giovedì 27 maggio 2010

Sei stesa lì



Sto attraversando il ponte, con il vento dritto contro la faccia, come al solito a quest’ora, sono diretto a fare la spesa, ti vorrei accanto a me, non ci sei.
Sei stesa lì, in fondo, hai gli occhi chiusi e indossi la stessa giacca di quando ci siamo conosciuti. Sembra che respiri, ma non respiri. Però sorridi. Hai il viso sereno, i capelli rossi a posto, la tua pelle è ancora rosa. Lì dove stai sembri stare bene. Ci puoi ascoltare?
Uno dopo l’altro amici e parenti si avvicinano per guardarti, ma di toccarti non hanno il coraggio, hanno le mani sudate e imbrattate di dolore imbarazzato, la causa di tutto non si può nominarla. Ti salutano sussurrando, poi si vanno a sedere guardando il pavimento di marmo, i piedi del vicino, le tasche, i filari di sedie. Devono affrettarsi a dimenticare, I tuoi amici dovrebbero dissetarsi le vene per resistere fino in fondo, c’è già chi suda, stira le gambe, si stropiccia il naso. Potevano rifornirsi prima di arrivare, oppure non venire per nulla. Ecco invece i ragazzi del reparto, quelli delle stanze a seguire, quelli che domani mattina potrebbero improvvisamente non svegliarsi, sono in dieci, si tengono stretti uno, vicino all’altro. Hanno delle caramelle per te e un grande unico sorriso. Mi stringono le braccia, mi accarezzano. Hanno coraggio da vendere loro. Sono già angeli.
Tua madre ti guarda incredula, guarda il marmo e le colonne, scuote la testa, tuo padre è alle prese con la sua inutile durezza, si tormenta le mani. E’ un libraio, è un latinista, ha gli occhi ed il naso di un’aquila, si rifiuta di comprendere. Dov’era lui durante i tuoi anni? Rintanato nella forfora. Tua madre immersa nei suoi meravigliosi tortellini, la tristezza nei tuoi occhi non l’ha mai vista. Aveva la radio accesa quando, chiusa nel bagno hai provato a chiedere aiuto. Il marmo mi rimanda il borbottio di tuo padre, intermittente e sempre quello.
_ Se solo avesse studiato di più !_
Tua sorella rovista nella borsa, rimescola le cose sue, così tiene a bada il dolore. Ho unito le sue mani alle tue quando tutto si è spento.
Io ho una lettera in mano, qualcosa che ti ho scritto tempo fa. La tira fuori tua sorella dalla borsa, come uno stregone, alle prese con la salvezza della mia anima.
_ E’ commovente, è il vostro amore, mettigliela in tasca_
Non ci riesco mica al primo tentativo. Allora ti chiedo il permesso. Ci riprovo, sono sicuro che se ti tocco tu riaprirai gli occhi, ti alzerai a sedere, e insieme ce ne andremo via, senza salutare nessuno. Ecco te la infilo lentamente nella tasca della giacca, vorrei rileggerla però, vorrei verificare un’altra volta se è il caso, ma devo trattenere un fiume che mi sta per uscire dagli occhi. Ci stanno scritte tre pagine di scuse. Scappo in fondo. Dietro a tutti, nascosto dietro a una colonna, qualcuno mi sorregge e mi suggerisce di scrivere un altro capitolo. Di accettare, di farmene una ragione, di lasciarti andare, di ricominciare.
Adesso caleranno il coperchio, chiuderanno per sempre, avrai freddo, avrai paura del buio e ti sentirai sola. Adesso ti alzeranno di peso. Ancora no, ancora una buona mezz’ora per noi. Ritorno vicino a te.
Aspettate un momento, non chiudete, mica voglio restare qui fuori da solo, c’è spazio pure per me. Non si può.
_ Ti ricordi il bar del Fico ? Parla ancora con me. Ma c’hai abbastanza aria per respirare lì dentro? _
Un fiume dagli occhi, un fiume in piena.
Le tempie in tempesta. Sono le dieci del mattino e c’’è il sole, sono seduto sulla banchina del fiume sotto la città e guardo ipnotizzato l’acqua marrone e fetida, ti vorrei accanto a me, con la testa appoggiata sulle mie gambe, vorrei sentire la tua voce rauca nello stomaco, come avevamo l'abitudine di fare sempre. Vorrei ricordare tutto e in ordine. Scusami, ho una gran confusione.
Ricomincio da qui. Ero seduto al bar del Fico un pomeriggio. il bar degli scacchisti, degli apprendisti alcolizzati, dei creativi perseguitati dalla noia, degli autolesionisti, dei mitomani e dei delusi, degli aspiranti suicidi. Il bar dei pensieri pesanti oppure , di contro, svuotati e secchi, andati a male, avanzi, resti preistorici. Un bar di angolo, dove la notte passa più tormentata di sicuro. Ascoltavo senza ascoltare i miei due amici che parlavano al tavolo, e il tavolo sembrava al momento, non avere a disposizione delle risposte. Sei entrata tu quando è arrivato il buio, con i capelli rossi, un oceano di efelidi e gli occhi neri. Sei scomparsa in fretta nel bagno e ne sei uscita sognante, con lo sguardo perduto proprio dentro i miei zigomi. Siamo rimasti così anche quando i miei due amici sono scomparsi dentro al tavolino. Mi hai osservato fino giù, dentro, più giù della bocca dello stomaco. Le mani intorpidite dai tuoi occhi. Hai parlato del buio e della musica che certe sere sale su dall’asfalto, del colore rossiccio di certi palazzi, dell’odore, del ritmo diverso del tempo in certi vicoli, del tuo cuore che ha fame di tutto, del tuo bisogno di imparare a ridere. Io non ho saputo rispondere. E sei andata via sfiorandomi una spalla.
_ E poi ti ho cercato ovunque_
Sono tornato al bar del Fico una sera, una mano sulla spalla, ed eri te. Senza parlare mi hai preso per mano e mi hai portato sù, per una scala misteriosa di un palazzo che nella realtà non esiste, costruito li per li, per farci salire, per proteggere un lungo ed imprevisto bacio.
Arrivati in cima, mi hai spinto contro il muro, hai sfiorato la mia bocca e la lingua, senza toccarla. Hai preso senza prendere la mia testa fra le mani e siamo rimasti così, molto tempo, ad occhi chiusi, respirandoci addosso. Senza chiederci nulla.
Un bacio che continua ancora adesso.
Un bacio che parlava di grandi desideri, di strade traverse, di rituali proibiti, di occhi sognanti, di sogni irraccontabili, di gole spalancate, di sacrilegi, pericolose eresie, di respiri sul filo del rasoio, di tentazioni e ritentazioni, di un battito cardiaco al ritmo di un Jazz rauco, lontano dalle luci e dal traffico, suonato nel buio di una cantina, a un passo dalla sua conclusione. No, non poteva bastare. Volevo provare lo stesso caldo nella gola, volevo anche io assolutamente.
_ La stanza buia te la ricordi?_
Ti sei seduta accanto a me, ed io te l’ho chiesto, ho insistito, e tu assolutamente non volevi. Ma il laccio uscito dalla tasca del cappotto, la cinta dei miei pantaloni, il limone, il cucchiaio, l’ago. E il caldo nella gola, finalmemte anch'io. Il proclama d’inizio e di fine spettacolo, l’esaltazione e il tempo dell'orologio deformato e squagliato sulla coperta, dentro le lenzuola.
Il patto d’amore e di morte.
_ Ti ho chiesto d'insegnarmi la lentezza e l'incoscienza, come fare per vivere fuori di me. –
Scusami, non ho esitato a chiedertelo.
Dalla file delle sedie, schierate davanti a te, così immobile, qualcuno si alza perché non può più resistere, si vede in uno specchio, guarda il suo futuro prossimo venturo ed ha paura. Scappa via in silenzio, lasciando solamente l’eco delle sue scarpe. E' un pezzo del tuo passato, lascia qui il suo pianto, il tradimento, tutto quello che ti avrebbe voluto ancora dire. Luca non ha il coraggio di dirti altro. Non apri gli occhi e forse non ti accorgi, il tempo passa e quelli hanno il coperchio in mano. T’inchioderanno dentro. Vieni via adesso, alzati, scappa via.
Dicevi che l’ago e nella gola quel nostro caldo, ti serviva a sognare con me, ma anche per ingoiare il cappuccino e leggere il giornale, e parlare del tempo e sorridere, essere uguale a quel mondo che ti si muove intorno, tu in mezzo agli altri. .
_ Ti ricordi che amore eravamo capaci di fare, una volta girata la chiave della porta ? _
Il mondo diventava nostro, nostra tutta l'intera città, le insegne luminose, le vetrine, le fontane, le strade senza uscita, le pietre, le macchine, il buio dietro i portoni, gli archi, le colonne, i cassonetti, i gatti, i piccioni, innamorati persino dei marciapiedi, degli angoli puzzolenti, del culo del destino. Tutto riusciva a piacerci. Persino l’orrore
E tu eri su di me leggera e bellissima, ed io ti pregavo di legarmi il braccio e d’infilarmi dentro la poesia.
_ Mi sono divorato la tua tenerezza _
Io ti stavo uccidendo.
Ti guardo ancora, confuso, e mi ricordo quella gita fuori porta,. La stessa giacca della fotografia, quell’unica fotografia che mi resta. Quel giorno nella trattoria di Decima, dopo aver fatto visita alle scritte sui muri, i capolavori firmati da te, che sono ancora lì e nessuno si cura di cancellarli.
_ Avevo compiuto quel giorno diciotto anni, questi sono i miei pensieri, le visioni di un pomeriggio importante, di un amore che non si doveva raccontare, il bisogno di una qualsiasi tenerezza _
una cinquantina di speranze sfumate, svanite nel nulla, scomparse subito dopo la scrittura. Avrei dovuto leggere con più attenzione le tue speranze. Non l’ho fatto. Non l’ho fatto.
Nella lettera che ti ho scritto e che vuole accompagnarti ti chiedo scusa di non aver letto con attenzione.
Volevi abbracciare il mondo, volevi correre e volevi ballare, volevi cantare ed alzare le tue braccia in alto. A qualsiasi prezzo lo volevi fare.
Mi giro e mi rigiro nel sonno, sognando un tuo ginocchio, sognando te che esci dall’acqua del mare, che cerchi di truccarti per andare ad una festa, che leggi e leggi, per imparare a sognare di più.
Mi sveglio e accanto a me non ti trovo. Il tuo cane, quello che hai voluto come figlio, è riuscito ad aprire il cassetto e spargere i tuoi vestiti sul pavimento. L’ho trovato poi in piedi, alzato contro la parete, contro le tue spalle adesso invisibili. Quella parete che, dopo un mio ritorno, ho trovato imbrattata di sangue. Non ho chiesto s’era il tuo.
Avrei dovuto. Scusami.
Ed il piacere a grandi sorsate, senza guardare oltre. Cieco, ero cieco. Tu andavi e tornavi nelle budella pericolose della città, Io ti aspettavo sdraiato sul letto sicuro. Mi prendevi dolcemente il braccio, e insieme dentro. E la tua vita, le lunghe gambe rosa, il tuo seno di bambola, correvano verso un precipizio ancora invisibile.
Scusami, non ho visto e non ho sentito, ero ad occhi chiusi, galleggiavo e non me ne sono mai accorto.
I venditori di morte li invitavi a casa a prendere il te o ad ingoiarsi tutto d’un fiato una fila di bottiglie in bella mostra. Quel Mohamd con la pelle di bronzo era laureato in medicina, nel nostro paese vendeva la morte per vendetta contro l'occidente, quell’occidente che lo aveva accolto come un animale. Parlava e parlava, si ubriacava Mohamed e alla fine, verso sera, la morte ce la regalava. Scusami ancora. Dovevo dire di no.
Ma tu eri già su di me, ma era meglio rimandare tutto a domani e nella gola scendeva ancora il caldo e ci univa insieme la pelle e le vene.
Seduta in fondo c'era anche lei, Loredana, chiusa nella sua finta pelliccia, troppo rossetto lucido, bracciali e seni troppo grandi. Cento stupide certezze cucite su misura.
_ Te la ricordi quella sera a cena da lei? _
Proprio quella sera mi avevi promesso di tenere lontano i nostri sogni dalle tovaglie e i candelabri. Ma la tua testa è crollata nel piatto della minestra, e grande è stato l'imbarazzo, imbarazzo che è rimbalzato di sedia in sedia. Hanno tossito, si sono alzati e sono andati via. E tu con meraviglia a chiederti il perchè.
Loredana è venuta solamente per sottolineare la sua differenza, oppure perchè anche lei, nel secondo cassetto a sinistra conserva una siringa nuova e pronta ? Vorrebbe avvicinarsi, magari scusarsi anche lei, ma i suoi tacchi fanno troppo rumore e queste cerimonie non le fanno certo bene alla pelle. Resta li, a contare i presenti, le capigliature, le borse di marca, gli occhiali, e quanti maschi e quali.
Ma ho visto Loredana attraverso un vetro, ad osservarti nel letto nel tuo ultimo tempo.
_ E' rimasta nel corridoio. Non ha avuto il coraggio di entrare _
Nel letto di una pensione di quart’ordine in via Dei Giubbonari abbiamo dormito il giorno di Natale, felici e lontani da tutto, ipnotizzati da una grande macchia sul soffitto scrostato ed umido. L’ago, e la macchia di umido si è trasformata in nuvola, in cielo, in montagne, in poesia. Un universo solamente nostro, vietato agli altri, chiuso, senza bisogno di spiegazioni. Scusami ancora.
E ancora, non ci siamo spaventati quando hai saputo di essere ammalata, un solo giorno con la brutta sorpresa addosso. Quella stessa notte sei tornata a cercare da sola la medicina per le nostre vene, e il giorno dopo e come sempre, per poterci stendere sul letto e chiudere gli occhi insieme e sognare quello che potrebbe essere, ma non è.
_ Ti ricordi quando ho perso conoscenza nella vasca da bagno? –
Mi hai portato all’ospedale di peso, ed ho riaperto gli occhi rifacendo all’indietro un tunnel grigio di melassa appiccicosa. il tuo amore m’ha strappato dalle mani della morte per forza.
_ Da allora ho avuto paura. Di te, dei tuoi occhi scuri, della tua tenerezza _
Da allora la casa era infetta di quella morte che tu andavi a cercare per me, per amore, da allora sentivo le mie braccia prigioniere delle tue debolezze dalle quali avevo bevuto a piene mani.
Scusami.
_ Un pugno in faccia per non farti uscire a cercare il veleno_
Ma la paura non basta a fermarci, prende a calci l’amore magari, ma la polvere continua a squagliarsi ed entra facendo sentire adesso i suoi danni, il caldo nella gola si è raffreddato ed è diventato amaro, puzziamo di sofferenza, non riusciamo ad alzarci dal letto. Ti sei ammalata e non vuoi più toccarmi.
_ Scusami, allora ho pensato di fuggire mentre ti issavano sulla croce _
Ma adesso sono qui.
Mentre ti coprono e inchiodano il coperchio, adesso so che ti ho usato e poi, allargando le braccia, ti ho dato in pasto alla morte. Sono io, guardatemi prima di uscire di qua.
_ Io sono il tuo assassino -
Ti ho visto una sera al bar del Fico, non ti conosco, ma ho continuato a sognarti.