza, alla felicità, al dolore. Un suo taccuino nero dimenticato sul comodino sorvegliava la scorpacciata sognata, desiderata e poi dimenticata attraverso gli anni.  
 _ Un taccuino nero?_
Era sul comodino e mi suggeriva di aprire nel mezzo, approfittando del rumore della doccia. Nomi, numeri di telefono e orari di appuntamento, in casa e in albergo, un da fare incessante, mimetizzato a fatica.  “Alle 17 dal parrucchiere”, invece no “Alle 17 appuntamento all’Hotel Esperia con quel tale imprenditore “Ricco”, “Goloso di me, oltre il consentito”. Quel taccuino come una cacciavitata nella pancia.
Uscita dalla doccia a visto il taccuino aperto e bagnato da tutte le mie lacrime. E’ uscita di casa per sempre guardandomi per l’ultima volta con gli occhi di un demonio deluso e furibondo.

La casa sul fiume

Questa città non è mai sembrata interessata a me, si è sempre dimenticata di avermi. La mia casa sul fiume è antica quasi quanto la storia sua, è stanca, sembra piegata su se stessa, è sorretta da altri due palazzi che le impediscono di esalare l’ultimo respiro. La mia casa che guarda il fiume è sorella e amica dell’acqua che le scorre di sotto, verde o troppo marrone, dispettosa e invadente, infetta e inospitale, avvezza alle irruenze. Mi avverte di stare alla larga. Si aggrappa forte al tetto di un antico tempio le cui colonne ho intravisto alte da un casuale buco della cantina madida di acre umidità, il sudore degli anni, delle anime invisibili che, annoiate, e meditabonde, ogni tanto vagano su e giù per le scale. La mia casa è stata anche il necessario bordello per i pellegrini in visita al tempio della cristianità, la cupola che svetta al mio fianco sinistro quando mi sporgo dalla finestra, l’osceno necessario alla preghiera di tutti i giorni. Ci provo sempre a parlare con le presenze di quelle signore che vendevano ai pellegrini il loro corpo appesantito.
Di fronte a me, oltre l’acqua che scorre nel mezzo ed il rumore  della civiltà invadente e tossica, è in piedi, a gambe divaricate Castel Sant’Angelo maestoso e cupo con le sue mura che odorano di giustizie sommarie e torture le cui grida si possono udire ancora, imprigionate nelle grate delle finestre, in certe albe domenicali. Urla amiche soltanto del nervosismo dei giovani gabbiani. Alla mia destra anche le mura dimenticate del carcere vecchio, diviso in braccia piegate e deformate dall’artrosi, da un ossessivo ripetersi, da un canto criminale mischiato all’escremento dei piccioni, a beffarde leggende che si allargano e restringono a fisarmonica attraverso via della Lungara, la sua strada di accesso.
Ora sono tornato e guardo le facce di anni prima, quelle che sono rimaste, che più di ogni altre possiedono e sono parte di questa piazza in bilico sul fiume. C’è ancora Luigi, un ladro ormai professionista, una volta era secco allampanato, alto e curvo su se stesso, come me. Non glie ne andava una giusta, si faceva arrestare con una facilità esagerata. Imbrogliava e derubava tutti, gli amici e i suoi stessi parenti. A me rubò una bicicletta. La sua seconda casa era il carcere Regina Coeli. Ma Luigi era capace anche di scusarsi, di abbracciarmi come si fa con un fratello, di dirmi che la bicicletta l’indomani me l’avrebbe restituita. A fianco a me abita ancora quella che era una ragazza bionda con due grandi occhi, due semafori celesti, cercava di bucarsi poco, cercava di amministrare e di dominare l’ago. Ora appare dalla finestra del suo primo piano, gonfia  e rassegnata, il suo grande sedere quasi non passa dalle porte, i suoi grandi occhi vivacchiano semichiusi e spaccia dalla finestra la sua mercanzia senza nemmeno la paura di essere scoperta. Cerca sempre il suo cane bianco scomparso chissà quando e chissà dove. La tabaccaia è ancora lì, ma più torva, più incarognita, adesso fuma la pipa e parla della snervante necessità di difendersi, odia i turisti, odia gli straccioni, i neri, gli arabi, i vicini di casa, le macchine, il rumore, i piccioni. Il futuro e il presente. Si è comprata una pistola per non essere rapinata per la settima volta. Adesso si sente capace di uccidere. Me la ricordavo sorridente e con una minigonna vertiginosa, le cosce dure e allegre e uno sguardo pieno di promesse imbarazzanti.
Sul portone incontro anche la signora del quarto piano, dovrebbe avere ottanta anni adesso, ma i suoi capelli sono sempre neri e la sua faccia è sempre quella di un’antica romana scolpita nella pietra, la figlia di un fantasma proprio di quei tempi lì, dicono in piazza. La signora Mercanti mi accolse il primo giorno che comprai questa casa, per l’occasione mi fece salire da lei a mangiare il castagnaccio, buono ma assolutamente indigesto, la sera stessa di quel castagnaccio il marito schiattò. Roberto poi ha ereditato l’antico e storico chiosco al centro della piazza da suo padre, sperava di diventare ricco facendo cappuccini e caffè per quelli dell’ospedale al di là del semaforo, ci credeva veramente. Adesso è lì, stanco e deluso, che si affanna, corre, bestemmia e vorrebbe rinascere lontano da quel marciapiede, oltre il confine. Rimane solamente per guardare i sederi delle belle straniere di passaggio. I nuovi ospiti della piazza sono invece i barboni, vivono e dormono sulle scale che portano al fiume, dividono il loro sonno e gli avanzi della piazza con i topi, con loro fanno festa nei cassonetti. Uno di loro ha la barba lunga e la faccia ascetica, gli occhi come due pozzi senza fondo, racconta a tutti dei suoi amici topi, del viaggio che si sta preparando a fare verso Gerusalemme, perché così c’è scritto chissà dove. Si fa invitare a pranzo nelle case, e  le deruba il giorno dopo. Barbone, sognatore e ladro.
Qui è la mia casa ad osservare l’acqua e i grandi alberi che tentano inutilmente di nascondere il fetido fiume che cambia il suo aspetto asseconda della pioggia e del fango strappato alla campagna. E al di là, sull’altra riva, il pensoso aspetto di una basilica, sfasciata e stanca di tutto quello scorrere, quell’andare di ferri e luci sotto di lei le fanno tremare le budella e rendono impossibile il concentrarsi delle mani sul rosario. La Basilica e il grappolo di barboni abbarbicati ai suoi stanchi e stufi scalini di pietra fanno la guardia a via Giulia, un’isola per ricchi indolenti, poco entusiasti ed annoiati con cani dal pelo lucido e macchine di colore blu.
Ho aperto la porta della mia vecchia casa con il batticuore ed ho trovato lo scempio, i resti di un campo di battaglia, è stata l’ultima inquilina ha regalarmi il massacro, rifiutandosi di pagare l’affitto, l’ha stuprata, prima di lasciarla. L’ha ferita a morte, ha rigato il pavimento di legno chiaro con un punteruolo, ha piegato i tubi dell’acqua, macchiato le pareti e massacrato selvaggiamente la cucina. Il soffitto, una volta affrescato, è pieno di macchie nere e squarci profondi, tutto odora di muffa e di odio. Ho vomitato il mio sgomento quando ho varcato la porta. Non voglio più, marcia in dietro e dimenticare di nuovo. Dove sono i ricordi, l’ha scaricati nel cesso? Ma prima di andare via, prima di richiudermi la porta alle spalle, avverto qualcosa sulla spalla destra una stretta leggera, la sensazione delle dita che, gentilmente vogliono trattenermi, tirarmi in dietro. La mia spalla si accorge della mano invisibile, mi giro e la mano tenta delicatamente di infilarsi nella camicia aperta.
Forse si tratta della mano invisibile di Elena, la mia prima moglie? Sicuramente no. Elena aveva il corpo del ghepardo, dal naso alle caviglie un odore meraviglioso che ancora oggi il lavandino e il bidè si ricordano e mi chiedono…allegra e spensierata, svagata.  L’ho conosciuta davanti ad un sassofono completamente ubriaco, per prime le sue lunghe cosce che si strusciavano addosso a me come per sbaglio, poi a casa mia per fare solamente pipì, e nel mio letto per provare a conoscerci. Si muoveva per casa nuda facendo eccitare pareti e scaldabagni. Gli operai che lavoravano di fronte alla cucina, non smettevano di masturbarsi, con quel loro coso impazzito e premuto contro la finestra di fronte, lei li stuzzicava così dalla mattina alla sera. Allegria pura siamo d’accordo, la mia casa entusiasta, anche per la sua grande passione per la sodomia. Il giorno del matrimonio è arrivata con un’ora e mezza di ritardo, le è rimasto il volante della macchina in mano e si è dimenticata di mettersi le mutande, poco male, mio nonno aveva la faccia avvampata quando gliel’ho presentata e non riusciva a staccare la mano dalla sua, la stringeva, la voleva. A metà ricevimento mi ha scombussolato il cervello, preso e portato via, in macchina, lontano, tutta la notte in viaggio, diretti a uno chalet di montagna i cui proprietari, contadini, hanno subito, per un’intera settimana, urla e schiamazzi indicibili di lei che si esibiva sul mio corpo divertito. Il letto poi si arrese, si schiantò in due, innervosito ed esausto. Tornati a casa, la mia casa sul fiume, Elena ci comunica un pomeriggio, a me e ai soprammobili, che lei è incinta, parecchio incinta veramente. Ma le pareti e il soffitto mi hanno messo in guardia
    _     Allora cambia tutto _
Come cambia tutto, avete visto porcate incredibili, era o non era un bordello questo qui, e adesso vi scandalizzate? Tacete ch’è meglio. Non potevano controbattere, ma l’intera mia casa si irritava, lo vedevo, me ne ero accorto, Elena diventava un sorvegliato speciale, s’incupiva, pensava e ci ripensa sopra, sentiva delle voci diceva lei, infastidita. Forse che non voleva questo figlio…forse.
Una sera tornando, lei era seduta al centro della stanza, nuda, a gambe spalancate, davanti al televisore che stava trasmettendo in diretta una tragedia, il crollo di una tribuna in uno stadio durante una partita di calcio, morti e feriti a iosa, grida e sdegno, disperazioni e rabbia oltre l’abituale misura. I morti aumentavano, lunghi distesi sull’erba. Lei rideva a crepapelle, completamente ubriaca. Accanto a lei, in terra un’intera collezione di bottiglie di vino, vuote, ingoiate per intero. Chi l’ha comprate? lei mi dice di no, se l’è trovate davanti. Nemmeno io. I muri sogghignavano. L’ombra veloce di un’altra mano, il suo grande seno, il profilo. Era stata lei, Era arrivata dai resti della basilica sotto le mie fondamenta ? Poi l’aborto, poi il matrimonio così immediatamente finito, lo splendido corpo di Elena trasformato, risucchiato dall’interno, segaligno e triste. Ed io con l’impressione che la mia casa  non sia stata dispiaciuta per nulla.



E la terra ha tremato

Sto dormendo, probabilmente sogno, lei accanto a me, addosso a me, russa forte, con le ginocchia serrate sul mio plesso solare, con la mano destra a serrarmi una spalla a ribadire la sua proprietà.  Alle tre e trentadue la terra trema, il lampadario ondeggia, anche il letto. Mi sveglio con la nausea, convinto di essere su una barca, in mare aperto, lei dorme pesante. Il letto continua muoversi il resto della notte, io con i sensi tutti quanti accesi.
Accendo la radio la mattina presto, il terremoto ha distrutto una città e interi paesi laggiù, me ne sono accorto a chilometri di distanza, al di là delle montagne, non molto lontano da qui. La radio m’inonda di orrore, lei mette il caffè sul fuoco coperta solamente di un tanga invisibile. Il caffè è buono e lei mi guardava invitante, fuori c’è il sole. Apre il frigorifero, lo richiude. Guarda e riguarda e i piatti si mette a lavare.
    _   Spegni la radio che ti faccio l’elenco della spesa _
    _   C’è stato un terremoto questa notte, senti _
    _    Qui la vita continua, scrivi: un chilo di arance, due finocchi, solo due, poi la carne macinata e un etto e mezzo di prosciutto, quello semidolce. C’è il sole oggi, hai visto? Il sole, hai capito?_
Non spengo la radio.
Le urla, i crolli, i detriti, la disperazione, la morte nel sonno, il coraggio, la rabbia. Tutto è rimasto nel mio stomaco e non vuole essere digerito. Ascolto le voci, le voci continuano a circolarmi nel sangue. Non si assopiscono. Mai più.
E la polvere e la distruzione e la polvere.
Lo vedo anche se sento solamente la sua voce alla radio, ha la faccia scavata, gli occhi stanchi, increduli e una smorfia di dolore gli piega le labbra.
    _    Ho dormito fuori e per questo sono salvo ma adesso…_
    _    Spero che i miei amici siano vivi. Li cerco, li cerco _
    _    Ho visto il muro che mi cadeva addosso_
    _   È come se, il male aveva deciso…_
Lei ha una lunga ferita  su uno zigomo, ha la faccia sporca di terra, è sudata, parla e la posso toccare.
    _   Trenta secondi sono tanti. Ho pensato che non sarei uscita viva. _
    _    La mia casa non la trovo più_
    _  Le scale sono spezzate, camera mia piena di calcinacci e i muri sono spaccati. Mi ha salvata il mio letto a castello, se avessi dormito di sopra, come sempre, non sarei qui_
Invece lei è giovane, ha coraggio, i nervi del collo sono tesi, la sua voce è tagliente.
    _    Ho perso gli amici, ma ho la vita_
     _    Mia madre, il mio cane, sono sotto, qui sotto _
Si chiama Angelo ed è un vigile del fuoco, parla, racconta con tenerezza. E’ un angelo.
    _   Ha quasi cento anni,  l’abbiamo ritrovata viva nel suo letto, bloccata dai calcinacci e aspettava,  lavorava all’uncinetto. Quando l’abbiamo tirata fuori ha chiesto un pettine, si voleva pettinare, si sentiva in disordine._
Quest’uomo di cinquant’anni parla con un filo di voce, ha gli occhi gonfi, arresi.
    _    Tredici anni aveva mia figlia, aveva paura, così le ho detto di venire con me e la mamma sul divano, quando è crollato tutto è lì che è rimasta, è lì che l’hanno trovata _
Lei adesso è sotto la doccia e impreca perché il bagno schiuma è finito. E’ inammissibile! Dovevo pensarci io, imperdonabile è! Io sono seduto sul divano davanti alla radio, ascolto e piango.
Due grandi spalle e un’energia instancabile, nervosa, che però sta per cedere il passo.
    _    Nel caos generale, all'improvviso si è alzata una nuvola di polvere, la chiesa era appena crollata e più avanti una donna chiedeva aiuto, i suoi genitori erano rimasti intrappolati sotto le pietre, sotto le travi di legno. Ho sfondato la porta, il primo che ho trovato è stato il padre, steso sotto un pezzo di muro, l'ho caricato sulle spalle_
La vita a tutti costi ha questa donna dentro.
    _   Sono scappata dall’ospedale. Ho partorito, sono riuscita a scappare con i punti, a piedi scalzi, con le flebo attaccate e mia madre e mia figlia appena nata. Scappavano tutti, anche i medici. Doveva essere il più bel giorno della mia vita e invece, e invece, e invece..._
E’ giovane e spenta, come i suoi capelli stanchi e sporchi, ha gli occhi che non sanno dove devono guardare.
    _    Ho paura di dormire.._
    _    Ho paura di sognare.._
    _    Ho paura del buio, se la terra ricomincia a tremare _
    _    Ho le vertigini, non passano.._
    _    Sento ancora gridare, sento piangere, anche se è tutto finito. E’ veramente finito tutto ?_
    _    Cosa ho sentito? di tutto ho sentito...rumori, urla, motori di macchine, il terrore della gente...La scossa, le scosse nello stomaco_
Adesso una breve interruzione per la pubblicità, pannolini, dentiere, lassativi, mutande e regiseni, cravatte, viaggi, automobili e yogurt contro il colesterolo…e l’orribile racconto ricomincia.
Questa donna è piantata saldamente nel mezzo delle macerie, ha le mani protette dai guanti, è stanca, ma non si fermerà.
     _    Ecco, una bambina di 2 anni è viva, è ancora viva, ma la mamma è morta cercando di proteggerla. Me l’ha detto un vigile del fuoco, me la detto lui ora_
    _    All'ospedale i morti sono 16, si sono 16 i morti”
    _    E’ crollata parte della Casa dello Studente e il campanile di una chiesa_
E lei vuole dirigere il resto della giornata. O la radio accesa oppure la spirapolvere, poi le poste, poi la passeggiata con il cane. E da una stanza all’altra si mette a cantare. Cantare adesso? Che male c’è, l’ottimismo è importante !
    _    Ho visto due bambini che hanno perso la parola…_
    _   Ho visto il terrore negli occhi di mio figlio, mentre i suoi giochi e i suoi mobili gli crollavano addosso, mentre le pareti si frantumavano e la polvere invadeva la casa, ho sentito le grida di mia moglie che nel buio non riusciva ad aprire la porta per scappare..._
    _    Mi sono spaccato i piedi camminando scalzo sui vetri, siamo usciti che la terra aveva smesso di tremare... e intorno la gente urlava nelle scale e fuori in strada... e c’era odore di gas ovunque_
Ha visto tutto questo, ha vissuto un incubo, e c’è dentro ancora… e ringrazia il Signore, lo ringrazia perché pur avendo perso tutto, non ha perso nulla... il figlio e la moglie ci sono ancora, sono vivi, devono ripartire dal niente.
I suoi singhiozzi  inondano la radio.
Un vigile del fuoco racconta senza più forze.
    _    La sorella lo ha chiamato al cellulare e lui, da sotto le macerie, ha risposto, è salvo_
    _    Ho scavato con le mani, così li ho salvati_
Sei ne abbiamo trovati vivi nella casa dello studente.
Lei è sulla porta, decisa a sentenziare.
    _   E per favore fai le cose che ti ho chiesto, alzati da questo divano, non puoi stare qui a piangere per gli altri, non li riporterai in vita, prendi sempre tutto su di te, è masochista e infantile. Spegni al radio e dammi una mano _
    _    Sono marito e moglie, sono morti abbracciati_
Un giovane nero, uno che i documenti in regola non ce l’ha, un immigrato senza lavoro, si toglie la maschera che gli ripara la faccia e parla aggrappato al microfono
     _    La gente circola tra le macerie, persa_
     _   È pericoloso, perché le scosse continuano, questa paura nessuno può fermarla_
La città è chiusa, l’hanno chiusa, nessuno può avvicinarsi alle macerie. Ci sono gli sciacalli, vano a rubare nelle case crollate, anche quelli ci sono.
E la radio a questo punto annuncia l’arrivo della gente importante, i capi, i politici, quelli che devono promettere, rassicurare, annunciare. Arrivano nell’orrore con le loro macchine belle e costose, le loro giacche stirate, le camicie e le scarpe non sporcate dal fango. Arrivano e fanno i loro comizi, per loro è facile e torna utile. Noi penseremo a voi, noi ricostruiremo, noi faremo l’impossibile. Vi amiamo noi.
E adesso un cittadino, senza più casa e senza più famiglia, davanti alla grande tenda da campo che lo ospita insieme ai suoi compagni di sventura, con un passato perduto per sempre e senza nemmeno un futuro, si soffia forte il naso, tossisce, si schiarisce la voce guarda intorno a se con le vene della fronte gonfie e prende coraggio per la terribile verità che ci tiene a dire.
    _   Qualcuno però aveva previsto tutto e chi non l’ha ascoltato è responsabile della distruzione e della morte_
La radio tace a lungo e poi riprende con grande imbarazzo. E’ una donna a parlare, anche se non la vedo so che i suoi occhi sono chiusi.
    _  Cristina.. faceva l’infermiera nell’ospedale che è crollato... era al pronto soccorso...e ora è sotto terapia psichiatrica... non lavora più...è sconvolta...ha visto gente lasciata morire in rianimazione...perché era troppo malmessa...o anziana, mettevano a questi poveri cristi un foglio di carta addosso attaccato col cerotto... e una X rossa col pennarello,  il segno della condanna. C’erano troppi bambini, emorragie, teste spaccate, toraci schiacciati. Adesso lei non dorme più,  piange, piange sempre... non mangia, non riesce più a sorridere _
Un respiro che sa di polvere e finisce il suo sfogo.
    _   Lasciateci in pace _
Spengo la radio, scrivo un biglietto di addio per lei che si sta mettendo lo smalto alle unghie dei piedi e mi metto a cercare nei miei tanti perché.


Me ne vado

Vaffaculo coraggioso amico mio!
Ricordo il grande manifesto che avevi dietro la tua scrivania, contadini e operai che marciano compatti per la libertà, te l’ho regalato io, adesso, in testa a quell’immenso corteo ci sei tu, tu con la tua forza e i libri pesanti che portavi sempre sottobraccio. Siamo stati giovani insieme, creduto nelle stesse cose, sperato nelle stesse cose, in un presente e un domani migliore. Tante battaglie l’uno affianco all’altro. Io mi ubriacavo di vittorie e delusioni, tu matematicamente continuavi ad incastrare un pensiero dentro l’altro.
Sapevo che alla fine l’avresti fatto, e quando è successo mi hanno avvertito per telefono, una vita s’interrompe e te lo dicono per telefono ! Mi sono disperato, si, perché io mi lascio travolgere, la razionalità e la lucidità mi sfiorano, ma non mi appartengono.
Me ne vado, me l’hai detto più volte.
Abbiamo passato anni insieme, l’uno accanto all’altro e spesso contro, abbiamo fatto tante battaglie insieme, tutti e due impetuosi,  ma tu spinto da una fede incrollabile. Hai lottato  tutta una vita con gli altri e per gli altri. Hai difeso, hai incitato, hai pensato, mai ti sei arreso. Una intera vita per la libertà, contro il potere, contro il denaro, una vita per combattere il mostro. Ho litigato spesso, furiosamente, spesso non ero affatto d’accordo con te.
Te ne sei andato. Hai lasciato detto di non volere ne funerali ne necrologi.
Mi spiace di non essere riuscito a convincerti. Eri un ribelle, ma anche un perfezionista, volevi farlo in modo razionale, lucido, pulito.
Alla tua età poi vedevi solo un avvenire di malattie. E poi l’ultima e definitiva protesta per la deriva politica del nostro paese, il non volere assistere al fallimento del tuo credo, delle tue idee. Un deciso, potente, definitivo, urlato “No”
Intendevi andartene con tua moglie, una donna forte e dolce, la colonna portante della tua vita, il suo coraggio, la sua coerenza, la tenerezza, i tuoi stessi lucenti occhi blu, ma lei voleva che prima finissi di scrivere il tuo ultimo e definitivo  libro.
Hai scelto il suicido assistito, oltre il confine, aldilà delle montagne, una follia inaccettabile. Aiutato da chi ? In ospedale, come se fosse un’operazione alle tonsille, tutto legale, tutto fatto per bene. Chiunque potrebbe deciderlo, pianificarlo, togliersi di mezzo con una firma, una semplice e fottuta firma, roba di poco e al minimo costo. Si perché nel nostro disgraziato paese scegliere di finire non è possibile, è punito, è immorale. Giustamente immorale? E’ una domanda grande come un’intera catena montuosa.
Mi hai telefonato dicendomi “ Ma no, non preoccuparti, torno domani”.
Ha passato il confine per mai più ritornare.
Sapevi ridere, me lo ricordo, sapevi amare.
Eri egocentrico, accentratore. Eri anche convinto di essere bello. I tuoi occhi blu hanno affascinato anche gli avversari di sempre. I tuoi giorni sono stati pieni di donne magnifiche, intelligenti, eccezionali.
Anche nel decidere la fine  sei stato razionale, hai pagato la domestica, saldato i tuoi debiti, tutte le bollette di casa, le pompe funebri già avvertite, la lettera ai compagni di sempre, della tua e nostra fede politica. Hai regalato a me i tuoi libri e tutti i tuoi pensieri più belli e più rabbiosi. Sei stato un eretico in vita e un eretico in morte ed io non  riesco a perdonare di  non averti convinto. Una morte pensata nei dettagli, studiata a tavolino, da te c’era da aspettarselo. Ti mando a quel paese e sorrido.
Hai preferito andartene, salutarci non era necessario. Nessuna macchia di sangue sull’asfalto. Ma adesso la tua forza è la mia. Davanti ad un nuovo dittatore, più insidioso e feroce, non intendevi piegare la testa. Non hai voluto vedere la tua gente umiliata, sconfitta, perduta, ricattata, decapitata dei suo legittimi sogni e diritti.
Regalalo a me il tuo coraggio, anche il tuo disagio ! Vaffanculo amico mio.

Sono venuta a riprenderti

 
 _    Sono venuta fino a qui, mi sono umiliata per venire _
Ha gli occhi di vetro del colore dell’asfalto, si appannano, e adesso si allargano e rubano il colore al tram che sta passando, verde penicillina. La pelle del viso diventa lucida, unta, invecchia nel tempo di un solo respiro, I capelli sono polvere, sono polline, trasparenti da far vedere il profilo del cranio, la sua folta capigliatura rossa non è più.
     _   Devo dirti una cosa importante, la più importante, e ho fretta _
E’ seduta accanto a me che la guardo impaurito, si aggrappa al mio braccio, stringe, trema, è più piccola e più magra di pochi giorni fa, il naso le si mette a colare, le invade il mento e il collo.
    _   Sono venuta a riprenderti, a riportarti a casa, adesso e subito. E ti faccio vedere...Ho letto tanto, e c’ho pensato, conosco altre posizioni, vedrai cosa sono capace di fare adesso, non puoi rifiutarti, adesso la più brava di tutte sarò io _
Mi acchiappa con tutte e due le mani, si alza dalla sedia, mi aggredisce le labbra, le apre a forza come si fa con una scatola di pelati e sprofonda dentro. La sua lingua diventata di legno, impazzita, violenta, insapore. E’ inutile il mio divincolarmi.
Si stacca come se fosse andata via la corrente, sbigottita molla la presa e si risiede. Ride, con i muscoli della faccia ma non con gli occhi.
    _   Ecco ma certo, ma che pazza, ma che cieca! Ce n’è un’altra, un’altra ancora! _
E lo urla, e lo sbraita alla gente che le passa vicino, gente che non guarda e non sente, gente che tira dritto.
Io allora provo a fare uscire da me il respiro diventato di aglio e alcune parole capaci di sovrapporsi alla sua fasulla e pericolosa urlata ilarità. Mi provo a dirle che non posso, che un’altra mano una sera, ed era di sicuro un mercoledì, mi ha preso. Ed ero subito suo, e lo sono da sempre e…non so più cosa dico.
Lei ha le mascelle spalancate come quelle di un serpente, gli occhi schizzati in fuori. Si alza di scatto, mi aggrappo io per trattenerla, un avambraccio quasi si strappa e la segue. Si alza di scatto, si divincola e scaraventa se stessa sulla strada. Le braccia e le gambe già lontani, scomparsi fra la gente, già folli.
Mi giro di fianco insieme allo sconcerto e vedo il suo viso di cera nuovamente seduto accanto a me, un’altra lei, uguale, che sbeffeggiandomi mi apostrofa, mi rimbrotta il pensiero.
    _   Era di mercoledì quando hai infilato l’anello nella mia mano, era alle cascate, e ti puzzavano sia il fiato che le ascelle, e adesso che l’altra se l’è data a gambe, ti alzi e con me vieni via, altrimenti ti prendi una coltellata nel cuore _
Brandisce il coltello che mi sarebbe servito a dividere il toast, me lo saetta davanti, le acchiappo tutti e due i polsi perché non si sa mai, ma lei continua, ridendo a squarcia gola.
    _   Stupida io che non mi accorgevo delle bugie, stupida io che mi fidavo ciecamente. Con me stessa dovevi tradirmi, ma come hai potuto ?_
Confuso dalla medesima identità provo a spiegarle mentre continuo a bloccarle le mani, ch’ è successo per caso, che non era voluto, che quel mercoledì stavo bevendo un tè freddo a questo medesimo bar, è arrivata e m’ha preso la mano, e tutto s’è compiuto in maniera inesorabile, se queste cose accadono è il destino a volerle.
Lascia cadere il coltello, schiuma dalla bocca, gli occhi rubano adesso il colore al cappotto di un passante che trascina frettoloso una gamba atrofizzata.
    _    Stupida io, vado a pagare e scompaio per sempre _
Entra e viene ingoiata dal bar. Ora sento e vedo una voce alla mia sinistra, in piedi, furiosa, gli stessi occhi, i capelli trasparenti e medesimi, la pelle identica a quella della seconda fuggitiva.
    _    Era proprio di mercoledì, quel mercoledì di cui parli che mi accarezzavi il sedere nudo per rassicurarmi e confondermi, così tu mi stavi raccontando sull’eternità del nostro amore e, da allora, soltanto finzioni per otto lunghi e terribili anni, anni di belle promesse andate in putrefazione. Ma sul mio sedere non ci sei mai più voluto tornare. Oggi è di nuovo mercoledì, fammi vedere la mano di cui parli, che la stacco _
Allora mi lancio rovesciando la sedia, scavalco, spintono, sfuggo da me stesso, attraverso, nel farlo un ultima volta mi giro e le vedo tutte e tre che fumano, gesticolano e mi giustiziano. Salgo sul tram affollato, vedo la sua mano, quella bellissima mano fra cappotti e impermeabili, seguo il suo braccio, il seno, poi il collo, la faccia di cera, il naso straboccante di moccio. La sua bocca mi guarda e pronuncia
    _    Sono venuta fino a qui per riprenderti _
Forse, a questo punto, è preferibile magari sentirsi male.

La guerra in mostra

Il Natale è passato da un giorno, sono le due del pomeriggio, fa freddo, pungente e sano, c’è uno splendido sole, tutto appare lucente e lucido, l’acqua del fiume per la prima volta splende, rilancia negli occhi la luce di un giorno speciale, i palazzi lungo la strada che percorriamo sono ornati a festa. Sereno appare l’umore della gente che passeggia lenta e senza pensieri. Il Natale è così, è una tregua necessaria negli occhi di tutti. In giro ci sono poche macchine, poche macchine che rotolano discrete, facendo attenzione a non disturbare la festa. Camminiamo io e te senza una meta precisa, guardandoci intorno con meraviglia, come se fosse la prima volta, in questa nostra città, bella e finalmente tutta per noi, sorridente, accogliente, una madre perfetta e premurosa. Il suo volto spietato è scomparso, sembra lontano, la fatica di vivere non si vede oggi, la povertà, la crudeltà, la malattia, la fatica, l’angoscia restano nascoste, almeno fino all’esaurirsi delle vacanze di questo magnifico Natale. Oggi è la giornata della comprensione e della fratellanza e  così camminiamo sorridenti e leggeri. Guardiamo un uomo steso in terra, sul marciapiede, tiriamo dritto quasi scavalcandolo. Non vogliamo pensieri tristi oggi.
Lungo la strada, due semafori più in là si vede l’Ara Pacis, il monumento della Roma imperiale sopravvissuto egregiamente alla storia, agli orrori delle invasioni e alle bombe piovute sulla nostra città, l’altare dove gli imperatori celebravano le loro vittorie. Adesso è un museo, con la sua moderna fontana davanti e importanti scalinate di marmo splendente che guidano i visitatori fino all’entrata. Arriviamo. In molti sono seduti fuori, alcuni stesi e stanchi, altri immobili sotto il sole, alcuni con la testa fra le mani. Entriamo, un manifesto ci invita a visitare una mostra fotografica contro la guerra, in questa giornata potrebbe essere la scelta migliore. Attraversiamo l’ingresso di marmo bianco e vetro, chiediamo all’impiegata il prezzo dei biglietti, senza nemmeno guardarci e dandoci le spalle, ci fa segno che possiamo passare, nemmeno una parola.
Entriamo nel merito, già straniti, offesi da quell’atteggiamento che non ha nulla di natalizio, anche se la mostra è gratuita. Che diamine, un po’ di gentilezza non guasta ! Passiamo accanto all’altare romano ornato di fregi pretenziosi, troppo bianchi, troppo lucidi, tanto da apparire come una grande caramella oppure una torta nuziale. Davanti all’altare un sorvegliante che sembra che si regga in piedi per miracolo, ha la faccia risucchiata all’interno, la pelle, sporca e scura, appiccicata al cranio, e, invece della giacca, ha una casacca consumata, troppo vissuta, uno straccio d’altri tempi sembra. Più avanti, su una panchina di marmo è stesa scomoda una donna. E’ immobile. Non vediamo la sua faccia perché la nasconde con le mani. Sarà affranta, la mostra ha avuto il suo effetto, oppure le fanno male i piedi ? E adesso scendiamo nei sotterranei, la mostra fotografica è lì, lì da dove proviene un odore insopportabile.
Antonella vorrebbe andarsene via, è un’igienista, è una precisa. E soprattutto è allergica a quel fetore che sembra di morto. Nei sotterranei ci sono due grandi ambienti, le fotografie, una infila all’altra. In testa, all’inizio, su un grande schermo, nella penombra, immagini di guerra, esplosioni, fucilazioni, sono perfidamente mischiate a pubblicità di pannolini per bambino, creme per il viso, dentifrici al sapore di menta, crociere esotiche, assorbenti. Un contrasto efficace, nauseabondo, messo apposta per colpire i sensibili nel vivo.
I visitatori accanto a noi guardano scandalizzati, qualcuno mugugna qualcosa che potrebbe assomigliare vagamente ad un insulto, altri scuotono la testa, una donna si soffia fragorosamente i naso, già piange prima di cominciare. A poca distanza dallo schermo la sedia del sorvegliante è occupata da un uomo con addosso una mimetica militare. Curioso, dovrebbe avere la solita giacca da sorvegliante, tristemente compassata e blu ! l’uomo appare esausto, piegato su se stesso, al limite delle sue forze, e con lui, l’olezzo già avvertito all’entrata. Lui il custode ? non mi sembra possibile, oppure fa parte di una efficace messa in scena. Dalla prima fotografia in poi è un susseguirsi di orrori, di sofferenze, di urla, di fughe, di corpi massacrati, bruciati, abbandonati nel fango, mischiati fra di loro in fosse comuni, umiliati e arresi, disperati, irriconoscibili. Le didascalie sotto le immagini rinforzano lo sgomento del visitatore raccontando i dettagli, le date, i luoghi, non risparmiando nulla, e soprattutto il coraggio di quegli uomini e quelle donne che hanno fatto sì che quegli orrori arrivassero a noi. I fotografi.
Antonella già piange, io sono disturbato da un opprimente vuoto allo stomaco, cerco una parete, un angolo al quale appoggiarmi a mano a mano che vado avanti. Accanto ad ognuna delle immagini esposte i dolore è tangibile, ci sono anche visitatori seduti in terra, gli uni addosso agli altri, quasi che siano la riproduzione vivente delle fotografie. Anche Antonella ne rimane colpita asciugandosi il naso.
    _    Guarda, ma li hanno messi apposta, magari sono degli attori, la vedi la somiglianza? Quella donna, con la bambina in braccio, sporca di sangue…è seduta in terra, sotto la fotografia di se stessa…guarda, sono uguali !! _
Ha ragione, sembrano un copia vivente, non si curano di noi che ci fermiamo davanti a guardare. Anche i visitatori, i loro vestiti sono vecchi, qualcuno zoppica, un giovane alto copre con le mani qualcosa che vuole uscire dalla pancia. Non posso crederci.
    _    Sono budella? Le sue budella ? _
Antonella non mi risponde, ha lo sguardo imprigionato dalla immagine alla mia destra, tre bambini aggrappati ad un filo spinato con occhi sgomenti e perduti, sotto la minaccia di un fucile che sicuramente aprirà il fuoco. Gli stessi bambini della fotografia guardano  e si aggrappano al cappotto di Antonella, che non capisce, che non sa che dire, che singhiozza rumorosamente.
Proseguiamo il nostro cammino nella mostra, sempre più esterrefatti. Ci muoviamo scavalcando corpi stesi sul pavimento della seconda sala, sembrano trascinarsi verso una inesistente salvezza, sembrano sul punto di esalare l’ultimo respiro. Io inciampo in una testa recisa di netto. Mi arrabbio allora, protesto, adesso veramente si esagera, bravi ma esagerati codesti attori ! Voglio convincere Antonella ad andare via ma lei è tutta immersa in quell’orrore irraccontabile, un altro improbabile custode con una larga e profonda ferita che gli divide in due la faccia, mi vuole aiutare a tirarla via. Ci riusciamo, la trasciniamo fuori insieme, lo ringrazio anche. Ma io a questo punto devo andare al bagno, correre al bagno devo, sto per vomitare. Dal lavandino e dal water fuori esce sangue, ti pareva ! Un fiume di sangue, riesco di corsa e preferisco vomitarmi addosso, insieme e scompostamente saliamo le scale. In cima inciampiamo  in un groviglio, un miscuglio pietoso e orribile di cadaveri, come la decima fotografia della mostra, teste, braccia, gambe, costole, tutto  in pezzi, un incubo reale, vero, un campo di sterminio. Mentre mi tiro su, togliendo la mia faccia da quello scempio, mi accorgo che tu cerchi di ricomporre e qualcosa ti metti anche nelle tasche del cappotto.
    _    Ma cosa fai, cosa fai, cosa fai?!_
    _    Sono anche un chirurgo io !_
    _    Vuoi portarteli a casa??_
Ti disfi allora di quei brandelli, ma non di tutto e ci affrettiamo verso l’uscita, urtando un grosso corpo meravigliato con un machete infilato nel petto.
Mi giro prima di varcare la porta di vetro e vedo un cartello.
Durante le feste di Natale il museo rimarrà chiuso al pubblico. 

Le voci del dolore

Esterno giorno
Il militare di leva estrae la pistola, carica il colpo. Dice ai magistrati di aver messo anche la sicura. "Urlavo andate via, andate via. Mi tremavano le mani, ma ho sparato, nel vuoto, davanti a me".
“Davanti a lui c’era Carlo Giuliani, appena tre anni più di lui.
"E' stata una fatalità accaduta dopo una giornata di choc" dice l'avvocato.
“E' andata che "un ragazzo dell'80 ha sparato e ha ucciso uno del '78"

Siamo qui, siamo in tanti in questa città, colorati, convinti, decisi, entusiasti, davanti a noi c’è uno splendido mare.
Ci sentiamo soli, Siamo sotto il sole, il sole ci guarda.
Loro ci osservano, gli uomini in divisa, con il viso coperto dai caschi, dietro la curva.
Cammino, alzo la testa e vedo gli elicotteri e il fumo.
In strada le macchine bruciano.
Bruciano i cassonetti e la gente fugge.
Sento gli spari dei lacrimogeni.
ho paura, tutti abbiamo paura.
Ci guardiamo e non sappiamo cosa fare, dove rifugiarci.
La polizia, carica.  Ho visto le braccia ustionate dai gas.
Siamo in guerra. Siamo in trappola, tutti.
I feriti sono tanti, troppi, in terra, senza difese, in balia.
Piango.
Gli elicotteri ancora, come demoni sopra di me.
L’apocalisse, l’inspiegabile ferocia.
Ero in mezzo alla strada, proprio davanti al cancello quando sono arrivate le camionette,  sono rimasto intrappolato.
Mi hanno colpito subito. Uno di loro mi ha colpito con lo scudo e mi ha schiacciato contro il muro, un altro mi ha riempito di botte ai fianchi. I calci di un altro uomo nero.
Mi hanno detto, noi ti uccidiamo. Così mi hanno urlato.Ero a terra e loro continuavano a picchiarmi.
Sono due giorni che non mangio. Sono tre giorni che non mi lavo.
Sento gridare ovunque.
Sono qui? Chi? Chiudete il cancello.
Stanno massacrando di botte un ragazzo per strada. Lo lasciano in terra. Tutti su di lui.
Sono tanti, la strada e' bloccata, chiusa, non c’è via di scampo.
Chiudiamo le porte, le blocchiamo con tutto quello che ci capita
Sentiamo urlare.
    _    Stanno entrando, sono qui _
Non mi rendo conto, non voglio, mi rifiuto, non può essere vero.
    _    Stiamo calmi, alziamo le braccia _
C’è sangue ovunque. Un'esecuzione.
    _    Sono entrati _
Ho visto una ragazza in terra con la testa rotta in una pozza di sangue. Pensavo che forse era morta.
Intorno alla ragazza c’era la sua materia cerebrale.
Si chiama Anna, ha il palato sfondato
    _    Puttana, adesso ti sistemiamo noi _
Ha avuto paura di essere stuprata. Calci e sputi
Mi portano in caserma. Sono già stato pestato a sangue, ho le mani legate, lacci di plastica, troppo stretti.
La colonna sonora dell'orrore è una cantilena
    _   Un due tre, viva Pinochet, quattro cinque sei, a morte gli ebrei, sette otto nove, il negretto non commuove _
Mi tocca una nuova dose di calci e pugni. Rimango a terra, non posso più alzarmi, ho un piede fratturato, le costole rotte.
Spengono le loro sigarette sulle mie mani.
Si infilano i guanti imbottiti e per un'ora non smettono di picchiare.
Quando ho provato a girarmi, mi sono preso un pugno nello stomaco, poi un altro, fino a non poterne più.
Gli altri in divisa mi sputavano addosso, mi prendevano a calci.
Siamo rimasti in piedi fino alle tre del mattino, senza alcun avvocato. Gli uomini in divisa picchiavano come se fossero sotto effetto della droga.
Sono stato travolto da una carica perché volevo aiutare una donna che camminava in mezzo all’inferno e gridava.
    _    Dio non vuole questo _
Dio non vuole questo. Sono una maschera di sangue, ho un taglio profondo sulla testa, mi sento svenire.
Finalmente, verso le 4 di mattina partiamo, ci portano in carcere. Ancora botte. Poi la pace, se di pace dopo l'inferno si può parlare. 
    _    Il nostro sacrificio servirà a far risvegliare la gente?_
    _    Non voglio più vederli, non fatemi più vedere la polizia _
    _    Conto, mi metto a contare per tentare di non ricordare _


Uno, due, tre, quattro, cinque. Conto e riconto per provare a non pensarci più.
22 luglio 2001

Locked in syndrome

Pochi tratti, precisi, molto colorati, e lucenti, e di molto sensuali, e sorridenti e infantili.
E’ volata giù insieme al suo pittore, il genio degli aerei in acrilico. Giù dal secondo piano scavalcando, con il sorriso sulla bocca, mano per la mano, l’unica finestra rimasta aperta per distrazione. Una prova d’amore.
Lui l’avrebbe salvata in volo, ripresa all’ultimo momento sicuramente, come quel disegno che qualche momento prima le aveva regalato, aerei rossi e blu agili come uccelli, fragili e affascinanti come allegri sogni dispettosi. Volteggiavano in aria, l’uno avanti all’altra, superandosi ed avvolgendosi, a testa in giù, mano nella mano, fino …allo schianto, definitivo e traditore. Benedetta contro l’asfalto, annodata su se stessa, schiacciata, annodata in un urlo pieno di rabbia. Lui schiacciato e immobilizzato in un’espressione di deluso stupore, gli occhi spalancati, il pensiero vivo, il corpo immobile. Per sempre.
Riesce ora a distinguere la sua treccia lunga fino al sedere, i grandi occhi grigi di Benedetta, luccicanti, il volo, un racconto dipinto sul foglio di carta, il suo corpo meraviglioso e bagnato, vorrebbe accarezzarla ma non può più con le braccia abbandonate e molle sulle lenzuola, può ricordare invece i suoi ossessivi aerei che si ripetevano e ripetevano sui muri, in trasparenza sulle finestre e le porte della casa del sorriso, l’amore benedetto dal disegno del grande dirigibile colorato sul soffitto del salotto, disegni sui piatti, sulle tazze, i vassoi, le pareti del bagno. Ovunque e con un entusiasmo esagerato.  E tutte quelle pillole per avere lo slancio, il motore per alzarsi in volo, da soli non ce l’avrebbero mica fatta!. Benedetta si muoveva rallentata nei suoi difficili ricordi, lenti e sensuali i suoi fianchi sempre nudi, ben disegnati con acrilico blu. Quell’andare musicale delle sue cosce lucide. Il lungo viaggio, quell’ultimo meraviglioso viaggio infinito a volo d’uccello sul pelo dell’acqua, attraverso l’oceano che adesso, in quella condizione, gli sembrava solamente immaginato. Anche la sua voce, era stato capace di disegnare anche quella.
E le parole cantate insieme a lei a cavallo delle rovine di una civiltà scomparsa, colorata con cura, colorata da vero artista, probabilmente immaginaria. Quelle sue labbra così belle da sembrare vere, piene di desiderio, sue…sue per sempre, di un rosso capace di abbagliare. Vorrebbe chiederle scusa.
Benedetta entrava nella stanza,. Benedetta era viva ma piegata su se stessa, così diversa dai ricordi e dai disegni, poteva anche non essere lei. Non sorrideva più, i suoi occhi non luccicavano, la lunga treccia era scomparsa, i capelli crespi corti e duri, la faccia era schiacciata e contratta, lui non riconosceva nemmeno i lineamenti del viso, poteva essere un’infermiera, un medico, una sconosciuta lì di passaggio, un confuso ricordo residuo. Non poteva nemmeno chiudere gli occhi e rifiutarsi di guardare, non riusciva a chiedere della sua vera Benedetta così come l’aveva sempre disegnata. Perdonami, perdonami, ma lei non poteva sentirlo.
    _    I tuoi aerei non servono a nulla, non sono capaci di volare. Rivoglio il mio viso, dove sono i disegni, dov’è il mio corpo, dov’è andato a finire quello che pensavo ? _
Lui non poteva rispondere, il delirio del suo pennello era svanito e disciolto in una piccola piega del lenzuolo.
Adesso Benedetta è seduta accanto a me, io che vorrei sapere, io che pure la ricordo come non è più. Mi chiede se per caso sono capace di dipingere. Ha la faccia compressa, schiacciata su se stessa, le mascelle piegate in dentro, i denti scomposti, troppo distanziati. I suoi polsi sono attaccati male alle mani, la spina dorsale si richiude a conchiglia. Sembra avere addirittura una coda.
Tu sai dipingere, ancora mi chiede, almeno disegnare, raddrizzarmi, ridisegnarmi la faccia meglio di così ? Allora conosci un bravo pittore, ma anche se non è bravo fa lo stesso…Basterebbero pochi segni di matita leggermente più dolci,  leggermente innamorati…
Le chiedo di lui
    _    Mi ha imbrogliato, ha imbrattato tutto, ha riempito la mia casa di bugie, ha sporcato tutti i muri invano, i suoi aerei non volano, non sono mai stati capaci di alzarsi _
Lui dov’è ?
    _    E’ fuori dal suo corpo, il suo folle pennello è svanito con lui _
Benedetta è perduta. 

Dipartenze

Sono diversi giorni che !...
Prima di addormentarmi, provo a tirare le mie somme, ricordarmi tutti i particolari, metterli in fila, possibilmente di assolvermi. Cerco una spiegazione plausibile, diverse credibili giustificazioni. La mia stravagante e distratta esistenza adesso, esige delle risposte. Adesso, subito!
Il mio sonno è agitato, mi avverte ed insiste che il mio tempo s’è accorciato, ha il singhiozzo. S’è rotto.
E’ così, non mi posso sbagliare.
E allora cerco nel mucchio, frugo, sposto, collego, incastro, mi rigiro, ma mi ritrovo in mare aperto, senza appigli di nessun genere. Mi tengo a galla a fatica, vado giù e risalgo, rivado giù, e il buio e il bagnato mi rivogliono avvertire. Ma c’è il tuo sedere, oh sì, il tuo sedere superbo !. Mi aggrappo al tuo sedere, che mi punisce e si scosta e si scosta.
Devo cavarmela da me.
Mi rotolo nel letto con un curioso freddo lungo la schiena e una fatica a respirare che cresce e mi spaventa. Sono spremuto contro il lenzuolo, te lo dico e tu russi, t’infastidisci, bofonchi e catapulti inconsapevolmente il tuo gomito sul mio naso.
Che inutile dolore mentre scavo negli miei irrisolti perché! Le randellate inutili, a freddo, senza nessun motivo. I dispetti tignosi, le urla, gli isterici tremori, i disordinati sensi di rivalsa, le promesse, i giuramenti intermittenti di atroci vendette.. Le sgangherate dichiarazioni di guerra, alla scuola, a mia madre, al mio compagno di banco, alla mia pancia, alle acne che mi deturpano la faccia, agli occhiali.
E aldunque la scoperta della masturbazione. Così tanto per far passare il tempo. E alla fine sudato e scontento con quest’affare ridicolo n4elle mani. Adesso non è proprio il momento.
Ma il freddo lungo la schiena persiste e si dirama. Una infreddatura banale?. Fesserie perché è il mese di Giugno.
In rapida sequenza m’accorgo di un dolore alla schiena. Se ti sveglio e te lo dico mi rispondi che esagero, che non mi ricordo il mestiere che fai. Sei stanca tu. Già, ma il tuo sedere rotondo?!
La mattina è uguale a la notte, identica.
Mi arrovello, non riesco ad alzarmi, mi tormenta un risentimento non decifrato, è quello ad avermi fermato, nell’anima e nel corpo. Il mio rancore contro il tempo che corre, questa è la chiave, desolante, arrugginita e… Te lo dico, lo dico alle tue mani e al tuo sedere, il magnifico, sudo ed ho freddo. Non faccio a tempo a pensare che tutto è già passato, è scaduto, è già da gettare via.
Cinque giorni a rigirarmi e a tribolare.
A rigettare sul lenzuolo una manciata di ricordi pressoché indecifrabili, di gomma ciancicata, cinque giorni e cinque notti in cerca di te fra le pieghe delle lenzuola che devono essere cambiate, che hanno un odore di broccoli, di formaggio. Un sudario.
Un altro dolore alla base del collo. Non me lo immagino, non lo invento, è lui, lo firmo.
Anche un sibilo, un fischio, o qualcosa del genere. Questo non voglio dirtelo, perché francamente non è per niente conseguenziale al dolore alla schiena, e col freddo anche quello non c’entra. E adesso ricordo che il medesimo fischio tormentava anche i timpani di mio padre.
I nostri cari morti ritornano per prenderci per mano e trascinarci al di là del portone. Mio padre è tornato per questo? Ma no, c’avrà da fare per conto suo, avrà sconfinato per sbaglio, non se ne sarà accorto nemmeno, come è solito suo. Mio padre è proprio il meno adatto per venirmi a prendere. Dall’oltretomba mi saluta appena, sembra che mi sorride, ma poi si riattacca ai suoi pensieri, ad inseguire formule, si perde.
Basta con i sogni. Mi voglio riattaccare al tuo culo e al suo caldo, lo cerco, è ancora in bagno. Il tuo culo è sempre stato il rimedio a tutti i dispiaceri dell’intera e problematica umanità.
Arrivi nel letto, ti sistemi scostata da me, allora, per dispetto, mi metto a tremare. Ti giri e finalmente mi tocchi, mi tasti, a colpo sicuro mi esplori. Mi guardi attonita. Allora è vero? Sto male davvero? Non si tratta della solita sceneggiata per interessarti? Quanto tempo esattamente mi rimane?
Suona il citofono, il cane si scalmana e urta, il comodino crolla, l’intera oggettistica si schianta, sul pavimento un putiferio di schegge di ceramica.. Tu salti per aria, ricadi malamente sul letto che cede a sinistra. La gamba cede, sempre la stessa cede, nei momenti cruciali. Ci rivuole un po’ perché l’atmosfera ritorni seria e tesa, anche perché il postino vuole farsi firmare, lo pretende, e il cane lo fronteggia. Devo aspettare un altro quarto d’ora per ricominciare a delineare la mia dipartita. E il postino si riprende la gamba aggredita dal cane e riesce ad andare via spergiurando che rivedere non si farà mai più.
Arriva allora un mio corposo ed inaspettato sputacchio. Ti colpisce in pieno, te, schifiltosa e igienista, mentre, nervosa, sei costretta a riavvicinarti a me che ti chiamo con un rantolare teatrale, così naturale e verosimilmente sofferente. Lo scaracchio sa assolutamente di malato, è verde, ne convieni anche tu. Ci vuole un dottore, è necessario, ma te lo voglio dire
_ Il dottore sei tu! _
Hai un brivido lungo e continuo di repulsione verso di me e verso il mio sputo. Il brivido parte dalla fronte e raggiunge in men che non si dica la punta dei piedi, passando per la bocca dello stomaco naturalmente, ovviamente facendoti trasalire. Allora scappi, ti barrichi in cucina, dici che devi pensare ad un da farsi meditato e corretto.
Il tuo sedere non ho più e ti richiamo con una voce fessa, cerco la tua mano e acchiappo il paralume. Scopro che mi viene da piangere. Così forte? No, è l’acqua ce esce dal lavandino, sei tu che nel frattempo sei corsa a lavarti. Ti chiamo, mi richiami, ti richiamo, mi richiami, ti dico e dichiaro che non ce la faccio ad alzare la testa e voglio subito saperne il perché. Mentre ti asciughi, io, che perdere tempo non posso, esprimo le mie ipotesi, enumero i rischi, aggravo e sceneggio la situazione in modo da riaverti vicino.
Ti ripresenti al capezzale con un grande asciugamano che ti pari dagli schizzi del mio interno in decomposizione. Adesso, con le dita piantate nelle tue braccia, costrette a stare in una posizione storta e innaturale, aggravata dalla tua ernia cervicale. Posso abbandonare me stesso ad uno sconforto che si dipana in una serie di visioni passate, assolutamente poco importanti, e una rilassatezza, una stanchezza muscolare che di solito arriva abbracciata con l’ultimo sonno, quello definitivo.
Sono in ascolto, di piangere non mi va più, gli occhi si socchiudono ma ti resto aggrappato. Non hai più sedere, dov’è? Osservo ai piedi del letto un bamboccio coi pantaloni all’inglese, i calzettoni bianchi, un maglione blu, la schiena dritta e lo sguardo sperduto, disinteressato, inconcludente. Un deficiente. Tiene per mano un adulto, ecco adesso qualcuno della mia famiglia apparirà nell’inquadratura, così sono di solito le visioni prima che il cuore cessì di battere. Non mi spavento, mi rassegno, resto a guardare. Ma l’adulto chi è? Con la mia famiglia non c’entra niente, e il bamboccio non mi somiglia nemmeno. Hanno sbagliato indirizzo e piano? La signora morte è pure distratta?
Pronta intervieni, mi metti sotto il naso qualche fotografia smangiucchiata del tempo che fù. Ma senz’occhiali non c’è mica verso! E gli occhiali dove sono, non ci stanno, non si trovano. Eccoli, starnuto e t’innaffio, lasci la presa e ci cammini sopra. I miei occhiali sono defunti ancor prima di me. Ed ecco che mi prende un attacco di bile.
Ma perché ti sei messa in testa di avvelenarmi gli ultimi momenti? Senza i miei occhiali, pensieri e idee non si mettono in fila. Ti insulto, invoco il tuo sedere e tento di riacchiappare il tuo braccio, ma sbaglio senza occhiali, e mi avvinghio a un polpaccio. Stringo con la poca forza che mi rimane, risputo, esagero e vomito, ti riprendo in pieno così bloccata come ti trovi. Grondi schifezza e mi accorgo che balbetti, che in fondo, che forse mi detesti pure, che vorresti di corsa lanciarti fuori della porta e lasciarmi schiattare da solo. Mentre assaggio l’ipotesi amara di questa parte di te, mentre vorrei raccogliere le forze per rinfacciarti quanto è necessario, soprattutto perché il momento si preannuncia drammatico, ecco che vedo mia madre al tuo posto. E’ giovane, bugiardamente sorride, è lì che sta per farmi una carezza. La chiamo e mi sciolgo. Allora sto per morire sul serio? Mi passa una mano fra i capelli, ma non sa resistere, ma proprio non vuole rispettare il copione.
_ Quando te li tagli i capelli, sembri una donna, per la miseria, alzati e vai! _
E no, ma come, anche adesso? Schiattare con la zazzera lunga è un vezzo al quale non voglio rinunciare. Rompermi le scatole ancora è proprio necessario? Da lei non mi faccio accompagnare nel mondo dei morti, ci manca solo che ci mettiamo a discutere lungo la strada. Così non va, così non voglio.
Allora fra i rantoli mi suggerisci una cosa da farsi, t’incarichi di avvertire l’intera famiglia. I miei due figli, mia madre, i fratelli, i cugini e gli zii, arriveranno subito, che tu hai bisogno di andare a fare un minimo di spesa. Sul loro arrivo immediato è impossibile crederci, in vita non è mai successo, tutti loro hanno sempre avuto molto da fare. Di fronte al morituro chissà!
T’impegni al telefono ma la linea non c’è e non c’è verso quindi che qualcuno risponda. La bolletta del telefono ti avevo detto di pagarla e non l’hai fatto. Ma sì può dipartire così? E’ inaccettabile, è sconveniente, è imbarazzante, è umiliante e di più. Soli e isolati, io e te, con un cane imbecille che non vuole smettere di abbaiare!
Mi accorgo che non posso ne muovermi, ne protestare, è l’ora, sto andando, è così che succede, il tempo per un tragico saluto ed è fatta., senza niente di scritto e organizzato. Ma tu, con carta e penna mi leggi nel pensiero e sei pronta, sotto dettatura, a rimediare. Che lascio e a chi? A chi, se l’unica penna non scrive? E poi la scelta delle pompe funebri, a fatica te lo faccio giurare di non rivolgerti all’impresa di beccamorti qui di sotto. Lo so che ti sono simpatici, ma nel momento del bisogno quello più giovane, quello che piace a te, per intenderci, il ricciolone non mi ha voluto offrire la sigaretta che gli avevo chiesto. Quelli non voglio che si occupino di me.
Un fetore insopportabile si fa strada nel disappunto. Nel mezzo di una mefitica nebbia, intravedo il tuo viso, contorcersi, tremare, come se si stesse per innescare una bomba. Insieme alla pancia che mi sta per esplodere, indovino il tuo desiderio di dartela a gambe. per evitare il peggio
Lo svenimento, il grigio appiccicoso, un rumore di lontano sbattere di metallo. Ci vedo doppio, due tavoli, due te, due porte che sbattono e veloci si richiudono.
_ Vado a lavorare e poi torno _
Mi urli precipitandoti giù per le scale. Te la sei data a gambe e questo è un fatto. E no, prima mi arrabbio, poi ti prendo a calci sul quel sedere che adoro, e dopo semmai… posso dipartire. Così come sono, in rapida successione, mi sento meglio, m’infilo le mutande e ti corro dietro, per strada, lungo il fiume e in mezzo al traffico. Tocca a te a dipartire semmai, mollo fendenti feroci, se il semaforo ha intenzione di diventare rosso quella che schiatta sei tu.