Mi
capita di ripetere stupidaggini insensate per l’intero giorno, per distogliere
me stesso dalla consapevolezza che il domani inesorabilmente si avvicina Mi
capita di immaginare uomini proiettati nel futuro, spintonati malamente, presi
a calci, minacciati, lanciati nel vuoto.
Cani
contro gatti, uomini contro lupi, uomini contro tutti, topi infetti, più forti,
più numerosi di noi, insetti immaginari nei nostri incubi ad occhi aperti,
caffè, troppo caffè, insalate, camaleonti, scarabocchi, cavie, carni scadute,
malattie, calzini sporchi, tante mutande, occhiali, montagne di occhiali, mare
intorno, deformazioni fisiche e professionali, giornali e illazioni, mondezze
di ogni tipo e misura, girasoli inutili e funghi velenosi, giudici, foreste
giustiziate, diritti e denunce e un’ampia gamma di dolori. Ruote quasi rotonde,
ruote immaginarie e chiavi inglesi, cacciaviti, cacciabombardieri per la pace e
contro, pappagalli, ingranaggi, sogni avariati, serpenti a sonagli, motori, diserbanti,
nel blu.
Omicidi
e genocidi ed io nel mezzo, rannicchiato con la testa fra le mani, per non
farmi vedere, per non dare nell’occhio. Io carne fresca nella macabra giostra
dei mattatoi, nessi lì a proliferare nel giallo. Gruppi di lettura, sordidi giochi
di carte, gruppi in rivolta, gruppi di assassini in libera uscita. Cortei
dentro i cortei. Io travolto e imbrogliato dall’io, continuo a giocare.
Francesca,
Olivia, Cristina, Giuliana col cognome da nobile e le cosce slanciate, matite,
penne, lettere, clitoridi, culi alti e culi bassi, il compleanno del gomito, la
forma inquietante dell’ombelico, il numero dieci. Canto l’orribile ballata
delle detrazioni e le addizionali, le inflazioni, le tasse sulle tasse, le
condanne a prescindere, il bianco traditore e il verde del mondo che rischia di
soccombere. Guazzabugli e discorsi alla luna, ci sono dentro, nelle piante di
ortica, i fianchi di Rosaria, l’idea geniale, l’atroce racconto di un venerdì,
quello santo e quello definitivo, i segreti non detti di una domenica
pomeriggio, le sante crociate, ascelle e tulipani, fragole, sangue e bambole.
Manganellate, bidè, spazzolini da denti e muscoli addominali. Dorsali immersi
nell’acqua calda.
Penso
con idiota insistenza le pantofole del Papa. Le inutili gite in montagna. Muffa
nei pensieri e nei giorni, muffa sulle nuvole e nella pioggia che cade addosso
e fradicia i pensieri. A mani aperte mi guardo, mani che pregano, che prendono.
Mani sui fianchi, mani grilletto e dita dentro il naso. Carezze messe al bando,
esiliate dietro una porta molto chiusa. Elefanti e formiche per non pensare al
domani, serpenti, otto volanti, sparatorie e girandole, zucchero filato, fame,
sete di sangue e di acqua, coltelli, corde e sapone, cantine e lingue
biforcute, sgozzamenti nel tardo pomeriggio, confessioni e ritrattazioni per
essere pronti ad un domani più bello.
Io
con la penosa storia di un fermacarte davanti, fermarmi non posso, nemmeno con
il vino, nemmeno con la droga pesante, nemmeno con una sconfitta sonora,
nemmeno con un sonnifero oppure con altri tipi di stordimento. Ancora le corse
a ostacoli, ancora gli indovinelli, ancora firme, ancora convalide, ancora e
nonostante. Alle stanchezze il posto d’onore. La danza dei fantasmi, l’orgia
dei cretini. Alcuni dictat insopportabili. Una bolgia assicurata. Alleluia!.
Quarantaquattro
gatti, in fila per tre, sotto la panca, insieme alla capra e agli scorpioni.
Maramao, quante volte sei morto? In quali ospedali ti hanno ricoverato?
Ingombrante, imbarazzante Maramao, diffamato e perseguitato Maramao.
Navigo
senza logica, rallentato, mi lascio portare mentre tutto rotola, scivola
intorno. Mentre rimango ebete a subire lo scatenarsi delle parole, un giochino
si forma sopra gli occhi e avvelena la mente, si prende il mio spazio vitale,
deridendo qualsiasi volontà, intelligenza ed intenzione. Un demente fra
dementi, immaturi, vittime quanto basta, potenziali improvvisati assassini. Un
giochino tortura vecchio quanto gli anni che mi porto addosso.
Le
vetrine, le bambole viventi di carne e di plastica. E adesso il regno degli
gnomi., le catacombe, le smorfie, le calende greche e un esercito di parole
sconosciute, canterellate, distorte. Cosa voglio esattamente dire non so. Non
sono pronto a solcare il domani, non sono adatto. Adesso solamente le aragoste
in motocicletta, i misteriosi occhi luminosi, i vigili urbani a braccetto con i
caimani, per sempre complici.
Come
saranno fatti gli extraterrestri? Vorrei vederli, vorrei conoscerne uno. Magari
io stesso lo sono, quello che per strada incrocia il mio sguardo con il
cappello in testa, il poliziotto pronto troppo facilmente ad abbattermi a
manganellate, quella figura che appena s’intravvede nella macchina blu. Gli
uomini con la pelle diversa, i deformi, quelli con la coscienza pulita. Ed ora e
ancora, la gioiosa ballata delle gonne a fiori e nastri nei capelli, il sorriso
degli zingari, i coltelli e la musica, le lapidazioni, le ingiustificate e
pericolose inversioni di marcia, i pensieri a quadretti, tante donne e
altrettanti semafori, i finti ricordi, l’aranciata, l’irresistibile desiderio
di finire schiacciati da un treno. E allora e dunque… Pelle figlio di Apollo,
pelle gran figlio di puttana giocava a palla nel mezzo dell’incrocio. Pelle con
il cranio fracassato investito dal tram. Voleva morire e non aveva più nulla da
perdere. Nessuno l’ha voluto soccorrere d’altronde. Pelle un invisibile
barbone, un disadattato, un pazzo furibondo, un non meritevole, mondezza
qualsiasi. Una cascata di idiozie che non riesco a fermare, così per ore ed ore.
Mio
fratello nero ucciso e torturato, Maramao pederasta ubriaco perso e mitomane,
mentre il giorno diventa notte, mentre il tempo passa e si burla di me, non si
ferma per farmi salire. Peggio per me che sono un inguaribile distratto, peggio
per me che a volte sembro di possedere un cervello più piccolo di quello di un
topo. Il tempo passa, l’orologio non aspetta e cammina, va a rotta di collo
l’orologio, mastica tutto e ricorda sghignazzando che l’ora finale è sempre più
vicina, è questa. Nessuna intelligenza come avrei voluto, nessuna specifica
volontà. Mi lascio portare, sospeso e galleggiante. Nudo e storto, steso e
demotivato, pigro e lontano dalle cose da farsi. Ammalato, per gioco esagerato.
Vago, sempre più vago. Tre per quattro nemmeno mi torna, ventiquattro più
sedici è un’operazione impossibile, estenuante ed inutile. Anni ed anni
inchiodato su queste cantilene a immaginare l’eroe invincibile, l’illuminato,
il saggio, la vittoria, la marcia trionfale nella più grande e fetida discarica
della città. Districarmi non posso, nemmeno andare al bagno, alzarmi per bere
un caffè, per fare un passo dopo un altro passo. Nemmeno pensare alle cose da
fare, che rimangono sparse sul letto, scarabocchiate, pronte soltanto a giocare
con me.
Il
cambio delle lenzuola, l’ufficio postale, l’esattoria comunale, le analisi del
sangue, il controllo delle urine, la planimetria, le rate, le multe, la spesa
laggiù oltre il ponte, la telefonata importante, la raccomandata fin troppo
rimandata, le mutande da buttare, le camice da piegare, il libro da leggere, il
cassetto da aprire, il concetto da ribadire, la porta da chiudere, il disordine
della pancia che grida vendetta, quel sogno da dimenticare, la penna da
trovare. Nulla di fatto, cantilene e nulla di fatto. Navigare a vista e senza
volersi alzare, tutto in un unico immobile stupido sogno, senza ne capo ne
coda. Sono condannato a girare in tondo, baloccarmi, perdere il tempo mio. Non
ho il coraggio, non ho le palle, non so distinguere. Ritornelli, giri insulsi
di parole quelli si, ne sono schiavo, mica so smettere, per giorni e giorni,
fino ad addormentarmi per noia e fatica, senza poter tirare nessuna somma che
tutto si è dissolto. Sono qualcosa che non sono.
Quarantaquattro
gatti in fila per tre col resto di due. Maramao continuamente e sempre,
infilato nel non vero, un cartone animato, teneramente depresso, vuoto,
deviato, cattivo risultato di un progetto inconcludente e maligno. E il
giochino si ripete specialmente verso le sette di sera, parole tutte in fila e
dette senza prendere fiato. Imperscrutabile, inalienabile, irraggiungibile,
insostenibile, irraccontabile, inappellabile, inafferrabile, impercettibile. Ho
preso il via, canto l’idiozia.
Io
nelle parole che non servono, che si divertono a giocare con il loro contrario
e mi lasciano al palo, diventano metastasi, si moltiplicano, mi imbambolano
nella terra di nessuno. Aspetto, non so che cosa, ma aspetto che il tempo si
diverta, mi passi su per il sedere, s’infili, inabissandosi e mi sporchi le
vene, riempiendo di pus la voglia di vivere Il tempo che infetta il tempo!
Aspetto
e non riesco a vedere il domani, non riesco a temere la sua crudeltà, perché
non riesco nemmeno a rendermi conto.
Le
code dritte dritte, in fila per sei col resto di due. Tre galline sul comò e il
resto è nebbia. Il debito pubblico, il disavanzo, l’invenzione della crisi, chi
infierisce, chi gira il dito nella piaga, chi sputa e chi predica. È cosi che
provo a non pensare al pozzo buio, giocando, non comprendendo, urinando e
continuando ad urinare, non raccapezzandomi realmente. C’è chi si uccide chiuso
in casa e disperato, chi si da fuoco in piazza. E io cosi faccio finta di
essere salvo, e così sia!