mercoledì 13 maggio 2015

Le parole per confondermi

Mi capita di ripetere stupidaggini insensate per l’intero giorno, per distogliere me stesso dalla consapevolezza che il domani inesorabilmente si avvicina Mi capita di immaginare uomini proiettati nel futuro, spintonati malamente, presi a calci, minacciati, lanciati nel vuoto.
Cani contro gatti, uomini contro lupi, uomini contro tutti, topi infetti, più forti, più numerosi di noi, insetti immaginari nei nostri incubi ad occhi aperti, caffè, troppo caffè, insalate, camaleonti, scarabocchi, cavie, carni scadute, malattie, calzini sporchi, tante mutande, occhiali, montagne di occhiali, mare intorno, deformazioni fisiche e professionali, giornali e illazioni, mondezze di ogni tipo e misura, girasoli inutili e funghi velenosi, giudici, foreste giustiziate, diritti e denunce e un’ampia gamma di dolori. Ruote quasi rotonde, ruote immaginarie e chiavi inglesi, cacciaviti, cacciabombardieri per la pace e contro, pappagalli, ingranaggi, sogni avariati, serpenti a sonagli, motori, diserbanti, nel blu.
Omicidi e genocidi ed io nel mezzo, rannicchiato con la testa fra le mani, per non farmi vedere, per non dare nell’occhio. Io carne fresca nella macabra giostra dei mattatoi, nessi lì a proliferare nel giallo. Gruppi di lettura, sordidi giochi di carte, gruppi in rivolta, gruppi di assassini in libera uscita. Cortei dentro i cortei. Io travolto e imbrogliato dall’io, continuo a giocare.
Francesca, Olivia, Cristina, Giuliana col cognome da nobile e le cosce slanciate, matite, penne, lettere, clitoridi, culi alti e culi bassi, il compleanno del gomito, la forma inquietante dell’ombelico, il numero dieci. Canto l’orribile ballata delle detrazioni e le addizionali, le inflazioni, le tasse sulle tasse, le condanne a prescindere, il bianco traditore e il verde del mondo che rischia di soccombere. Guazzabugli e discorsi alla luna, ci sono dentro, nelle piante di ortica, i fianchi di Rosaria, l’idea geniale, l’atroce racconto di un venerdì, quello santo e quello definitivo, i segreti non detti di una domenica pomeriggio, le sante crociate, ascelle e tulipani, fragole, sangue e bambole. Manganellate, bidè, spazzolini da denti e muscoli addominali. Dorsali immersi nell’acqua calda.
Penso con idiota insistenza le pantofole del Papa. Le inutili gite in montagna. Muffa nei pensieri e nei giorni, muffa sulle nuvole e nella pioggia che cade addosso e fradicia i pensieri. A mani aperte mi guardo, mani che pregano, che prendono. Mani sui fianchi, mani grilletto e dita dentro il naso. Carezze messe al bando, esiliate dietro una porta molto chiusa. Elefanti e formiche per non pensare al domani, serpenti, otto volanti, sparatorie e girandole, zucchero filato, fame, sete di sangue e di acqua, coltelli, corde e sapone, cantine e lingue biforcute, sgozzamenti nel tardo pomeriggio, confessioni e ritrattazioni per essere pronti ad un domani più bello.
Io con la penosa storia di un fermacarte davanti, fermarmi non posso, nemmeno con il vino, nemmeno con la droga pesante, nemmeno con una sconfitta sonora, nemmeno con un sonnifero oppure con altri tipi di stordimento. Ancora le corse a ostacoli, ancora gli indovinelli, ancora firme, ancora convalide, ancora e nonostante. Alle stanchezze il posto d’onore. La danza dei fantasmi, l’orgia dei cretini. Alcuni dictat insopportabili. Una bolgia assicurata. Alleluia!.  
Quarantaquattro gatti, in fila per tre, sotto la panca, insieme alla capra e agli scorpioni. Maramao, quante volte sei morto? In quali ospedali ti hanno ricoverato? Ingombrante, imbarazzante Maramao, diffamato e perseguitato Maramao.
Navigo senza logica, rallentato, mi lascio portare mentre tutto rotola, scivola intorno. Mentre rimango ebete a subire lo scatenarsi delle parole, un giochino si forma sopra gli occhi e avvelena la mente, si prende il mio spazio vitale, deridendo qualsiasi volontà, intelligenza ed intenzione. Un demente fra dementi, immaturi, vittime quanto basta, potenziali improvvisati assassini. Un giochino tortura vecchio quanto gli anni che mi porto addosso.
Le vetrine, le bambole viventi di carne e di plastica. E adesso il regno degli gnomi., le catacombe, le smorfie, le calende greche e un esercito di parole sconosciute, canterellate, distorte. Cosa voglio esattamente dire non so. Non sono pronto a solcare il domani, non sono adatto. Adesso solamente le aragoste in motocicletta, i misteriosi occhi luminosi, i vigili urbani a braccetto con i caimani, per sempre complici.
Come saranno fatti gli extraterrestri? Vorrei vederli, vorrei conoscerne uno. Magari io stesso lo sono, quello che per strada incrocia il mio sguardo con il cappello in testa, il poliziotto pronto troppo facilmente ad abbattermi a manganellate, quella figura che appena s’intravvede nella macchina blu. Gli uomini con la pelle diversa, i deformi, quelli con la coscienza pulita. Ed ora e ancora, la gioiosa ballata delle gonne a fiori e nastri nei capelli, il sorriso degli zingari, i coltelli e la musica, le lapidazioni, le ingiustificate e pericolose inversioni di marcia, i pensieri a quadretti, tante donne e altrettanti semafori, i finti ricordi, l’aranciata, l’irresistibile desiderio di finire schiacciati da un treno. E allora e dunque… Pelle figlio di Apollo, pelle gran figlio di puttana giocava a palla nel mezzo dell’incrocio. Pelle con il cranio fracassato investito dal tram. Voleva morire e non aveva più nulla da perdere. Nessuno l’ha voluto soccorrere d’altronde. Pelle un invisibile barbone, un disadattato, un pazzo furibondo, un non meritevole, mondezza qualsiasi. Una cascata di idiozie che non riesco a fermare, così per ore ed ore.
Mio fratello nero ucciso e torturato, Maramao pederasta ubriaco perso e mitomane, mentre il giorno diventa notte, mentre il tempo passa e si burla di me, non si ferma per farmi salire. Peggio per me che sono un inguaribile distratto, peggio per me che a volte sembro di possedere un cervello più piccolo di quello di un topo. Il tempo passa, l’orologio non aspetta e cammina, va a rotta di collo l’orologio, mastica tutto e ricorda sghignazzando che l’ora finale è sempre più vicina, è questa. Nessuna intelligenza come avrei voluto, nessuna specifica volontà. Mi lascio portare, sospeso e galleggiante. Nudo e storto, steso e demotivato, pigro e lontano dalle cose da farsi. Ammalato, per gioco esagerato. Vago, sempre più vago. Tre per quattro nemmeno mi torna, ventiquattro più sedici è un’operazione impossibile, estenuante ed inutile. Anni ed anni inchiodato su queste cantilene a immaginare l’eroe invincibile, l’illuminato, il saggio, la vittoria, la marcia trionfale nella più grande e fetida discarica della città. Districarmi non posso, nemmeno andare al bagno, alzarmi per bere un caffè, per fare un passo dopo un altro passo. Nemmeno pensare alle cose da fare, che rimangono sparse sul letto, scarabocchiate, pronte soltanto a giocare con me.
Il cambio delle lenzuola, l’ufficio postale, l’esattoria comunale, le analisi del sangue, il controllo delle urine, la planimetria, le rate, le multe, la spesa laggiù oltre il ponte, la telefonata importante, la raccomandata fin troppo rimandata, le mutande da buttare, le camice da piegare, il libro da leggere, il cassetto da aprire, il concetto da ribadire, la porta da chiudere, il disordine della pancia che grida vendetta, quel sogno da dimenticare, la penna da trovare. Nulla di fatto, cantilene e nulla di fatto. Navigare a vista e senza volersi alzare, tutto in un unico immobile stupido sogno, senza ne capo ne coda. Sono condannato a girare in tondo, baloccarmi, perdere il tempo mio. Non ho il coraggio, non ho le palle, non so distinguere. Ritornelli, giri insulsi di parole quelli si, ne sono schiavo, mica so smettere, per giorni e giorni, fino ad addormentarmi per noia e fatica, senza poter tirare nessuna somma che tutto si è dissolto. Sono qualcosa che non sono.
Quarantaquattro gatti in fila per tre col resto di due. Maramao continuamente e sempre, infilato nel non vero, un cartone animato, teneramente depresso, vuoto, deviato, cattivo risultato di un progetto inconcludente e maligno. E il giochino si ripete specialmente verso le sette di sera, parole tutte in fila e dette senza prendere fiato. Imperscrutabile, inalienabile, irraggiungibile, insostenibile, irraccontabile, inappellabile, inafferrabile, impercettibile. Ho preso il via, canto l’idiozia.
Io nelle parole che non servono, che si divertono a giocare con il loro contrario e mi lasciano al palo, diventano metastasi, si moltiplicano, mi imbambolano nella terra di nessuno. Aspetto, non so che cosa, ma aspetto che il tempo si diverta, mi passi su per il sedere, s’infili, inabissandosi e mi sporchi le vene, riempiendo di pus la voglia di vivere Il tempo che infetta il tempo!
Aspetto e non riesco a vedere il domani, non riesco a temere la sua crudeltà, perché non riesco nemmeno a rendermi conto.
Le code dritte dritte, in fila per sei col resto di due. Tre galline sul comò e il resto è nebbia. Il debito pubblico, il disavanzo, l’invenzione della crisi, chi infierisce, chi gira il dito nella piaga, chi sputa e chi predica. È cosi che provo a non pensare al pozzo buio, giocando, non comprendendo, urinando e continuando ad urinare, non raccapezzandomi realmente. C’è chi si uccide chiuso in casa e disperato, chi si da fuoco in piazza. E io cosi faccio finta di essere salvo, e così sia!

giovedì 20 marzo 2014

Il colore del sangue

Questa è una mattina difficile, una mattina stracolma di sconfitte, di incomprensioni, di tempi sprecati, consumati inutilmente, di talenti inutili,  gettati nella spazzatura, disillusioni.
Non ho niente da fare. Cammino, guardo senza attenzione, attraverso la strada in una direzione qualunque, l’unica percezione che ho, a tratti, è quella della pelle, la carne, la mia, i muscoli che si muovono, che spingono il mio corpo in avanti in una direzione a casaccio. Sono in balia, spinto dal mistero affascinante del sangue che circola, spinto dall’automatismo del cuore. Seguo il mio ventre che avanza.
Entro in quello che potrebbe essere un bar, lo attraverso ed esco senza guardare, qualcuno mi chiede ma io questa mattina riesco ad ascoltare solo qualcosa dentro di me che continua a pulsare forte, è questo battito che mi conduce, dove ancora non so e poco m’importa. Arrivo sul ponte, il “ponte degli angeli” si chiama, dominato da due file di grandi angeli di pietra, severi, poco rassicuranti, a difendere il castello che si trova di fronte, la fortezza di sua Santità il Papa, quello con le pantofole di raso rosso e la croce di oro pesante. Così distanti e diversi sono questi angeli da noi che sotto di loro passiamo !
Ma qualcosa di diverso questa mattina succede, riesco a vedere me stesso camminare, lo vedo dall’alto, da sopra di me. Un altro me stesso  mi osserva e mi vuole indicare ? Distinguo bene la mia testa, la faccia magra, gli zigomi appuntiti, troppo, la barba incolta, gli occhi inquieti, sfiduciati, che non cercano più, che volevano essere, che non hanno trovato. La vena che attraversa la fronte da un lato all’altro, sempre gonfia e tesa, il collo e le mani, rovinate dagli anni, il colore scuro della pelle degli avambracci, rovinato dal sole. Mi guardo camminare, io umano, di carne e di sangue, attraverso il ponte  e mi dirigo verso un gigantesco portone. Un portone che sta lì ad aspettarmi.
Altri nasi, altri occhi, altre ginocchia, altri gomiti fanno la fila per entrare. Una mostra di quadri, una cosa importante. Finisco in quella fila ed entro con loro. Di quale pittore si tratta questa mattina non mi importa, lascio che tutto vada, mi affido alla corrente. Grandi sale, una di seguito all’altra, piene di gente, bella gente davvero, concentrata, fronti e zigomi e nasi intelligenti indubbiamente, che guardano ipnotizzati immagini, rinchiuse nelle tele che attirano immediatamente dentro se stesse occhi e cervelli, anche io sono risucchiato senza ancora sapere chi e cosa. Facce, corpi, carne, illuminati da fasci di luce che li rendono più veri, più materiali, come fossero lì, in mezzo a noi, affianco a me, riesco a sentire il loro respiro, i loro lamenti, le loro grida di dolore. Riconosco addirittura facce che mi sembra di avere incontrato ieri mentre vagavo per i vicoli della città vecchia. Uno di loro, con la barba bianca, lì occupato a raffigurare un martirio, già messo sulla croce, mi sembra proprio, anzi sono sicuro che lo sia, il padre del tabaccaio sotto il mio portone. C’ è scritto che si tratta di san Pietro. Pure quei quattro ceffi che giocano a carte, con le loro facce da imbroglioni illuminate da un raggio di luce che non li addolcisce di certo, sono identici ai miei compagni di gioco e di sbronze, è curioso, ma è proprio così. E quella donna lì, che gli intelligenti accanto a me identificano come la Maddalena, la donna di malaffare innamorata del Cristo, ha proprio la faccia di una puttana che conosco bene, profondamente e da lungo tempo. Sono sorpreso.
Guardo meglio, mi avvicino di più, sgomitando e spingendo. Sono davanti e questa volta leggo,. La resurrezione di Lazzaro. Dal buio emerge una scena da brivido. Il morto è molto morto, sorretto da altre braccia e facce altrettanto spettrali.
Mentre lo guardo affascinato e contemporaneamente a disagio, un visitatore o forse una guida o cos’altro non so, si avvicina dietro di me tanto che posso avvertire il suo alito sgradevole, e vuole dirmi e spiegarmi con una voce arrugginita.
    _    Ti piace ? Si che ti piace. Ti mette paura ? Ci conto…_
Mi giro, ha i capelli neri e lunghi, ispidi e sporchi, la barba è nera, neri ma di fuoco sono gli occhi, vorrei scansarmi e rispondergli male. Di cosa s’impiccia ?
    _   Guarda Lazzaro, ho dipinto un vero cadavere _
 Chi ? Che cosa ?  
    _    Mi sono fatto dare una stanza in un ospedale qui vicino per dipingerlo, ho chiesto e pagato un cadavere vero come modello, scatenando un putiferio, non lo volevano più il quadro, i modelli offendevano la religione andavano dicendo, ho provato anche a distruggerlo preso dalla furia _
Delira o e’ bene informato questa faccia da delinquente, e me lo racconta pure come se l’avesse dipinto lui. Pure il matto ci mancava ! Non so cosa rispondere e mi voglio assolutamente allontanare, ma mi acchiappa un braccio e mi trascina  davanti al dipinto che segue.
    _    Guarda, a causa di questo dipinto hanno cominciato a dire che mi piacevano anche i ragazzi, non è così, e poi proprio loro mi insegnano la morale, i preti. Io racconto la vita, il Nazzareno, e la mia, difficile e piena di peccati inevitabili._
Guardo per la prima volta la data del quadro, milleseicento e rotti, c’è qualcosa che non va in questo qualcuno che mi sta alle calcagna, mi divincolo, mi infilo fra altri, mi confondo fra di loro, ma ancora non è il momento di andarsene.
Leggo. Adesso mi trovo davanti alla Decollazione di Giovanni Battista.  Tenendolo per la testa, un aguzzino, armato di pugnale e pronto a dare il colpo di grazia, tiene schiacciato in terra il corpo del pover’uomo,  il rivolo di sangue che scende dal suo collo mozzato sembra una firma, quella del suo pittore, l’evoluzione lenta della terribile scena è osservata da altri dietro le sbarre di una finestra del carcere, ed una donna è pronta a raccogliere in un cesto la testa del giustiziato. Rimango immobile anche io ad aspettare che l’esecuzione sia completata.
Il matto riesce ancora a scovarmi, mi è un’altra volta dietro, mi acchiappa una spalla e stringe forte, si è fissato con me, che non riesco, davanti a questo quadro, a muovere un muscolo, io come il Battista, sento di essere in trappola.
    _    E’l’unica firma, con il sangue, sulla mia testa c’era una condanna a morte, il Papa mi cercava, voleva ammazzarmi il Papa, avevo ucciso per difendere, per amore, avevo ucciso per difendere l’onore, ero costretto a scappare, a scappare sempre, sento nella tua carne che tu puoi capire _
Io tento indubbiamente di difendermi.
    _    Ma chi sei, ma cosa vai cercando ? _
Allora mi gira con la sola forza del suo braccio verso un altro dipinto, incurante delle intelligenze a noi accanto che sembrano non poterlo vedere.
La terribile testa mozza di Golia con la sua smorfia dell’ultimo e definitivo dolore, mi si para davanti.
    _    Sono io, sono la vittima di una religione sbagliata, cattiva e corrotta, sono l’ultimo dei figli di Dio, sono un’infelice fratello del Nazzareno. Io che ho osato raccontare e dipingere il mondo degli ultimi, e perseguitato per questo. Guarda ancora, guarda bene, lo so e lo sento che tu torto non mi puoi dare, hai una croce di legno appesa al collo con un pezzo di corda _
Si, la mia piccola croce francescana della fratellanza e dell’umiltà, un buon proponimento, una ridicola speranza di un me stesso migliore. I suoi occhi da pazzo visionario adesso si infilano di prepotenza dentro i miei, possedendomi fino in fondo, fin dentro l’intestino. Il suo fiato di morte, in guerra con il profumo dolciastro di una giovane donna che, in adorazione plastica, osserva anch’essa la testa del Golia e sospira estasiata e frusciante nella sua gonna allegramente colorata.
Allora scappo ancora.
Infilo con violenza il mio gomito destro nel fianco della donna, urto, spingo, pesto, arretro, quasi cado, attraverso tutte quelle gole, quelle braccia, quelle facce dipinte furiose, adoranti, disperate e sofferenti,  vado a ritroso in cerca dell’uscita. Penso a me stesso penso, alla vita che sconti non me ne vuole fare, che al varco mi aspetta, che spia ogni mio minimo errore, che ride dei miei peccati, che m’insulta. Penso al dolore dell’incomprensione. Maledetto pazzo, proprio oggi dovevo incontrare quella testa mozzata.
Guadagno l’uscita, respiro e mi dirigo di corsa verso un’antica vineria di fronte con tanto di tavoli di legno marcio e sbilenco, un forte odore di vino cattivo e un padrone, un oste sgarbato oltre una decente misura. Per non pensare fa al caso mio. Ordino un litro di piscio di cane come l’oste lo chiama, e mi assento.
Ma il pazzo eccolo qui, ha un mantello nero che non avevo notato prima, è un corvo e mi cerca, viene dritto da me, quasi rovescia un tavolino di due anziani impegnati in una interminabile partita di scacchi, mi ha stanato e mi è addosso, si siede e acchiappa il mio vino. L’oste indispettito commenta.
    _    Eccone un altro ! _
Senza aspettare che io provi ad aprire la bocca. La testa mozza mi ripianta gli occhi addosso e ricomincia il suo delirio.
    _    Sei scappato, non sei rimasto estasiato come gli atri? Hai avuto paura, hai pensato a te stesso ? Chiedi altro vino che ho sete, in questa osteria ci venivo con la mia spada, qui ho picchiato, qui mi hanno anche arrestato, la stessa chiesa per la quale ho consumato la mia arte e i miei anni. Mi ha dato da vivere e poi tutto mi ha tolto, i miei colori la imbarazzavano. Ho sete ti dico, tanto adesso il vino mi scende nella gola e se ne va, non si ferma.  _
L’oste arriva con un’altra bottiglia e un’altra ancora, io sono vinto, costretto ad ascoltare ancora il delirio di un matto. Ed è implacabile nella sua tortura.
    _     Te lo leggo negli occhi che vuoi sapere, che potresti essere, che sei un mio fratello e il compagno sicuro delle mie notti esagerate. Che dici è così, che dici ? _
Si sgargarozza ancora il mio vino, alza di più la voce, tanto qui dentro nessuno sembra ascoltarlo, con i gomiti piantati sul tavolo si aggrappa di più a me che sono costretto a guardarlo e ascoltarlo senza nulla aggiungere. E allora che vedo sulla sua faccia una cicatrice profonda.
    _    Era dura la vita, ti dovevi difendere da tutto e da tutti, dovevi avere il tuo pugnale e la tua spada. Le sottane nere approfittavano di ogni pretesto per farmi minacciare, per farmi rinchiudere in carcere, è qui vicino lo vuoi vedere? Tor di Nona si chiama, lo conosci? Adesso al secondo piano, dove hanno rinchiuso me, si è affacciata una bella signora, piena di ricci e di spocchia, una casa dei ricchi è diventato quel maledetto posto di torture_
Sputa per terra, si riattacca a una bottiglia nuova.
    _    Le sottane nere mi davano da dipingere, e quindi da vivere, ma siccome i miei quadri erano belli e imbarazzanti, e siccome con me in prigione o morto sarebbero di sicuro aumentati di valore, ci davano dentro, mi facevano seguire, mi facevano arrestare per uno starnuto, mi hanno fatto addirittura sfrattare di casa, così, con l’inventario delle quattro cose mie, il mondo ha saputo quanti libri, quanti piatti, quante le posate…insomma un poveraccio, uno che con le sottane, e i cardinali non s’era mica arricchito _
Un ubriaco, con la testa sul tavolo in fondo all’osteria, si risveglia  all’improvviso dal suo sonno, si alza traballando e sbandando, tira giù la sua sedia, chiede sbraitando altro vino, si gira verso di noi, minaccia, impreca, ricade in dietro sul pavimento, nuovamente nel suo alcolico sonno, intossicato da quel cattivo piscio di cane. Il mio matto sobbalza dalla sedia, mette mano alla cinta sotto il curioso mantello nero, cerca il coltello ?
    _    E’ quello che ho ammazzato, è proprio lui, e certo, non ho il coltello adesso. Mi dovevo difendere e l’ho fatto, voleva sposare la mia puttana e portarmela via, hanno detto qualsiasi cosa, i francesi, gli spagnoli, le bande. Ma quali bande ?. E così e’ arrivata pure la condanna a morte e la fuga continua, laggiù, fino alla spiaggia, mi hanno stremato, i preti hanno vinto _
Anche a me quel gigante ubriaco pare una faccia conosciuta, non l’ho mica ucciso, c’ho solamente discusso una notte, ad un semaforo rosso. Oppure c’è altro ? Il mio matto ora è in piedi, si tracanna quello che resta del vino, che evidentemente dentro la bocca non gli va a finire, ma tutto a fracicare il tavolo, e scappa via, senza degnarmi di un saluto, va via con il diavolo in corpo. Anch’io mi decido ad alzarmi, non prima di avere osservato di nuovo l’ubriaco dormiente con al faccia sul tavolo, una faccia che mi turba non poco.
E, invece di continuare la mia vagabonda passeggiata o tornarmene a casa, rientro senza starci a pensare nella mostra, ripago il biglietto, mi fermo però questa volta a leggere date e fatti, robba mica di ieri! E mi dirigo verso un dipinto, forse l’unico al quale non avevo fatto caso prima. Le Sette Opere di Misericordia mi appaiono davanti,  tutto in un vicolo stretto e buio. Il nobile che offre il suo mantello al mendicante, lui mi assomiglia proprio. Lo guardo ancora fisso, ma perché e come mai ? Io, proprio io senza alcun dubbio. Vado avanti, mi sposto e mi metto davanti a quelli che ancora guardano estasiati, ancora io, protetto dalla penombra, in altri dipinti, un sosia e sempre lo stesso modello. Devo ammettere che sono confuso,  alcune immagini, qualcosa che affiora dal buio, ancora prima di quello dentro la pancia di mia madre. Il nome Mario, Mario Minniti mi riaffiora nella mente da chissà dove, e si ripete e insiste. Tutto comincia girare, chiudo gli occhi, barcollo, faccio qualche passo scomposto in avanti, pesto altri piedi infastiditi ma non mi curo delle proteste, riapro gli occhi e vedo di fronte a me, in fondo, una ennesima sala, mi avvicino, molta gente è seduta ad ascoltare, parlano del pittore. Disquisiscono, informano, si fanno belli del loro sapere. Il mio matto è lì, tornato anche lui, seduto nell’ultima fila, e io che faccio, mi do la zappa volutamente sui piedi, mi ci siedo accanto.
Cerco di evitare  di guardare i suoi occhi che mi fanno venire il bruciore allo stomaco, gli domando secco.
    _    Che dicono qui? _
Si gira soddisfatto, come se lì mi ci avesse chiamato lui
    _    Eccolo l’amico mio di sempre. Che dicono ? Parlano di me, hanno studiato, si sono dati da fare finalmente, hanno capito che ne vale la pena e quello che mi meraviglia che sono pagati per farlo, e più lo fanno più il valore della mia pittura sale verso le stelle. Troppo tardi per me, potevano darsi da fare prima ! _
Mi sento sulle spine, sono convinto che adesso qualcuno si accorge del delirio ad alta voce, ma non oso azzittirlo.
    _    Quello pelato, al centro sta riferendo sulla mia morte, del perché, di dove le mie ossa sono andate a finire. Dice che forse la malaria non c’entra, ma forse, e non so che cos’è, la sifilide, oppure avvelenato dal colore, dalla mia stessa arte, questa è bella, questa mi ha sorpreso non poco. Secondo il pelato mettevo il cibo su una tela vecchia, senza piatto, così com’era, un barbaro insomma. E perché no il suicidio? Dopo tutto di fuggire ero stanco.
Ed anche l’omicidio, la chiesa mi avrebbe finalmente raggiunto su quella spiaggia maledetta e regolato i conti di un imbarazzante modo di raccontare il Nazzareno. La leggenda di un mantello nero ritrovato e le ossa dentro una scatola di legno, il ricordo fasullo di una sognante e bugiarda signora _
Si gira verso una donna seduta accanto a lui, vestita di fino, con le labbra lucide di rossetto splendente e due belle cosce di fuori,  la guarda con disprezzo famelico.
Ho paura che gli voglia mettere le mani addosso.
Ho paura che adesso lo buttino di forza fuori dalla sala, ed io con lui.
_    Anche questo posto è pieno di puttane ? del tutto uguali a quelle che portavo nel mio letto. Questa qui la dipingerei in un quadro_
Mi acchiappa un braccio con una mano arrabbiata e ricomincia a voce alta il suo delirio.
    _    E poi delle mie ossa hanno parlato, sono a andati a buttare all’aria un cimitero, a smucinare nei miei antenati, a prendere la loro saliva per confrontarla, hanno scelto, rovistato, scartato, deciso che miei sono sicuramente due pezzetti di ossa contaminati dalla blacca, il colore e il suo piombo. Il cadavere numero 5 sono per loro_
Si alza in piedi incendiato.
_    Bravi, tutto può essere, bravi !_
E ripiomba a sedere quasi addosso alla signora che gli siede accanto, che si scuote, che qualche fastidio lo avverte, le mani antiche del matto sono troppo vicine. Tira in avanti la gonna, scosta le cosce da un lato, sistema meglio il suo sedere ingombrante.
    _    E io non posso e non voglio confermare, altrimenti la mia fama si ferma, che dicano ancora, che finalmente si sappia la poco onorevole fine che mi è toccato fare _
Adesso va a cercare gli occhi della signora accanto.
    _    Se io fossi ancora di carne ! _
Si piega in avanti, si gira e mi guarda con gli occhi di fuoco. Io dalla bocca schiumo saliva.
    _    Adesso ti ricordi amico mio, Mario, ti ricordi ? La camera dell’ospedale che hai preso per me, e il cadavere per fare da modello? Quante volte hai posato per me Mario? E il tuo pugnale, nelle liti notturne ? Ciao fratello, adesso devo andare, che i professori si devono arricchire, si abboffano adesso della mia arte._
E adesso se la ride beffardo
    _   Ti saluta Michelangelo Merisi, detto anche il Caravaggio, e tu, ricordati chi eri _

Il mio pazzo si alza, si chiude nel suo mantello nero e, passando attraverso pance, ginocchia, calze a rete e toraci, esce dalla fila di sedie e scompare.

martedì 24 gennaio 2012

Valery

Caro Antimo, credo che qualcosa per te stesso tu a questo punto la debba proprio fare, continui ad agitarti dentro di me e questo mi crea disagio, dolore e anche imbarazzo, le tue visioni non mi vogliono concedere tregua. Erano divertenti all’inizio, un gioco ogni tanto, un volare fuori del consentito, per staccarsi dalla realtà, per riposarsi la mente dalle fatiche della orribile concretezza, dalla noia di quel marciare, quell’ubbidire ebete alle ore, quel ritmo che ne io ne te abbiamo mai particolarmente apprezzato. Certe sere, certe notti, era dolce lasciarsi andare e farsi trasportare nel fantastico, nello ironicamente inventato da te, che in questo sei sempre stato un maestro. Tu m’incoraggiavi a spintoni ad aprire quella parte di me restia, e guardinga, non pronta a volare e paurosa delle emozioni che non si trovano nell’elenco. Ma poi hai finito per trascinarmi in un curioso universo per me troppo audace, non tenendo conto che stiamo vivendo l’uno dentro l’altro, e se tu ti metti a sparare fuochi d’artificio io non posso restarne fuori. Il tuo inconscio è incastrato nel mio, questo dovresti saperlo.
Hai cominciato per gioco e adesso hai perso il controllo, la tua realtà è stata invasa senza che  tu possa mettere un freno, hai perso il controllo della tua mente ed io rotolo con te, penetrato dal tuo delirio, ma, mentre tu probabilmente ti diverti, io accuso colpo su colpo, resto indietro, mi agito, accuso un disagio e un dolore sempre più fastidioso. Fermati ti dico, controllati, ricordati che solo non sei, perché i tuoi divertimenti possono diventare per me vere e proprie torture.
Ricordati, era poco prima dell’alba, qualche mese fa.
Ero ancora nel pieno del sonno, guadagnato come sempre a fatica perché la sera tu non stai mai fermo e hai sempre bisogno di parlare. All’improvviso, quando era quasi giorno sei uscito fuori dal mio torace, hai aperto un varco ed hai tirato fuori la testa, spalancando gli occhi. Un sogno, che cos’era? Una delle tue solite visioni?.
Sei uscito completamente fuori da me provocandomi come al tuo solito un risveglio doloroso e violento. Volevi parlare, come al solito volevi svegliarmi.
    _    Annaffiava i fiori qui sotto, mi ha visto passare, mi ha salutato, ha i capelli rossi e gli occhi luminosi, le ho chiesto il suo nome, mi ha sorriso rientrando in casa, è bella, dietro la sua porta a vetri mi ha guardato ancora. Contemporaneamente, nel medesimo istante, è apparsa anche alla sua finestra, al secondo piano. Le mie gambe non potevano muoversi, lei muoveva le labbra da la su ed io le sentivo sfiorare le mie _
Ecco, ero sveglio, ci eri riuscito, un altro delirio?
    _    Contemporaneamente ? Antimo, come sarebbe a dire ?_
    _    Non lo so, ma così è, l’ho vista contemporaneamente in due punti diversi della casa, ma poco m’importa _
I soliti sogni di Antimo, si divertiva a svegliarmi così.
Comunque il sonno è stato interrotto e non intendeva tornare, anche se dolorante ogni volta che Antimo si sfilava da me così all’improvviso, tanto valeva alzarsi e preparare il caffè, anche per lui ch’era già in cucina e guardava fisso verso la finestra. Mentre il caffè saliva e io mi adoperavo davanti ai fornelli, lo sentivo parlare sotto voce.
    _    Va bene scendo, adesso arrivo _
    _    Ma dove, il caffè è quasi pronto, Antimo dove vuoi andare?_
    _    E’ lei, alla finestra, ha un collo lunghissimo e meraviglioso, mi ha detto di scendere a vedere l’alba davanti al lago _
Allora perdevo la pazienza, mi giravo a guardare, fuori alla finestra non c’era nessuno, d’altronde non era possibile, raggiungere addirittura il terzo piano, un collo lungo così non era immaginabile.
Solita storia !.
Antimo, usciva e andava. Mi affacciavo allora e lo vedevo attraversare la strada da solo verso il lago.
Non ci stava con la testa un’altra volta ancora, anche stavolta si voleva innamorare del nulla, un’altra donna fantasma fra me e lui,ma anche io cominciavo a pensarla pur sapendo che quasi sicuramente si trattava di un gioco.
Valery, come sarà? Un collo così lungo? Ma come era possibile? Sentivo anche io, se chiudevo gli occhi, le sue labbra col sapore di buono, umide, giovani. Ma chi era? Se abitava qui vicino come mai non l’avevo mai vista? Ma no, stavo cadendo ancora nella trappola dell’immaginazione di Antimo. Valery un nome inventato. Sentivo le sue dita però, che mi toccavano una spalla e si allungavano, si ramificavano, scorrevano, frugavano.
La porta si apriva, Antimo era di nuovo in casa, quanto tempo era passato non posso dirlo con sicurezza, forse addirittura già sera. Si sedeva in cucina e voleva raccontarmi.
    _    Mi ha portato a vedere l’alba, mi ha preso per mano e mi ha convinto ad entrare nell’acqua con lei, siamo andati avanti e avanti, verso l’acqua profonda, ero sorretto da lei, fino verso il centro del lago, ho intravisto due splendide gambe lunghissime color madreperla camminare sul fondo, sembra incredibile ma è proprio come dico. Abbiamo parlato di tante cose, del suo bellissimo lavoro. E’ una scultrice, scolpisce il suo mondo immaginario, si mischia al suo mondo e lo modifica, lo modella, riesce a trasformare se stessa , a entrare nella vita intorno  per capire i segreti e ricopiarli. Siamo tornati a riva, mi ha sollevato dall’acqua e posato sotto un albero, ho visto le sue braccia mischiarsi al legno dei suoi rami, i suoi rami che poi mi hanno stretto, abbracciato _
Non potevo farlo continuare, non potevo, altrimenti, anche questa volta il suo delirio sarebbe diventato il mio, già mi sentivo il lungo e magico corpo di Valery addosso, forse ero già innamorato e vittima di un incantesimo. Mi ribellavo, il giorno se n’era andato, mi rifugiavo nel letto.
Dalla mia camera lo sentivo ancora parlottare in cucina, in pieno delirio, ma non riuscivo a capire quello che stava dicendo, ancora con lei. Lo lascio fare, anche questa volta gli sarebbe passata e sarebbe tornato il mio Antimo di sempre. A notte fonda entrava in camera e nel letto e mi diceva.
    _    L’ho portata con me, devo, lo voglio, a questo amore non posso rinunciare _
Mi rientrava dentro e si apprestava a dormire, senza aggiungere altro. Con lui, senza che io potevo in alcun modo  oppormi, Valery si prendeva uno spazio suo dentro, fra il fegato e il mio rene sinistro. Adesso sentivo muovere ambedue, si toccavano, si accarezzavano, si baciavano, si accoppiavano, tutto dentro di me, senza esitazioni. Le lunghe dita di lei salivano fino alla gola, stringevano e tutto si annebbiava.
Amtimo sussurrava, quasi dispiaciuto.
    _    Perdonami, ma è arrivato il momento di separarmi da te, tu non accetti i miei sogni _

venerdì 13 gennaio 2012

Pape Satan

Finalmente sono riuscito a cancellarla dalla mia rubrica e dalla mia memoria, l’ho spolverata via dalla mia pelle in modo definitivo
    _    Cosa è successo ? Aspetta prima di rispondere, chiudi gli occhi, respira profondo, riapri gli occhi, parla ora _
Ci provo, mi viene da  vomitare, forse mi arrabbio, non so se riesco a ricostruire per intero. Si tratta dell’origine dei miei problemi di testa, è stata una storia importante, troppo, e insieme un’assurdità, direi una cattiveria, roba da manicomio. Una roba capace di rovinarmi per tutta la vita, condizionarmi, rendermi fragile, facile vittima delle tempeste psicosomatiche, scatenarmi tic nervosi, fobie, silenzi, bugie, alcolismo e tossico dipendenze. Non sto esagerando, ho paura perfino di raccontare, perché così sarò ancora in mutande, pronto e in posizione favorevole per essere preso a schiaffi ancora. Lo devo fare? Lo faccio.
L’ho incontrata in una strada dritta, lunga, assolata, nell’isola più bella del mondo, dove tutto è perfetto, dove la bellezza è la sola parola d’ordine, però dove l’inganno e l’apparenza è una caratteristica sconcertante e sempre in agguato. Cielo meraviglioso, cosce meravigliose, scogli e labbra da sogno, orologi e collane, la straordinaria perfezione dei sederi. E poi quella strada dritta inondata di caldo e lei, maglietta e pantaloni neri, occhi e capelli neri. Un buco, un virus nell’estate torrida, un punto esclamativo armato di tutto punto, sorridente, affilato, irresistibile, giovane e con il corpo scolpito e levigato per farsi vedere e toccare. Ecco il mio miraggio, ecco l’occasione per infilarmi dentro la giovinezza sul serio, l’occasione per scuotermi e svegliarmi dalla mia apatia malattia.
Si perché vivevo nella gelatina, avevo le acne e gli occhiali mi scivolavano sul naso reso viscido dal sudore. Le donne non sapevo come toccarle, a loro non sapevo cosa dire, e nude mi facevano venire la tremarella. Ed ecco la Giunone sorridente apparire dal caldo.
    _    La maglietta ha lo stesso colore dei tuoi capelli _
Più stupidaggine di così non gliela potevo dire, ma le sue mani affilate già mi sfioravano le spalle. Chi era, come mai era apparsa? Una nave scuola, una specie di angelo, un regalo per me che ero in ritardo su tutto, che non sapevo e non mi accorgevo, che barcollavo nella nebbia sessuale e esistenziale soprattutto. La sua pelle era liscia e profumata, le slabbra promettevano l’estasi, a me che l’estasi l’avevo sperimentata solamente nella solitudine chiusa a chiave del mio bagno. La sua peluria nera come la pece, con riflessi addirittura blu, mi avrebbero guidato e preso per mano nelle strade del mondo, mi avrebbero finalmente insegnato il come si fa e il come si dice. Finalmente in piedi e a schiena dritta, dopo che lei, con un sorriso non esageratamente palese, mi montava sopra e m’insegnava, m’inondava di speranza, m’inoculava autostima…si ma insieme a lei e basta. Bastava un pomeriggio da solo a fare ingrippare il meccanismo, ad anestetizzare tutte quante le mie risorte aspettative. E allora senza mutande il prima possibile, ovunque era possibile, per trovare la forza addirittura di finire gli studi, per prendere la patente, per cercare un altro efficace rimedio contro le acne, per un discorso intelligente, per un alto pensiero. Mentre si agitava su di me e mi guardava fisso, la vita mi riscorreva dentro, potevo ancora sognare un programma, immaginarne le varianti, il successo, gli applausi, la comprensione e la stima della mia famiglia tutta, a cominciare dalla governante. Per farmi venire, qualcosa mi diceva, il mio inconscio se lo ricorda ancora.
Pape Satan, mi andava dicendo. Un fiume tiepido sentivo scorrere da lei a me. Non era mica finita li, ancora nuda si metteva a suonare la chitarra, cantava canzoni di vittoria e di conquista dei miei sensi dipendenti e assuefatti a quella magica altalena. Voleva che cantassi insieme a lei, lei la conquista ed io la resa.
    _    Descrivimi meglio com’era, una sua fotografia, un attimo imprigionato nel tuo cervello, una resa. _
Tre fotografie, le solite, ingiallite e logorate, ma eterne, le uniche tre. Lei appare vestita con una gonna blu, con una giacca leggera e bianca e dei sandali bianchi anche loro, i capelli in balia del vento che le coprono in parte il viso e dietro di lei l’acqua, calma rassicurante e minacciosa nella stessa misura, che mi vorrebbe avvertire di un qualche spaventoso epilogo, se io solo fossi in grado di interpretare, ma i fili di burattino nelle tre fotografie non appaiono. La sua splendida voracità capace di muovere e far danzare tutto dentro di me, dalla milza alle caviglie, si nasconde e si confonde, nel panorama che mi ha suggerito di costruire. Una bella mattina senz’altro. Pape Satan mi mormorava mentre la fotografavo, e il vento l’aiutava.
    _ E quella sera?_
Dovevamo andare al cinema, una sera di fine estate, ed un inspiegabile rifiuto mi usciva incontrollato e ribelle dalla bocca, ma non tanto convinto e per nulla imperativo, un rifiuto debole, nemmeno il risultato di un pensiero preciso, facile da sconfiggere. Eravamo in macchina, fermi, sottocasa di mia madre. Al buio illuminato da un unico e fastidioso e ammalato lampione, la sua voce cambiava e così il suo aspetto, mi accorgevo per la prima volta di una orribile gobba che le deformava il naso,  gli zigomi spigolosi, appuntiti, le mascelle serrate, un altro colore della pelle, una voce profonda, spezzata, che non prevede repliche. Mi lasciava, si staccava da me, le dava fastidio il mio alito pesante, mi respingeva, le mie lacrime la facevano tremare di rabbia. E una dopo l’altra le mie incapacità mi ritornavano addosso, mi rientravano dentro probabilmente dalle narici, improvvisamente mi ritrovavo a respirare impotenza, ricordavo tutto quello che, sotto di lei, avevo dimenticato. L’inadeguatezza, i miei pensieri fatti di nulla, le gambe e le braccia inutili, le mani disperse e confuse sull’asfalto della strada, il cuore che batteva a casaccio. Il tentato suicidio di mio padre, in macchina, in una notte identica a quella che stavo vivendo, e le mie bugie endemiche, e la rabbia nei confronti di un mondo che non voleva aspettarmi.
    _    Va bene, andiamo al cinema allora _
Del tutto inutile, una punizione, una sentenza irreversibile, una enorme montagna di fango già tutta addosso a me che pietosamente chiedevo, invocavo un perdono di qualcosa che non avevo ne capito e ne commesso, che non sapevo nemmeno cos’era. Lei, il boia accanto a me, voleva essere riaccompagnata a casa e scomparire per sempre. Cosi, all’improvviso, mi aveva reciso una vena, fermato il respiro con una mano premuta contro il collo per impedire di avvicinarmi, le sue ossa pesanti e potenti come la pietra, le sue dita artigli. E verso casa sua ho spinto l’acceleratore verso lo stesso muro, quel muro contro il quale voleva morire mio padre. Pape Satan avevo nella testa Pape Satan. Il volante non voleva girare.
Mio padre non voleva, il volante girava all’ultimo momento e lei, con i capelli ispidi e duri e con la faccia invasa da solchi profondi, scompariva dietro un cancello sotto un diluvio di pioggia acida. Poi il silenzio, un muro di gomma a soffocare ogni possibilità di riparlare e ripensare. Giorni interminabili e inutili, giorni pieni solamente di buio.
    _   E le hai scritto la lettera che ti avevo consigliato. L’hai rivista poi? _
Mi ha concesso solamente di farsi guardare mentre, in fretta, saliva su un autobus, il trenta sbarrato,  poi lei e il suo ricordo si sono nascosti, cicatrizzati, irriconoscibili, causandomi un piccolo ma continuo dolore ad ogni respiro. E il trenta sbarrato, che si fermava cigolando, vomitava e risucchiava e ripartiva cigolando, è diventato il mio incubo ricorrente nel sonno e nella veglia, da ubriaco e da sobrio. Per un paio di anni sono andato ad aspettarla davanti a quella fermata, ho spiato fra la folla, sono addirittura salito sull’autobus con la speranza e la paura d’incontrarla, mi sono fatto strada fra mille ascelle sudate, ho spintonato pance e sederi, ho annusato e perfino chiesto. Niente, ingoiata dalla città, niente persino al suo antico indirizzo. E allora perché non farla riapparire dentro una bottiglia di vino oppure in un’avida boccata di fumo giallastro e mortifero ?  Nella masturbazione però era troppo rischioso. Ma è successo che, pochi giorni dopo, forse subito dopo essermi allontanato dalla fermata dell’autobus, è scesa la nebbia dentro di me, scomparsi o molto confusi molti particolari di lei, collegati a lei e intorno a lei, praticamente tutto. Quindi quello che ero non lo ricordo più, me lo sono dovuto far raccontare, fidandomi di verità esterne, non della mia pancia o delle mie dita. Ed un vuoto bianco fin troppo luminoso mi è apparso nei miei sogni notturni, e un continuo rumore di traffico, di freni consumati, di accelerate improvvise, di sirene. La mattina era diventata lenta, inconsistente, inutile a viversi, il risveglio colloso ed amaro, l’inutilità del lavarsi, il fastidio del vestirsi, la paura di uscire, il rifiutarsi di ricordare. Bottiglie di vetro, talmente tante da riempire una biblioteca, ormai vuote, invitanti e minacciose, la mia medicina, il mio stordimento. Il mio respiro ed il sangue, il fegato ed il cuore, la pancia e le gambe, il mento e quello che rimaneva di pochi e deboli pensieri incollati e appiccicosi, in un nulla di fatto. Le ore, l’orologio, i desideri, i cambiamenti di stagione, in un nulla di fatto. Le ginocchia vuote, le mani rimaste aperte, sgomente, il plesso solare inutile, così come la gola, in un nulla di fatto.
    _    Tutto consequenziale, previsto, inevitabile, nessuna sorpresa! _
La fa semplice lui. E che ne dice delle fughe verso il torbido, la ricerca compiaciuta dell’illecito, il maledetto gioco della bugia più grossa ? Come fare per punire lei, il mio amore più grande? Punendo me stesso, torturando sadicamente la mia anima, giorno dopo giorno, pisciando sadicamente sull’autostima, facendo del mio corpo una ideale cloaca massima. Pape Satan, le due parole rimaste scolpite.
Niente più sesso, solo isteriche masturbazioni pensando a corpi vuoti, senza faccia, avidi di me per il loro personale piacere, non per il mio. Che stupido, lei era scomparsa nel nulla e nulla dello scempio di me avrebbe saputo.
    _    autodistruzione, autolesionismo, con ossessione e teatralità. Voglia di morire ? _
Attacchi di ansia, svenimenti finti e veri, tremori autentici, rabbia autentica, bruciante, autentici deliri, fino all’ago e il caldo nella gola, fino a quello. Il risveglio disteso sotto la luce accecante di una sala operatoria.
    _   Salve, puoi parlare ? dimmi come ti chiami. Ben tornato fra noi _
Voleva dire resuscitato, risucchiato in dietro da un tunnel scuro e invaso da melassa grigia e appiccicosa, una schifezza il viaggio verso la morte, una fucilata, sparato con una molla il viaggio di ritorno improvviso. Rieccomi a casa a recitare la gratitudine e alle prese con l’immensa stanchezza per niente attenuata dalla resurrezione. Un nuovo programma adesso, ma quale? La normalità ? Soltanto quella del gabinetto. La Resurrezione ha dei costi spaventosi…ma lei, lei non c’è, non è prevista, è addirittura dimenticata, e questa si ch’è una notizia, peccato però che, al risveglio si è portata via, insieme al disagio e al dolore, anche una grande porzione di ricordi. Devo dunque rivivere con un buco nero, e sia!
   _   Comunque una ripartenza ! _
Una ripartenza sul niente, fasulla, col nero dietro, e quindi tutto dovevo inventare, parole ma non fatti, parole disattente a pugni fra di loro, parole deboli e a la merce di qualsiasi attento ascoltatore, un passato inventato da sputtanare in un solo attimo. Un inferno simile a prima, ma finalmente di lei, di quella lei, c’era rimasto solamente il nome, un nome come tanti altri, senza riferimenti, nessuna faccia, nessun odore, nessun indirizzo ne numero di telefono, nessun corpo, nessun dolore.
Però mi rimane una casa con il pavimento celeste, ho ancora due finestre sul fiume, ho un castello e una basilica che vedo di fronte, ho, se voglio la musica…chi più di me, mi dico e me lo devo dire parecchie volte al giorno, rinforzando la domanda con le diverse marche di alcolici di diverso colore da sempre inseparabili, così mi accingo ad andare avanti dentro e attraverso gli anni. E il resto del mondo lo posso osservare sullo schermo di un computer, un bell’aiuto dentro il suo schermo, così indisturbato posso insistere nei sogni non miei, solamente qualche volta disturbato dal suono delle sirene delle autoambulanze che i vetri delle mie belle finestre non riescono ad isolare. Dentro il tempo così.
    _ Ma?_
Ma un mercoledì sera, immediatamente dopo la cena, appena mi metto davanti alla mia finestra sul mondo, con una sigaretta innestata dentro i polmoni, lo schermo del computer mi blocca digestione e respiro. E’ lei, la sua faccia, è proprio un’altra volta lei e sue sono le parole scritte che mi compaiono davanti. Mi commuovo, tutto ritorna chiaro, tutto quello che non riguarda lei non è successo. Pape satan, la sua mano oltrepassa lo schermo, mi ha trovato e mi chiede scusa, poi un bacio, un bacio che ha il sapore dei nostri diciotto anni. Non le chiedo niente, non riesco, so solo che la pancia mi trema. Anche se fosse un incubo non posso non viverlo. Gli occhi sono gli stessi, sorridono di meno ma sono loro, la pelle, quella bella sua pelle, non usa più l’abituale profumo, ma uno nuovo, forse un pò acre, ma poco importa. Si scusa, si scusa ancora, perfino piange e ricorda, riempie la mia voragine nera, attacca dei pezzi e li incastra.
    _   Fantastico ma anche pericoloso _
Possiamo ricominciare, mi ha detto, possiamo essere felici, mi ha detto, ci possiamo divertire, mi ha detto. Ed ha ricominciato a divorare la mia pancia, lo ha fatto in modo famelico, ingordo, sembrava volesse arrivare a succhiarmi il sangue. Io? Dalla tenerezza, alla felicità, al dolore. Un suo taccuino nero dimenticato sul comodino sorvegliava la scorpacciata sognata, desiderata e poi dimenticata attraverso gli anni.  
 _ Un taccuino nero?_
Era sul comodino e mi suggeriva di aprire nel mezzo, approfittando del rumore della doccia. Nomi, numeri di telefono e orari di appuntamento, in casa e in albergo, un da fare incessante, mimetizzato a fatica.  “Alle 17 dal parrucchiere”, invece no “Alle 17 appuntamento all’Hotel Esperia con quel tale imprenditore “Ricco”, “Goloso di me, oltre il consentito”. Quel taccuino come una cacciavitata nella pancia.
Uscita dalla doccia a visto il taccuino aperto e bagnato da tutte le mie lacrime. E’ uscita di casa per sempre guardandomi per l’ultima volta con gli occhi di un demonio deluso e furibondo.

La casa sul fiume

Questa città non è mai sembrata interessata a me, si è sempre dimenticata di avermi. La mia casa sul fiume è antica quasi quanto la storia sua, è stanca, sembra piegata su se stessa, è sorretta da altri due palazzi che le impediscono di esalare l’ultimo respiro. La mia casa che guarda il fiume è sorella e amica dell’acqua che le scorre di sotto, verde o troppo marrone, dispettosa e invadente, infetta e inospitale, avvezza alle irruenze. Mi avverte di stare alla larga. Si aggrappa forte al tetto di un antico tempio le cui colonne ho intravisto alte da un casuale buco della cantina madida di acre umidità, il sudore degli anni, delle anime invisibili che, annoiate, e meditabonde, ogni tanto vagano su e giù per le scale. La mia casa è stata anche il necessario bordello per i pellegrini in visita al tempio della cristianità, la cupola che svetta al mio fianco sinistro quando mi sporgo dalla finestra, l’osceno necessario alla preghiera di tutti i giorni. Ci provo sempre a parlare con le presenze di quelle signore che vendevano ai pellegrini il loro corpo appesantito.
Di fronte a me, oltre l’acqua che scorre nel mezzo ed il rumore  della civiltà invadente e tossica, è in piedi, a gambe divaricate Castel Sant’Angelo maestoso e cupo con le sue mura che odorano di giustizie sommarie e torture le cui grida si possono udire ancora, imprigionate nelle grate delle finestre, in certe albe domenicali. Urla amiche soltanto del nervosismo dei giovani gabbiani. Alla mia destra anche le mura dimenticate del carcere vecchio, diviso in braccia piegate e deformate dall’artrosi, da un ossessivo ripetersi, da un canto criminale mischiato all’escremento dei piccioni, a beffarde leggende che si allargano e restringono a fisarmonica attraverso via della Lungara, la sua strada di accesso.
Ora sono tornato e guardo le facce di anni prima, quelle che sono rimaste, che più di ogni altre possiedono e sono parte di questa piazza in bilico sul fiume. C’è ancora Luigi, un ladro ormai professionista, una volta era secco allampanato, alto e curvo su se stesso, come me. Non glie ne andava una giusta, si faceva arrestare con una facilità esagerata. Imbrogliava e derubava tutti, gli amici e i suoi stessi parenti. A me rubò una bicicletta. La sua seconda casa era il carcere Regina Coeli. Ma Luigi era capace anche di scusarsi, di abbracciarmi come si fa con un fratello, di dirmi che la bicicletta l’indomani me l’avrebbe restituita. A fianco a me abita ancora quella che era una ragazza bionda con due grandi occhi, due semafori celesti, cercava di bucarsi poco, cercava di amministrare e di dominare l’ago. Ora appare dalla finestra del suo primo piano, gonfia  e rassegnata, il suo grande sedere quasi non passa dalle porte, i suoi grandi occhi vivacchiano semichiusi e spaccia dalla finestra la sua mercanzia senza nemmeno la paura di essere scoperta. Cerca sempre il suo cane bianco scomparso chissà quando e chissà dove. La tabaccaia è ancora lì, ma più torva, più incarognita, adesso fuma la pipa e parla della snervante necessità di difendersi, odia i turisti, odia gli straccioni, i neri, gli arabi, i vicini di casa, le macchine, il rumore, i piccioni. Il futuro e il presente. Si è comprata una pistola per non essere rapinata per la settima volta. Adesso si sente capace di uccidere. Me la ricordavo sorridente e con una minigonna vertiginosa, le cosce dure e allegre e uno sguardo pieno di promesse imbarazzanti.
Sul portone incontro anche la signora del quarto piano, dovrebbe avere ottanta anni adesso, ma i suoi capelli sono sempre neri e la sua faccia è sempre quella di un’antica romana scolpita nella pietra, la figlia di un fantasma proprio di quei tempi lì, dicono in piazza. La signora Mercanti mi accolse il primo giorno che comprai questa casa, per l’occasione mi fece salire da lei a mangiare il castagnaccio, buono ma assolutamente indigesto, la sera stessa di quel castagnaccio il marito schiattò. Roberto poi ha ereditato l’antico e storico chiosco al centro della piazza da suo padre, sperava di diventare ricco facendo cappuccini e caffè per quelli dell’ospedale al di là del semaforo, ci credeva veramente. Adesso è lì, stanco e deluso, che si affanna, corre, bestemmia e vorrebbe rinascere lontano da quel marciapiede, oltre il confine. Rimane solamente per guardare i sederi delle belle straniere di passaggio. I nuovi ospiti della piazza sono invece i barboni, vivono e dormono sulle scale che portano al fiume, dividono il loro sonno e gli avanzi della piazza con i topi, con loro fanno festa nei cassonetti. Uno di loro ha la barba lunga e la faccia ascetica, gli occhi come due pozzi senza fondo, racconta a tutti dei suoi amici topi, del viaggio che si sta preparando a fare verso Gerusalemme, perché così c’è scritto chissà dove. Si fa invitare a pranzo nelle case, e  le deruba il giorno dopo. Barbone, sognatore e ladro.
Qui è la mia casa ad osservare l’acqua e i grandi alberi che tentano inutilmente di nascondere il fetido fiume che cambia il suo aspetto asseconda della pioggia e del fango strappato alla campagna. E al di là, sull’altra riva, il pensoso aspetto di una basilica, sfasciata e stanca di tutto quello scorrere, quell’andare di ferri e luci sotto di lei le fanno tremare le budella e rendono impossibile il concentrarsi delle mani sul rosario. La Basilica e il grappolo di barboni abbarbicati ai suoi stanchi e stufi scalini di pietra fanno la guardia a via Giulia, un’isola per ricchi indolenti, poco entusiasti ed annoiati con cani dal pelo lucido e macchine di colore blu.
Ho aperto la porta della mia vecchia casa con il batticuore ed ho trovato lo scempio, i resti di un campo di battaglia, è stata l’ultima inquilina ha regalarmi il massacro, rifiutandosi di pagare l’affitto, l’ha stuprata, prima di lasciarla. L’ha ferita a morte, ha rigato il pavimento di legno chiaro con un punteruolo, ha piegato i tubi dell’acqua, macchiato le pareti e massacrato selvaggiamente la cucina. Il soffitto, una volta affrescato, è pieno di macchie nere e squarci profondi, tutto odora di muffa e di odio. Ho vomitato il mio sgomento quando ho varcato la porta. Non voglio più, marcia in dietro e dimenticare di nuovo. Dove sono i ricordi, l’ha scaricati nel cesso? Ma prima di andare via, prima di richiudermi la porta alle spalle, avverto qualcosa sulla spalla destra una stretta leggera, la sensazione delle dita che, gentilmente vogliono trattenermi, tirarmi in dietro. La mia spalla si accorge della mano invisibile, mi giro e la mano tenta delicatamente di infilarsi nella camicia aperta.
Forse si tratta della mano invisibile di Elena, la mia prima moglie? Sicuramente no. Elena aveva il corpo del ghepardo, dal naso alle caviglie un odore meraviglioso che ancora oggi il lavandino e il bidè si ricordano e mi chiedono…allegra e spensierata, svagata.  L’ho conosciuta davanti ad un sassofono completamente ubriaco, per prime le sue lunghe cosce che si strusciavano addosso a me come per sbaglio, poi a casa mia per fare solamente pipì, e nel mio letto per provare a conoscerci. Si muoveva per casa nuda facendo eccitare pareti e scaldabagni. Gli operai che lavoravano di fronte alla cucina, non smettevano di masturbarsi, con quel loro coso impazzito e premuto contro la finestra di fronte, lei li stuzzicava così dalla mattina alla sera. Allegria pura siamo d’accordo, la mia casa entusiasta, anche per la sua grande passione per la sodomia. Il giorno del matrimonio è arrivata con un’ora e mezza di ritardo, le è rimasto il volante della macchina in mano e si è dimenticata di mettersi le mutande, poco male, mio nonno aveva la faccia avvampata quando gliel’ho presentata e non riusciva a staccare la mano dalla sua, la stringeva, la voleva. A metà ricevimento mi ha scombussolato il cervello, preso e portato via, in macchina, lontano, tutta la notte in viaggio, diretti a uno chalet di montagna i cui proprietari, contadini, hanno subito, per un’intera settimana, urla e schiamazzi indicibili di lei che si esibiva sul mio corpo divertito. Il letto poi si arrese, si schiantò in due, innervosito ed esausto. Tornati a casa, la mia casa sul fiume, Elena ci comunica un pomeriggio, a me e ai soprammobili, che lei è incinta, parecchio incinta veramente. Ma le pareti e il soffitto mi hanno messo in guardia
    _     Allora cambia tutto _
Come cambia tutto, avete visto porcate incredibili, era o non era un bordello questo qui, e adesso vi scandalizzate? Tacete ch’è meglio. Non potevano controbattere, ma l’intera mia casa si irritava, lo vedevo, me ne ero accorto, Elena diventava un sorvegliato speciale, s’incupiva, pensava e ci ripensa sopra, sentiva delle voci diceva lei, infastidita. Forse che non voleva questo figlio…forse.
Una sera tornando, lei era seduta al centro della stanza, nuda, a gambe spalancate, davanti al televisore che stava trasmettendo in diretta una tragedia, il crollo di una tribuna in uno stadio durante una partita di calcio, morti e feriti a iosa, grida e sdegno, disperazioni e rabbia oltre l’abituale misura. I morti aumentavano, lunghi distesi sull’erba. Lei rideva a crepapelle, completamente ubriaca. Accanto a lei, in terra un’intera collezione di bottiglie di vino, vuote, ingoiate per intero. Chi l’ha comprate? lei mi dice di no, se l’è trovate davanti. Nemmeno io. I muri sogghignavano. L’ombra veloce di un’altra mano, il suo grande seno, il profilo. Era stata lei, Era arrivata dai resti della basilica sotto le mie fondamenta ? Poi l’aborto, poi il matrimonio così immediatamente finito, lo splendido corpo di Elena trasformato, risucchiato dall’interno, segaligno e triste. Ed io con l’impressione che la mia casa  non sia stata dispiaciuta per nulla.



E la terra ha tremato

Sto dormendo, probabilmente sogno, lei accanto a me, addosso a me, russa forte, con le ginocchia serrate sul mio plesso solare, con la mano destra a serrarmi una spalla a ribadire la sua proprietà.  Alle tre e trentadue la terra trema, il lampadario ondeggia, anche il letto. Mi sveglio con la nausea, convinto di essere su una barca, in mare aperto, lei dorme pesante. Il letto continua muoversi il resto della notte, io con i sensi tutti quanti accesi.
Accendo la radio la mattina presto, il terremoto ha distrutto una città e interi paesi laggiù, me ne sono accorto a chilometri di distanza, al di là delle montagne, non molto lontano da qui. La radio m’inonda di orrore, lei mette il caffè sul fuoco coperta solamente di un tanga invisibile. Il caffè è buono e lei mi guardava invitante, fuori c’è il sole. Apre il frigorifero, lo richiude. Guarda e riguarda e i piatti si mette a lavare.
    _   Spegni la radio che ti faccio l’elenco della spesa _
    _   C’è stato un terremoto questa notte, senti _
    _    Qui la vita continua, scrivi: un chilo di arance, due finocchi, solo due, poi la carne macinata e un etto e mezzo di prosciutto, quello semidolce. C’è il sole oggi, hai visto? Il sole, hai capito?_
Non spengo la radio.
Le urla, i crolli, i detriti, la disperazione, la morte nel sonno, il coraggio, la rabbia. Tutto è rimasto nel mio stomaco e non vuole essere digerito. Ascolto le voci, le voci continuano a circolarmi nel sangue. Non si assopiscono. Mai più.
E la polvere e la distruzione e la polvere.
Lo vedo anche se sento solamente la sua voce alla radio, ha la faccia scavata, gli occhi stanchi, increduli e una smorfia di dolore gli piega le labbra.
    _    Ho dormito fuori e per questo sono salvo ma adesso…_
    _    Spero che i miei amici siano vivi. Li cerco, li cerco _
    _    Ho visto il muro che mi cadeva addosso_
    _   È come se, il male aveva deciso…_
Lei ha una lunga ferita  su uno zigomo, ha la faccia sporca di terra, è sudata, parla e la posso toccare.
    _   Trenta secondi sono tanti. Ho pensato che non sarei uscita viva. _
    _    La mia casa non la trovo più_
    _  Le scale sono spezzate, camera mia piena di calcinacci e i muri sono spaccati. Mi ha salvata il mio letto a castello, se avessi dormito di sopra, come sempre, non sarei qui_
Invece lei è giovane, ha coraggio, i nervi del collo sono tesi, la sua voce è tagliente.
    _    Ho perso gli amici, ma ho la vita_
     _    Mia madre, il mio cane, sono sotto, qui sotto _
Si chiama Angelo ed è un vigile del fuoco, parla, racconta con tenerezza. E’ un angelo.
    _   Ha quasi cento anni,  l’abbiamo ritrovata viva nel suo letto, bloccata dai calcinacci e aspettava,  lavorava all’uncinetto. Quando l’abbiamo tirata fuori ha chiesto un pettine, si voleva pettinare, si sentiva in disordine._
Quest’uomo di cinquant’anni parla con un filo di voce, ha gli occhi gonfi, arresi.
    _    Tredici anni aveva mia figlia, aveva paura, così le ho detto di venire con me e la mamma sul divano, quando è crollato tutto è lì che è rimasta, è lì che l’hanno trovata _
Lei adesso è sotto la doccia e impreca perché il bagno schiuma è finito. E’ inammissibile! Dovevo pensarci io, imperdonabile è! Io sono seduto sul divano davanti alla radio, ascolto e piango.
Due grandi spalle e un’energia instancabile, nervosa, che però sta per cedere il passo.
    _    Nel caos generale, all'improvviso si è alzata una nuvola di polvere, la chiesa era appena crollata e più avanti una donna chiedeva aiuto, i suoi genitori erano rimasti intrappolati sotto le pietre, sotto le travi di legno. Ho sfondato la porta, il primo che ho trovato è stato il padre, steso sotto un pezzo di muro, l'ho caricato sulle spalle_
La vita a tutti costi ha questa donna dentro.
    _   Sono scappata dall’ospedale. Ho partorito, sono riuscita a scappare con i punti, a piedi scalzi, con le flebo attaccate e mia madre e mia figlia appena nata. Scappavano tutti, anche i medici. Doveva essere il più bel giorno della mia vita e invece, e invece, e invece..._
E’ giovane e spenta, come i suoi capelli stanchi e sporchi, ha gli occhi che non sanno dove devono guardare.
    _    Ho paura di dormire.._
    _    Ho paura di sognare.._
    _    Ho paura del buio, se la terra ricomincia a tremare _
    _    Ho le vertigini, non passano.._
    _    Sento ancora gridare, sento piangere, anche se è tutto finito. E’ veramente finito tutto ?_
    _    Cosa ho sentito? di tutto ho sentito...rumori, urla, motori di macchine, il terrore della gente...La scossa, le scosse nello stomaco_
Adesso una breve interruzione per la pubblicità, pannolini, dentiere, lassativi, mutande e regiseni, cravatte, viaggi, automobili e yogurt contro il colesterolo…e l’orribile racconto ricomincia.
Questa donna è piantata saldamente nel mezzo delle macerie, ha le mani protette dai guanti, è stanca, ma non si fermerà.
     _    Ecco, una bambina di 2 anni è viva, è ancora viva, ma la mamma è morta cercando di proteggerla. Me l’ha detto un vigile del fuoco, me la detto lui ora_
    _    All'ospedale i morti sono 16, si sono 16 i morti”
    _    E’ crollata parte della Casa dello Studente e il campanile di una chiesa_
E lei vuole dirigere il resto della giornata. O la radio accesa oppure la spirapolvere, poi le poste, poi la passeggiata con il cane. E da una stanza all’altra si mette a cantare. Cantare adesso? Che male c’è, l’ottimismo è importante !
    _    Ho visto due bambini che hanno perso la parola…_
    _   Ho visto il terrore negli occhi di mio figlio, mentre i suoi giochi e i suoi mobili gli crollavano addosso, mentre le pareti si frantumavano e la polvere invadeva la casa, ho sentito le grida di mia moglie che nel buio non riusciva ad aprire la porta per scappare..._
    _    Mi sono spaccato i piedi camminando scalzo sui vetri, siamo usciti che la terra aveva smesso di tremare... e intorno la gente urlava nelle scale e fuori in strada... e c’era odore di gas ovunque_
Ha visto tutto questo, ha vissuto un incubo, e c’è dentro ancora… e ringrazia il Signore, lo ringrazia perché pur avendo perso tutto, non ha perso nulla... il figlio e la moglie ci sono ancora, sono vivi, devono ripartire dal niente.
I suoi singhiozzi  inondano la radio.
Un vigile del fuoco racconta senza più forze.
    _    La sorella lo ha chiamato al cellulare e lui, da sotto le macerie, ha risposto, è salvo_
    _    Ho scavato con le mani, così li ho salvati_
Sei ne abbiamo trovati vivi nella casa dello studente.
Lei è sulla porta, decisa a sentenziare.
    _   E per favore fai le cose che ti ho chiesto, alzati da questo divano, non puoi stare qui a piangere per gli altri, non li riporterai in vita, prendi sempre tutto su di te, è masochista e infantile. Spegni al radio e dammi una mano _
    _    Sono marito e moglie, sono morti abbracciati_
Un giovane nero, uno che i documenti in regola non ce l’ha, un immigrato senza lavoro, si toglie la maschera che gli ripara la faccia e parla aggrappato al microfono
     _    La gente circola tra le macerie, persa_
     _   È pericoloso, perché le scosse continuano, questa paura nessuno può fermarla_
La città è chiusa, l’hanno chiusa, nessuno può avvicinarsi alle macerie. Ci sono gli sciacalli, vano a rubare nelle case crollate, anche quelli ci sono.
E la radio a questo punto annuncia l’arrivo della gente importante, i capi, i politici, quelli che devono promettere, rassicurare, annunciare. Arrivano nell’orrore con le loro macchine belle e costose, le loro giacche stirate, le camicie e le scarpe non sporcate dal fango. Arrivano e fanno i loro comizi, per loro è facile e torna utile. Noi penseremo a voi, noi ricostruiremo, noi faremo l’impossibile. Vi amiamo noi.
E adesso un cittadino, senza più casa e senza più famiglia, davanti alla grande tenda da campo che lo ospita insieme ai suoi compagni di sventura, con un passato perduto per sempre e senza nemmeno un futuro, si soffia forte il naso, tossisce, si schiarisce la voce guarda intorno a se con le vene della fronte gonfie e prende coraggio per la terribile verità che ci tiene a dire.
    _   Qualcuno però aveva previsto tutto e chi non l’ha ascoltato è responsabile della distruzione e della morte_
La radio tace a lungo e poi riprende con grande imbarazzo. E’ una donna a parlare, anche se non la vedo so che i suoi occhi sono chiusi.
    _  Cristina.. faceva l’infermiera nell’ospedale che è crollato... era al pronto soccorso...e ora è sotto terapia psichiatrica... non lavora più...è sconvolta...ha visto gente lasciata morire in rianimazione...perché era troppo malmessa...o anziana, mettevano a questi poveri cristi un foglio di carta addosso attaccato col cerotto... e una X rossa col pennarello,  il segno della condanna. C’erano troppi bambini, emorragie, teste spaccate, toraci schiacciati. Adesso lei non dorme più,  piange, piange sempre... non mangia, non riesce più a sorridere _
Un respiro che sa di polvere e finisce il suo sfogo.
    _   Lasciateci in pace _
Spengo la radio, scrivo un biglietto di addio per lei che si sta mettendo lo smalto alle unghie dei piedi e mi metto a cercare nei miei tanti perché.


Me ne vado

Vaffaculo coraggioso amico mio!
Ricordo il grande manifesto che avevi dietro la tua scrivania, contadini e operai che marciano compatti per la libertà, te l’ho regalato io, adesso, in testa a quell’immenso corteo ci sei tu, tu con la tua forza e i libri pesanti che portavi sempre sottobraccio. Siamo stati giovani insieme, creduto nelle stesse cose, sperato nelle stesse cose, in un presente e un domani migliore. Tante battaglie l’uno affianco all’altro. Io mi ubriacavo di vittorie e delusioni, tu matematicamente continuavi ad incastrare un pensiero dentro l’altro.
Sapevo che alla fine l’avresti fatto, e quando è successo mi hanno avvertito per telefono, una vita s’interrompe e te lo dicono per telefono ! Mi sono disperato, si, perché io mi lascio travolgere, la razionalità e la lucidità mi sfiorano, ma non mi appartengono.
Me ne vado, me l’hai detto più volte.
Abbiamo passato anni insieme, l’uno accanto all’altro e spesso contro, abbiamo fatto tante battaglie insieme, tutti e due impetuosi,  ma tu spinto da una fede incrollabile. Hai lottato  tutta una vita con gli altri e per gli altri. Hai difeso, hai incitato, hai pensato, mai ti sei arreso. Una intera vita per la libertà, contro il potere, contro il denaro, una vita per combattere il mostro. Ho litigato spesso, furiosamente, spesso non ero affatto d’accordo con te.
Te ne sei andato. Hai lasciato detto di non volere ne funerali ne necrologi.
Mi spiace di non essere riuscito a convincerti. Eri un ribelle, ma anche un perfezionista, volevi farlo in modo razionale, lucido, pulito.
Alla tua età poi vedevi solo un avvenire di malattie. E poi l’ultima e definitiva protesta per la deriva politica del nostro paese, il non volere assistere al fallimento del tuo credo, delle tue idee. Un deciso, potente, definitivo, urlato “No”
Intendevi andartene con tua moglie, una donna forte e dolce, la colonna portante della tua vita, il suo coraggio, la sua coerenza, la tenerezza, i tuoi stessi lucenti occhi blu, ma lei voleva che prima finissi di scrivere il tuo ultimo e definitivo  libro.
Hai scelto il suicido assistito, oltre il confine, aldilà delle montagne, una follia inaccettabile. Aiutato da chi ? In ospedale, come se fosse un’operazione alle tonsille, tutto legale, tutto fatto per bene. Chiunque potrebbe deciderlo, pianificarlo, togliersi di mezzo con una firma, una semplice e fottuta firma, roba di poco e al minimo costo. Si perché nel nostro disgraziato paese scegliere di finire non è possibile, è punito, è immorale. Giustamente immorale? E’ una domanda grande come un’intera catena montuosa.
Mi hai telefonato dicendomi “ Ma no, non preoccuparti, torno domani”.
Ha passato il confine per mai più ritornare.
Sapevi ridere, me lo ricordo, sapevi amare.
Eri egocentrico, accentratore. Eri anche convinto di essere bello. I tuoi occhi blu hanno affascinato anche gli avversari di sempre. I tuoi giorni sono stati pieni di donne magnifiche, intelligenti, eccezionali.
Anche nel decidere la fine  sei stato razionale, hai pagato la domestica, saldato i tuoi debiti, tutte le bollette di casa, le pompe funebri già avvertite, la lettera ai compagni di sempre, della tua e nostra fede politica. Hai regalato a me i tuoi libri e tutti i tuoi pensieri più belli e più rabbiosi. Sei stato un eretico in vita e un eretico in morte ed io non  riesco a perdonare di  non averti convinto. Una morte pensata nei dettagli, studiata a tavolino, da te c’era da aspettarselo. Ti mando a quel paese e sorrido.
Hai preferito andartene, salutarci non era necessario. Nessuna macchia di sangue sull’asfalto. Ma adesso la tua forza è la mia. Davanti ad un nuovo dittatore, più insidioso e feroce, non intendevi piegare la testa. Non hai voluto vedere la tua gente umiliata, sconfitta, perduta, ricattata, decapitata dei suo legittimi sogni e diritti.
Regalalo a me il tuo coraggio, anche il tuo disagio ! Vaffanculo amico mio.