Questa è una mattina difficile,
una mattina stracolma di sconfitte, di incomprensioni, di tempi sprecati,
consumati inutilmente, di talenti inutili,
gettati nella spazzatura, disillusioni.
Non ho niente da fare. Cammino,
guardo senza attenzione, attraverso la strada in una direzione qualunque,
l’unica percezione che ho, a tratti, è quella della pelle, la carne, la mia, i
muscoli che si muovono, che spingono il mio corpo in avanti in una direzione a
casaccio. Sono in balia, spinto dal mistero affascinante del sangue che
circola, spinto dall’automatismo del cuore. Seguo il mio ventre che avanza.
Entro in quello che potrebbe
essere un bar, lo attraverso ed esco senza guardare, qualcuno mi chiede ma io
questa mattina riesco ad ascoltare solo qualcosa dentro di me che continua a
pulsare forte, è questo battito che mi conduce, dove ancora non so e poco
m’importa. Arrivo sul ponte, il “ponte degli angeli” si chiama, dominato da due
file di grandi angeli di pietra, severi, poco rassicuranti, a difendere il
castello che si trova di fronte, la fortezza di sua Santità il Papa, quello con
le pantofole di raso rosso e la croce di oro pesante. Così distanti e diversi
sono questi angeli da noi che sotto di loro passiamo !
Ma qualcosa di diverso questa
mattina succede, riesco a vedere me stesso camminare, lo vedo dall’alto, da
sopra di me. Un altro me stesso mi
osserva e mi vuole indicare ? Distinguo bene la mia testa, la faccia magra, gli
zigomi appuntiti, troppo, la barba incolta, gli occhi inquieti, sfiduciati, che
non cercano più, che volevano essere, che non hanno trovato. La vena che
attraversa la fronte da un lato all’altro, sempre gonfia e tesa, il collo e le
mani, rovinate dagli anni, il colore scuro della pelle degli avambracci,
rovinato dal sole. Mi guardo camminare, io umano, di carne e di sangue,
attraverso il ponte e mi dirigo verso un
gigantesco portone. Un portone che sta lì ad aspettarmi.
Altri nasi, altri occhi, altre
ginocchia, altri gomiti fanno la fila per entrare. Una mostra di quadri, una
cosa importante. Finisco in quella fila ed entro con loro. Di quale pittore si
tratta questa mattina non mi importa, lascio che tutto vada, mi affido alla
corrente. Grandi sale, una di seguito all’altra, piene di gente, bella gente
davvero, concentrata, fronti e zigomi e nasi intelligenti indubbiamente, che
guardano ipnotizzati immagini, rinchiuse nelle tele che attirano immediatamente
dentro se stesse occhi e cervelli, anche io sono risucchiato senza ancora
sapere chi e cosa. Facce, corpi, carne, illuminati da fasci di luce che li
rendono più veri, più materiali, come fossero lì, in mezzo a noi, affianco a
me, riesco a sentire il loro respiro, i loro lamenti, le loro grida di dolore.
Riconosco addirittura facce che mi sembra di avere incontrato ieri mentre
vagavo per i vicoli della città vecchia. Uno di loro, con la barba bianca, lì
occupato a raffigurare un martirio, già messo sulla croce, mi sembra proprio,
anzi sono sicuro che lo sia, il padre del tabaccaio sotto il mio portone. C’ è
scritto che si tratta di san Pietro. Pure quei quattro ceffi che giocano a
carte, con le loro facce da imbroglioni illuminate da un raggio di luce che non
li addolcisce di certo, sono identici ai miei compagni di gioco e di sbronze, è
curioso, ma è proprio così. E quella donna lì, che gli intelligenti accanto a
me identificano come la
Maddalena , la donna di malaffare innamorata del Cristo, ha
proprio la faccia di una puttana che conosco bene, profondamente e da lungo
tempo. Sono sorpreso.
Guardo meglio, mi avvicino di
più, sgomitando e spingendo. Sono davanti e questa volta leggo,. La
resurrezione di Lazzaro. Dal buio emerge una scena da brivido. Il morto è molto
morto, sorretto da altre braccia e facce altrettanto spettrali.
Mentre lo guardo affascinato e
contemporaneamente a disagio, un visitatore o forse una guida o cos’altro non
so, si avvicina dietro di me tanto che posso avvertire il suo alito sgradevole,
e vuole dirmi e spiegarmi con una voce arrugginita.
_
Ti piace ? Si che ti piace. Ti mette paura ? Ci conto…_
Mi giro, ha i capelli neri e
lunghi, ispidi e sporchi, la barba è nera, neri ma di fuoco sono gli occhi,
vorrei scansarmi e rispondergli male. Di cosa s’impiccia ?
_
Guarda Lazzaro, ho dipinto un vero cadavere _
Chi ? Che cosa ?
_ Mi sono fatto dare una stanza in un ospedale
qui vicino per dipingerlo, ho chiesto e pagato un cadavere vero come modello,
scatenando un putiferio, non lo volevano più il quadro, i modelli offendevano
la religione andavano dicendo, ho provato anche a distruggerlo preso dalla
furia _
Delira o e’ bene informato questa
faccia da delinquente, e me lo racconta pure come se l’avesse dipinto lui. Pure
il matto ci mancava ! Non so cosa rispondere e mi voglio assolutamente
allontanare, ma mi acchiappa un braccio e mi trascina davanti al dipinto che segue.
_
Guarda, a causa di questo dipinto hanno cominciato a dire che mi
piacevano anche i ragazzi, non è così, e poi proprio loro mi insegnano la
morale, i preti. Io racconto la vita, il Nazzareno, e la mia, difficile e piena
di peccati inevitabili._
Guardo per la prima volta la data
del quadro, milleseicento e rotti, c’è qualcosa che non va in questo qualcuno
che mi sta alle calcagna, mi divincolo, mi infilo fra altri, mi confondo fra di
loro, ma ancora non è il momento di andarsene.
Leggo. Adesso mi trovo davanti
alla Decollazione di Giovanni Battista.
Tenendolo per la testa, un aguzzino, armato di pugnale e pronto a dare
il colpo di grazia, tiene schiacciato in terra il corpo del pover’uomo, il rivolo di sangue che scende dal suo collo
mozzato sembra una firma, quella del suo pittore, l’evoluzione lenta della
terribile scena è osservata da altri dietro le sbarre di una finestra del
carcere, ed una donna è pronta a raccogliere in un cesto la testa del giustiziato.
Rimango immobile anche io ad aspettare che l’esecuzione sia completata.
Il matto riesce ancora a
scovarmi, mi è un’altra volta dietro, mi acchiappa una spalla e stringe forte,
si è fissato con me, che non riesco, davanti a questo quadro, a muovere un
muscolo, io come il Battista, sento di essere in trappola.
_
E’l’unica firma, con il sangue, sulla mia testa c’era una condanna a
morte, il Papa mi cercava, voleva ammazzarmi il Papa, avevo ucciso per
difendere, per amore, avevo ucciso per difendere l’onore, ero costretto a
scappare, a scappare sempre, sento nella tua carne che tu puoi capire _
Io tento indubbiamente di
difendermi.
_
Ma chi sei, ma cosa vai cercando ? _
Allora mi gira con la sola forza
del suo braccio verso un altro dipinto, incurante delle intelligenze a noi
accanto che sembrano non poterlo vedere.
La terribile testa mozza di Golia
con la sua smorfia dell’ultimo e definitivo dolore, mi si para davanti.
_
Sono io, sono la vittima di una religione sbagliata, cattiva e corrotta,
sono l’ultimo dei figli di Dio, sono un’infelice fratello del Nazzareno. Io che
ho osato raccontare e dipingere il mondo degli ultimi, e perseguitato per
questo. Guarda ancora, guarda bene, lo so e lo sento che tu torto non mi puoi
dare, hai una croce di legno appesa al collo con un pezzo di corda _
Si, la mia piccola croce
francescana della fratellanza e dell’umiltà, un buon proponimento, una ridicola
speranza di un me stesso migliore. I suoi occhi da pazzo visionario adesso si
infilano di prepotenza dentro i miei, possedendomi fino in fondo, fin dentro
l’intestino. Il suo fiato di morte, in guerra con il profumo dolciastro di una
giovane donna che, in adorazione plastica, osserva anch’essa la testa del Golia
e sospira estasiata e frusciante nella sua gonna allegramente colorata.
Allora scappo ancora.
Infilo con violenza il mio gomito
destro nel fianco della donna, urto, spingo, pesto, arretro, quasi cado,
attraverso tutte quelle gole, quelle braccia, quelle facce dipinte furiose,
adoranti, disperate e sofferenti, vado a
ritroso in cerca dell’uscita. Penso a me stesso penso, alla vita che sconti non
me ne vuole fare, che al varco mi aspetta, che spia ogni mio minimo errore, che
ride dei miei peccati, che m’insulta. Penso al dolore dell’incomprensione.
Maledetto pazzo, proprio oggi dovevo incontrare quella testa mozzata.
Guadagno l’uscita, respiro e mi
dirigo di corsa verso un’antica vineria di fronte con tanto di tavoli di legno
marcio e sbilenco, un forte odore di vino cattivo e un padrone, un oste
sgarbato oltre una decente misura. Per non pensare fa al caso mio. Ordino un
litro di piscio di cane come l’oste lo chiama, e mi assento.
Ma il pazzo eccolo qui, ha un
mantello nero che non avevo notato prima, è un corvo e mi cerca, viene dritto
da me, quasi rovescia un tavolino di due anziani impegnati in una interminabile
partita di scacchi, mi ha stanato e mi è addosso, si siede e acchiappa il mio
vino. L’oste indispettito commenta.
_
Eccone un altro ! _
Senza aspettare che io provi ad
aprire la bocca. La testa mozza mi ripianta gli occhi addosso e ricomincia il
suo delirio.
_
Sei scappato, non sei rimasto estasiato come gli atri? Hai avuto paura,
hai pensato a te stesso ? Chiedi altro vino che ho sete, in questa osteria ci
venivo con la mia spada, qui ho picchiato, qui mi hanno anche arrestato, la
stessa chiesa per la quale ho consumato la mia arte e i miei anni. Mi ha dato
da vivere e poi tutto mi ha tolto, i miei colori la imbarazzavano. Ho sete ti
dico, tanto adesso il vino mi scende nella gola e se ne va, non si ferma. _
L’oste arriva con un’altra
bottiglia e un’altra ancora, io sono vinto, costretto ad ascoltare ancora il
delirio di un matto. Ed è implacabile nella sua tortura.
_
Te lo leggo negli occhi che vuoi sapere, che potresti essere, che sei un
mio fratello e il compagno sicuro delle mie notti esagerate. Che dici è così,
che dici ? _
Si sgargarozza ancora il mio
vino, alza di più la voce, tanto qui dentro nessuno sembra ascoltarlo, con i
gomiti piantati sul tavolo si aggrappa di più a me che sono costretto a
guardarlo e ascoltarlo senza nulla aggiungere. E allora che vedo sulla sua
faccia una cicatrice profonda.
_
Era dura la vita, ti dovevi difendere da tutto e da tutti, dovevi avere
il tuo pugnale e la tua spada. Le sottane nere approfittavano di ogni pretesto
per farmi minacciare, per farmi rinchiudere in carcere, è qui vicino lo vuoi
vedere? Tor di Nona si chiama, lo conosci? Adesso al secondo piano, dove hanno
rinchiuso me, si è affacciata una bella signora, piena di ricci e di spocchia,
una casa dei ricchi è diventato quel maledetto posto di torture_
Sputa per terra, si riattacca a
una bottiglia nuova.
_
Le sottane nere mi davano da dipingere, e quindi da vivere, ma siccome i
miei quadri erano belli e imbarazzanti, e siccome con me in prigione o morto
sarebbero di sicuro aumentati di valore, ci davano dentro, mi facevano seguire,
mi facevano arrestare per uno starnuto, mi hanno fatto addirittura sfrattare di
casa, così, con l’inventario delle quattro cose mie, il mondo ha saputo quanti
libri, quanti piatti, quante le posate…insomma un poveraccio, uno che con le
sottane, e i cardinali non s’era mica arricchito _
Un ubriaco, con la testa sul
tavolo in fondo all’osteria, si risveglia
all’improvviso dal suo sonno, si alza traballando e sbandando, tira giù
la sua sedia, chiede sbraitando altro vino, si gira verso di noi, minaccia,
impreca, ricade in dietro sul pavimento, nuovamente nel suo alcolico sonno,
intossicato da quel cattivo piscio di cane. Il mio matto sobbalza dalla sedia,
mette mano alla cinta sotto il curioso mantello nero, cerca il coltello ?
_
E’ quello che ho ammazzato, è proprio lui, e certo, non ho il coltello
adesso. Mi dovevo difendere e l’ho fatto, voleva sposare la mia puttana e portarmela
via, hanno detto qualsiasi cosa, i francesi, gli spagnoli, le bande. Ma quali
bande ?. E così e’ arrivata pure la condanna a morte e la fuga continua,
laggiù, fino alla spiaggia, mi hanno stremato, i preti hanno vinto _
Anche a me quel gigante ubriaco
pare una faccia conosciuta, non l’ho mica ucciso, c’ho solamente discusso una
notte, ad un semaforo rosso. Oppure c’è altro ? Il mio matto ora è in piedi, si
tracanna quello che resta del vino, che evidentemente dentro la bocca non gli
va a finire, ma tutto a fracicare il tavolo, e scappa via, senza degnarmi di un
saluto, va via con il diavolo in corpo. Anch’io mi decido ad alzarmi, non prima
di avere osservato di nuovo l’ubriaco dormiente con al faccia sul tavolo, una
faccia che mi turba non poco.
E, invece di continuare la mia
vagabonda passeggiata o tornarmene a casa, rientro senza starci a pensare nella
mostra, ripago il biglietto, mi fermo però questa volta a leggere date e fatti,
robba mica di ieri! E mi dirigo verso un dipinto, forse l’unico al quale non
avevo fatto caso prima. Le Sette Opere di Misericordia mi appaiono
davanti, tutto in un vicolo stretto e
buio. Il nobile che offre il suo mantello al mendicante, lui mi assomiglia
proprio. Lo guardo ancora fisso, ma perché e come mai ? Io, proprio io senza
alcun dubbio. Vado avanti, mi sposto e mi metto davanti a quelli che ancora
guardano estasiati, ancora io, protetto dalla penombra, in altri dipinti, un
sosia e sempre lo stesso modello. Devo ammettere che sono confuso, alcune immagini, qualcosa che affiora dal
buio, ancora prima di quello dentro la pancia di mia madre. Il nome Mario,
Mario Minniti mi riaffiora nella mente da chissà dove, e si ripete e insiste.
Tutto comincia girare, chiudo gli occhi, barcollo, faccio qualche passo
scomposto in avanti, pesto altri piedi infastiditi ma non mi curo delle
proteste, riapro gli occhi e vedo di fronte a me, in fondo, una ennesima sala,
mi avvicino, molta gente è seduta ad ascoltare, parlano del pittore.
Disquisiscono, informano, si fanno belli del loro sapere. Il mio matto è lì,
tornato anche lui, seduto nell’ultima fila, e io che faccio, mi do la zappa
volutamente sui piedi, mi ci siedo accanto.
Cerco di evitare di guardare i suoi occhi che mi fanno venire
il bruciore allo stomaco, gli domando secco.
_
Che dicono qui? _
Si gira soddisfatto, come se lì
mi ci avesse chiamato lui
_
Eccolo l’amico mio di sempre. Che dicono ? Parlano di me, hanno
studiato, si sono dati da fare finalmente, hanno capito che ne vale la pena e
quello che mi meraviglia che sono pagati per farlo, e più lo fanno più il
valore della mia pittura sale verso le stelle. Troppo tardi per me, potevano
darsi da fare prima ! _
Mi sento sulle spine, sono
convinto che adesso qualcuno si accorge del delirio ad alta voce, ma non oso
azzittirlo.
_
Quello pelato, al centro sta riferendo sulla mia morte, del perché, di
dove le mie ossa sono andate a finire. Dice che forse la malaria non c’entra,
ma forse, e non so che cos’è, la sifilide, oppure avvelenato dal colore, dalla
mia stessa arte, questa è bella, questa mi ha sorpreso non poco. Secondo il
pelato mettevo il cibo su una tela vecchia, senza piatto, così com’era, un
barbaro insomma. E perché no il suicidio? Dopo tutto di fuggire ero stanco.
Ed anche l’omicidio, la chiesa mi
avrebbe finalmente raggiunto su quella spiaggia maledetta e regolato i conti di
un imbarazzante modo di raccontare il Nazzareno. La leggenda di un mantello
nero ritrovato e le ossa dentro una scatola di legno, il ricordo fasullo di una
sognante e bugiarda signora _
Si gira verso una donna seduta
accanto a lui, vestita di fino, con le labbra lucide di rossetto splendente e
due belle cosce di fuori, la guarda con
disprezzo famelico.
Ho paura che gli voglia mettere
le mani addosso.
Ho paura che adesso lo buttino di
forza fuori dalla sala, ed io con lui.
_ Anche questo posto è pieno di puttane ? del
tutto uguali a quelle che portavo nel mio letto. Questa qui la dipingerei in un
quadro_
Mi acchiappa un braccio con una
mano arrabbiata e ricomincia a voce alta il suo delirio.
_
E poi delle mie ossa hanno parlato, sono a andati a buttare all’aria un
cimitero, a smucinare nei miei antenati, a prendere la loro saliva per
confrontarla, hanno scelto, rovistato, scartato, deciso che miei sono
sicuramente due pezzetti di ossa contaminati dalla blacca, il colore e il suo
piombo. Il cadavere numero 5 sono per loro_
Si alza in piedi incendiato.
_ Bravi, tutto può essere, bravi !_
E ripiomba a sedere quasi addosso
alla signora che gli siede accanto, che si scuote, che qualche fastidio lo
avverte, le mani antiche del matto sono troppo vicine. Tira in avanti la gonna,
scosta le cosce da un lato, sistema meglio il suo sedere ingombrante.
_
E io non posso e non voglio confermare, altrimenti la mia fama si ferma,
che dicano ancora, che finalmente si sappia la poco onorevole fine che mi è
toccato fare _
Adesso va a cercare gli occhi
della signora accanto.
_
Se io fossi ancora di carne ! _
Si piega in avanti, si gira e mi
guarda con gli occhi di fuoco. Io dalla bocca schiumo saliva.
_
Adesso ti ricordi amico mio, Mario, ti ricordi ? La camera dell’ospedale
che hai preso per me, e il cadavere per fare da modello? Quante volte hai
posato per me Mario? E il tuo pugnale, nelle liti notturne ? Ciao fratello,
adesso devo andare, che i professori si devono arricchire, si abboffano adesso
della mia arte._
E adesso se la ride beffardo
_
Ti saluta Michelangelo Merisi, detto anche il Caravaggio, e tu,
ricordati chi eri _
Il mio pazzo si alza, si chiude
nel suo mantello nero e, passando attraverso pance, ginocchia, calze a rete e
toraci, esce dalla fila di sedie e scompare.