giovedì 1 maggio 2008

La voce



Sto davanti alla finestra spalancata, nonostante il freddo invernale, guardo attraverso il buio. I lampi di un temporale che si sta avvicinando illuminano a giorno l’acqua del lago e la sua riva opposta.
- Hai gli occhi conficcati nel buio da una buona mezz’ora, non senti il freddo? Chiudi questa finestra. Cosa ci trovi di così interessante in una notte così nera ? -
No, il temporale lo vedo, le saette illuminano a giorno le case del paese che mi sta di fronte, sull’altra riva del lago. Qualcuno ha il camino acceso, un vecchio, in una casa in alto, guarda quello spettacolo pirotecnico e pensa, e ricorda un’altra di quelle notti di tanti anni prima. Posso vederlo e leggere le parole e le immagini della sua mente, nei dettagli. Altri due, nella casa accanto si stanno accoppiando, lo fanno in piedi, chiusi dentro al gabinetto, sono belli, sono bestiali. Più su, in una delle case più alte del paese, una ragazza è sotto le coperte, ma non dorme, piange. Si sente brutta, e davvero lo è. Adesso vedo quel vecchio che si è dovuto fermare per forza a due passi da casa. Si è fermato nel buio a urinare. La donna che indossa lo scialle marrone è alla finestra, guarda in mezzo al lago, guarda proprio verso di me e mi parla, mi dice che domani verrà e mi prenderà per mano, dice anche che è tanto che mi osserva mentre dormo.
Ma la voce, dietro la mia spalla destra insiste che il temporale non c’è, che è notte fonda, che come al solito gioco ad inventare.
La voce ha un alito da vecchio, i denti gialli, due lunghi peli che gli fuoriescono da una narice e l’unghia del mignolo destro lunga ed affilata. Indossa anche, per dispetto a me, che ne ho una pazza fobia, un maglione a collo alto di lana pesante e grezza. Basta questo per rendermela cordialmente antipatica. E indigesta. La voce non riesce nemmeno a specchiarsi, per pudore.
Ed anche questa volta, come sempre, sono costretto alla ricerca frettolosa di una fantasia di rincalzo qualsiasi, per non accusare il solito gorgoglio mozzafiato all’altezza dello sterno.
Rinuncio al mio spettacolo pirotecnico e chiudo la finestra, mi giro e e chiedo aiuto agli scaffali di ferro battuto e vimini, indispensabili per darmi man forte.
Sugli scaffali mi aggrappo a libri e riviste accatastati a casaccio gli uni addosso agli altri, fili elettrici aggrovigliati, dischi, scatole di cartone sventrate e dimenticate, due bicchieri sporchi incastrati tra loro da anni. Titoli su titoli, un vecchio elenco telefonico oramai inservibile. In alto un porta candele di legno, accanto a lui un piccolo gufo di terracotta circondato da diversi pacchetti di sigarette vuoti, e poi matite, e poi penne, ed una copia, l’ultima rimasta di un libro che ho pubblicato molto tempo fa. La testa di mio padre spunta sotto ad un foglio di giornale orfano del suo resto. Guardo meglio e tutto si muove, m’invita, si ricompone e si scompone in un allegro chiasso sapientemente inconcludente. E la forza dell’immaginazione mi riempie di nuovo le vene.
La voce adesso ricompare tuonante, m’invita a rendermi finalmente conto di quell’inutile pattume ormai inservibile, di quanto negativamente possa influire su di me, quando mi siedo accanto e tento di suddividere il tempo.
Per liberarmi di quell’orribile contro canto mi aggrappo al prezioso quadro che vive e respira dietro di me, una contadina che addormenta suo figlio davanti al camino. Fin da piccolo mi è stato detto che questo quadro rappresentava me stesso, che quel bambino sono io…allora sento ancora ed ogni volta , le braccia di quella donna circondarmi la vita e sussurrarmi una ninnananna speciale.
La voce adesso interviene ancora, è spazientita, costretta sempre a ripetere la stessa solfa.
- Esci dal quadro, siamo alle solite, sai bene che è un falso, non è affatto prezioso e sai bene anche che quel bambino non puoi essere tu -
E dal quadro mi tira via in malo modo, tanto che ci rimane una ferita aperta.
Scendo le scale precipitosamente e per non ascoltare quello stillicidio negativo mi vado a chiudere nel solito ed affidabile gabinetto, giro la chiave e sono al sicuro. Qui dentro la mia immaginazione vola, è libera, non conosce pudori, è al riparo da qualsivoglia ingerenza, non mi devo difendere, non ho bisogno di giustificazioni, e posso fare a meno dei suoi suggerimenti.
E soddisfatto mi siedo sul water deciso a volare, a prendermi questa ennesima vacanza. Ma lui sta dietro la porta, prova a girare la maniglia, mi chiede sghignazzando se per caso mi serve una mano.
Per caso una mano già la posseggo. A voce alta mi ricorda che quel gabinetto è il più scomodo e il più angusto che io abbia mai posseduto, e poi fa freddo lì dentro e la luce è accecante, sembra di stare nel gabinetto della stazione. Ecco perché le mie masturbazioni alla fine risultano prive di un corpo, troppo veloci e senza la costruzione di una qualsiasi storia significativa. Insomma di un meccanicismo insipido e umiliante. Avessi almeno delle mattonelle di un colore accogliente e una vasca da bagno che si possa chiamare tale. Non funziona nemmeno sempre l’acqua calda. Insiste e vuole aprire, insiste e mi vuole sminuire, ridicolizzarmi, come sempre.
Mi rivesto e ricordo l’aiuto che, ogni volta che ho chiesto, la camera da letto mi ha regalato, il grande quadro alla destra di me nel quale mi sono rifugiato ogni volta che il tempo è venuto a reclamare la sua tassa.
Nel quadro una donna tiene stretta nella sua mano destra una bottiglia, nelle sinistra ha una sigaretta puntata verso il cielo, appoggia il suo gomito ad un vecchio televisore che accoglie nel suo interno un cielo sereno con qualche sporadica nuvola libera dall’acqua e dall’ira. Alle sue spalle fabbriche e ciminiere che mandano fuori un fumo rossiccio, denso, quasi solido, velenoso, e nell’aria, nello spazio in alto, un corpo nudo, più giovane ma privo della testa, fluttuante nel vuoto.
La donna ha lo sguardo lontano, sperduto nella mia stanza ed oltre. Ho tutta l’intenzione di mettermi a viaggiare con lei, di guardare dove lei guarda, di perdermi nei suoi pensieri e scomparire dal contraddittorio che non ha nessuna intenzione di arrendersi.
Mentre sto dentro il quadro solo ancora con metà del mio corpo, mi sento dire che in realtà quella donna mi ha sempre causato l’insonnia, che ho tentato per ben due volte di darla via, che le ho tirato addirittura un portacenere contro, e ch’è inutile adesso tutta quella commedia. Sono un ignobile bastardo e questo è un fatto. Sarebbe utile che adesso trovassi il coraggio di tagliare la tela.
Basta, i miei sogni sono in pericolo, il mio volare rischia di avere delle ali fasulle. Dove sono le mie pietre? Ieri la camera straboccava di pietre, la loro energia mi fa battere il cuore forte, posso realmente viaggiare stringendole fra le mani, posso sentirmi parte integrante del fuoco che arde al disotto di me.
Erano tante quelle pietre, mi dice lui, rimanendo seduto sul letto e senza nemmeno guardarmi. Erano troppe ed erano diventate una mania, un bisogno troppo forte. La maggior parte le ha gettate nel lago, depositate in un luogo più consono.
La mia anima giace sott’acqua adesso. Ma adesso mi rimane ancora il Crocifisso d’avorio, il buddha che ride di lucido legno, le pipe sparse sul comodino. Tutto prima aveva una sua casuale ed artistica collocazione, tutto fino ad ora si spostava in balia del momento e dell’umore, tutto viaggiava con me, tutto significava un pezzetto del mio appagante marasma, oggetti vivi, oggetti pulsanti, oggetti come prolungamenti del mio indefinito, sofferente ma vivido pensiero e midollo. Innanzi a tutti la mia vecchia tromba, che adesso è nascosta e in punizione dietro la televisione. E il resto? Tutto subisce un nuovo ordine sconosciuto ed indigesto. Le pipe sono in fila lucide e pulite, senza più vita. Il crocifisso non guarda più l’immagine di Che Gue Vara, è in alto, è escluso, è solo. Il Che sorride solamente a se stesso. Il legno del buddha è lucidato a festa, l’usura degli anni e delle nostre chiacchierate è scomparsa in modo definitivo.
E le fotografie che prima affollavano il davanzale dietro al mio letto, le immagini di una vita vissuta in straordinaria confusione? Dove sono? Non sento la loro voce.
Lui me le indica senza parlare, chiuse e riposte in un cassetto, mute per sempre.
Non mi resta altro che precipitarmi in cucina nella quale ha sempre vinto la casuale irresponsabilità, l’esaltazione dell’incompetenza, la teorizzazione dell’endemica distrazione.
Ma mi ha preceduto, è lì che leva, analizza, scansa, butta in una grande busta nera formato famiglia.
Cerco quindi di salvare il salvabile, ma anche la voce resiste, lui non vuole mollare.
Ci litighiamo il grande pesce thaillandese sopra il camino, il gatto di bronzo ci cade per terra e va in mille pezzi, il servizio da tè giallo, già menomato in molte sue parti, salta per aria…soltanto il manico della teiera resta mio. La macchinetta del caffè mi scompare sotto gli occhi, così la scatola dei biscotti, così il cioccolato, così i pacchetti di sigarette vuoti, così i bicchieri perennemente sporchi. Dei piatti e bicchieri decorati, già martoriati negli anni ma da me inseparabili, non se ne salva nemmeno uno nella furia. La sedia a dondolo basculante la distrugge davanti agli occhi miei. E quando arriviamo a mettere le mani sulla gran confusione artistica del tavolo la rissa si mette a danzare frenetica.
Urla sputazzando saliva.
- Ecco come sei, sei come tutto questo ciarpame di pezzi di carta, tutto abbandoni qui sopra. Sei inconcludente, sei ammalato, vago, incapace, immaturo…fai pulizia una volta per tutte. Via, nella mondezza, ogni cosa !Devi avere il coraggio finalmente ! -
Allora la mia fantasia, l’io trasgressore e creativo tango del pressapochismo, ha un guizzo decisivo. Una di quelle feroce che si fanno vedere solamente al finire, che però possono alla fine risolvere.
Anche il vecchio che ho visto urinare nel buio dell’altra riva del lago, mi suggerisce di non esitare più.
- Deciditi, adesso –
Il temporale è arrivato, sopra di me i fuochi d’artificio impazzano.
Lo acchiappo per la gola e lo trascino su, davanti alla finestra, la apro e lo spingo di fuori. L’incubo è interrotto, la storia ha un epilogo, la mia voce sta volando di sotto, ed io sto volando con lei.