sabato 13 dicembre 2008

La tua strada


Il giorno dopo leggo la tua storia sul giornale.
Hai la faccia nera come la pece. Sei arrivato dal paese dei serpenti e gli scorpioni, dove un vento caldo si alza all’improvviso e ti riempie la faccia di sabbia. C’è poca acqua e le mosche infieriscono sugli occhi dei bambini, i bambini che hanno gli occhi troppo grandi per le loro facce. Lì, fra la polvere e l’arsura, animali ed uomini condividono lo stesso destino e le stesse malattie, le pance sono gonfie come otri in corpi troppo magri e rassegnati a vivere sotto tetti di fango. Ma i sacrifici di tua madre e una debole speranza nascosta sotto un vecchio tegame e un foglio di giornale dimenticato da un missionario di passaggio, ti ha messo in cammino verso il mare. E la tua volontà è aumentata ad ogni passo verso un sogno comparso come un fasullo miraggio dall’occidente, lì dove uomini e metalli luccicano, indossano bei vestiti, studiano sorridono e leggono, guidano e comprano, guardano la televisione, lavorano.
Al tuo villaggio tutti ti hanno regalato qualcosa perché tu possa camminare fino alla costa e riuscire a imbarcarti ed arrivare vivo dove la vita è un’altra cosa, lì dove una leggenda può prendere forma. Sulla costa, sulla riva del mare ci sono ad attenderti i tuoi fratelli disperati che guardano terrorizzati le onde come l’inizio di un viaggio impossibile. Tu non sai nuotare tu chiudi gli occhi e t’infili fra centinaia di gambe. Le gole che non mangiano da giorni, la braccia e le mani che si aggrappano le une alle altre per avere una speranza in più, perché la vita migliore dev’essere dove comincia l’altra parte del mondo.
Ma il mare non vuole, picchia più forte e la barca potrebbe affondare. Tu non sai nuotare e appena l’occidente si avvicina di più e si può finalmente vedere, i tuoi fratelli giacciono senza più forze incollati insieme, qualcuno è già passato dal sonno alla morte e la barca affonda. Ti aggrappi, chiami, preghi, rivedi dentro l’acqua i tuoi fratelli e la piccola capra nera, il tuo amico albero, il lungo bastone di tuo padre, quella canzone che cantavi per riempire i silenzi. Accanto a te qualcosa galleggia ancora. Qualcuno. Un braccio, una schiena, una scarpa. Tua madre ti guarda nell’acqua scura. Sfinito, stai per chiudere gli occhi.
Ma l’occidente arriva con un grande uccello meccanico e un rumore assodante. Ti ripescano, ti tirano su, ti mettono in fila e nemmeno si accorgono del tuo sorriso riconoscente per l’avvenuta resurrezione. Ti lavano e disinfettano, ti chiedono in una lingua che non riesci a decifrare. Ti spingono oltre un cancello e richiudono. Sei dunque arrivato in Paradiso.
Ma di quale Paradiso si tratta ? Qui non c’è traccia del ricco e generoso occidente raccontato sul tuo foglio di giornale. Questa è una prigione e le facce dei tuoi fratelli sono appiccicate alle sbarre sgomente. Corpi su corpi si respirano addosso ammucchiati e galleggianti sui loro personali rifiuti organici. Feci e urina addosso e accanto a te, animale scomodo, ingombrante ed orribile sputacchio scuro da sputare via.
Ma questa non può essere la tua storia, c’è uno sbaglio, sei finito all’inferno, sei prigioniero, sei niente di niente, il tuo nome non serve e non c’è nulla che tu possa dire. L’occidente ti ha salvato per farti reietto.
L’occidente ha schifo di te. Puoi mangiare e pisciare, puoi attendere, se ci riesci. Ma pensare è inutile e fa male perché sei schiavo, sei una merda qualunque. Fuggire dall’inferno è l’unica cosa ragionevole che ti resta da fare, ma non puoi ritornare a casa, nella tua casa di fango senza nulla riportare indietro, con addosso soltanto l’umiliante fagotto della sconfitta.
E dal fetore nasce una canzone che ti da ancora forza nelle caviglie. Una cantilena che ti parla di fuga, che ti dice che forse l’inferno va visitato tutto, fino a raggiungere il cancello, l’uscita, che forze la ferocia dispone ancora di un granello di commozione oppure di una qualche apertura distratta.
Mangia, bevi, e poi si vedrà, che all’improvviso hai saputo che ti portano altrove. In un’altrove dove le sbarre non sono poi così fitte e i tuoi salvatori hanno altro a cui pensare, guardano a nord, si grattano, pensano ai regali di Natale, soffrono di emorroidi, s’interrogano e non sanno rispondere, lucidano la macchina nuova e si ritrovano alle prese col l’assenza del dubbio, ch’è più grave, ch’è cancerosa.
Arrivi in una grande stanza dove le voci sono dei vivi, dove la vita ricomincia timidamente a pulsare all’altezza delle ginocchia. Ecco quello che ti rimane da fare, ecco che puoi tentare, ecco l’unico sogno che si rivela possibile. Fuggire. Fuggire per cercare il coraggio, il perché, ed il necessario per tornare a casa portando qualcosa, anche solo una briciola di nuova speranza.
Un regalo per quella baracca di fango dove sei cresciuto.
Così, un altro tuo fratello, più alto e più magro e con gli occhi di fuoco, ti prende per mano e ti invita a correre, ad occhi chiusi per non trovarti faccia a faccia con la paura.
Correte insieme attraverso le strade fradice di pioggia e i marciapiedi pieni di gente e negozi colorati, sfidate così l’aggressività del metallo senza cervello, dormite nel buio umido, sotto i cavalcavia, in compagnia dei vostri fratelli topi. Continuate a camminare attraverso. La città non si volta nemmeno a guardare, ti lascia passare invisibile e il tuo compagno di fuga si perde ad un incrocio.
Il semaforo diventa rosso, freno, mi fermo, attendo, ed è allora che ti vedo con un secchio di acqua e sapone che mi chiedi sorridendo il permesso di pulire il vetro della mia automobile.
Sorridi ma hai le mascelle serrate per la fame e per il freddo, il freddo al quale non ti riesci ad abituare. Ti volti a guardare in dietro perché sai bene che per quel semaforo non hai chiesto il permesso, perché ti possono rimettere le catene, perché è importante per te rimanere invisibile. Sorridi e mi dici che ti servono i soldi per ritornare nella tua terra di scorpioni e serpenti, da tuo padre e tua madre, dal tuo albero e dalla tua capra. Io frugo nelle tasche. Qualcuno ti insulta, e allora i tuoi denti senza controllo si spalancano come quelli del leone. Urli qualcosa anche tu. Non sei più invisibile e ti senti in pericolo.
Colpo su colpo crolli in un lago di sangue sul vetro che mi volevi pulire ed io assisto al tuo martirio ancora con la mano dentro la tasca in cerca di monete. Ti stanno uccidendo ed io rimango seduto impietrito e protetto dentro il mio io. La tua faccia spiaccicata e maciullata, scivola giù e crolla sull’asfalto, il semaforo diventa verde e tutto si allontana, compresi i tuoi assassini. Rimaniamo soli. Scendo dalla macchina e tremando dalla vergogna, una vergogna avvolta dal tanfo forte della vigliaccheria, prendo il secchio rimasto in terra e pulisco singhiozzando il tuo sangue dal vetro. Il semaforo è verde ed il traffico cittadino ci passa affianco e non intende fermarsi.
Addio fratello, perdonami.

mercoledì 26 novembre 2008

Una vita esemplare


Dormo sul fianco sinistro e, prima di addormentarmi, faccio un elenco dei sogni da fare.
Ti stringo la mano e ti parlo più piano, così tu puoi decidere se è il caso di impegnarti in un amplesso, non devo importelo io, me l'ha detto il dottore. Io posso insistere solamente due volte a settimana ma prima dell'imbrunire, stringendoti troppo soltanto alla fine.
Al mattino sarebbe meglio svegliarsi insieme, tutti e quattro gli occhi si dovrebbero aprire nello stesso preciso momento, in modo di rassicurare il cuore, il respiro e i piedi. Mi dicono testualmente ch'è meglio così. Ma se mi sveglio da solo è consigliabile che io mi prepari un accettabile pensiero del mattino, compatibile magari con le previsioni del tempo e con una visione progressista della vita. Perchè il mio prossimo è lì, fuori della porta.
La colazione deve avvenire ottimista, in mutande, magari cantando, senza teina, senza caffeina e senza tabacco, ce l'ho scritto grande qui in cucina. Se cedo e quando, la malattia invaderà tutta la casa, rimbalzerà sulle pareti per poi ritornarmi addosso, per sporcarmi di nuovo e costringermi a rilavarmi la coscienza. Devo scrivere su un grande cartello, ha detto l'analista.
Io ancora non ho ubbidito, io ancora ci sto pensando. Sono convinto che la disubbidienza mi rende più simpatico e umano. E inoltre non devo mangiare contraffatto, di questo ne sono convinto e affaticato, solo cibi genuini e sorridenti, possibilmente molto colorati, ma dove e come? Non devo pensare esagerato. Quanto esagerato ? Non devo drammatizzare me stesso, devo individuare un limite e poi abbassarlo, schiacciarlo ancora. Tutti i giorni alla stessa identica ora, in modo da farlo diventare un esercizio.
Alle undici del mattino il momento dei desideri, sporchi e cattivi, belli e lucenti, a ruota libera e senza timore d’insozzare me stesso più del consentito, che tanto posso stare tranquillo il giudice e l’imputato sono sempre io. Come si raccomanda ogni volta il mio analista. Un paio di scarpe nuove, una camicia più bella, l'orologio, l'automobile, la casa, un nuovo e più brillante ottimismo, un pugno in faccia, un altro letto e altre natiche. Un amore assolutamente proibito, molto scabroso e assolutamente appagante. Ma nemmeno per sogno, questi desideri non c'entrano nulla con la faccia che mi ritrovo. E quali allora? Quello delle undici, caro il mio analista è sempre uno spazio vuoto, ma non mi getterò nei casi irrisolti per questo. A proposito, desiderare di cambiarsi in un lupo si può?
E' mezzogiorno, senza un soldo in tasca mi ritrovo a fare la fila per i biglietti della lotteria. La speranza fa bene. Se questa sera dovessi vincere come spenderei tutta la cifra enorme che non riesco nemmeno a pronunciare? E perchè la fortuna dovrebbe venire proprio da me? Il signore davanti a me nella fila sono sicuro che sta pensando la stessa cosa, ma di schedine se ne gioca tante, s'è messo in società con tutti quelli che lo stanno aspettando di fuori. Per non lasciarmi andare completamente nel vortice pericoloso della fortuna e la scaramanzia, adesso penso che quel signore si prenderà una coltellata da uno di loro se davvero dovesse vincere. Lo dico perché non riesco mai a fidarmi di quelli che aspettano fuori.
Guardo i numeri della schedina e mi sento prigioniero, impigliato in un destino che non da scampo. Se fossi diventato qualcuno a quest'ora non mi sarei aggrappato ad una combinazione, al calcolo delle probabilità, a sperare nell'insperabile, a dare di matto davanti a gioco a premi. La mia vita aggrappata a un grumo di numeri, che poi mi faranno sicuramente il torto oltraggioso di non uscire. Se alla fine mi ritroverò degli scompensi, loro sarà la colpa. Quei numeri, gli stessi che mi aspettano sull'orologio in un conto alla rovescia anche fosforescente che non vuole fermarsi. I numeri che tentano sempre di spingermi in un vicolo cieco, quei numeri che mi raccontano sempre o di crisi di panico o di crisi epilettiche. Quei numeri che vogliono vincere sempre loro, ma non è detto che con me ce la possono fare. E per adesso, per pura irriverenza, li metto in disordine, provo a dare fastidio al solito numero dieci, lo sfido, mi dichiaro più forte. Il mio fedele analista m’ha sempre detto che ce la posso fare.
E invece no, il dieci prende la rincorsa e sfonda all’altezza dell’ombellico. Entra dentro lacerando, spostando, rompendo e comincia a dare ordini, a cambiare le curve e la lunghezza degli intestini e a mettere fuori uso i pezzi molli che a suo giudizio non servono più. E’ inutile tentare la battaglia, il dieci da inizio alla diarrea. Sono anni che fa questo tutti i giorni, e l’unico modo che conosco per limitare il danno e lo scempio è fermarmi, stendermi, non accettare provocazioni, evitare il minimo gesto, non pensare ad un accadimento specifico, fare il morto a galla. Ed ecco che il numero dieci ordina alla diarrea di fermarsi, che s’è stufato di giocare, che lui ha fretta e non si può fermare, che infierire su di me non è più un divertimento, che semmai il divertimento è rimandato a domani. E il dieci esce fuori da me con violenza. Sono libero? Sì, ma sono in dietro, sì ma un po’ del mio respiro se né andato appresso a quel numero, il fegato ha voluto anche questa volta provare a seguirlo, e adesso è fuori, abbandonato sulle lenzuola e si sente smarrito. Tutti giorni è così, indietro, stanco, ma ancora salvo dalla micidiale aggressione della matematica.
Sono le quattro del pomeriggio, cammino per sentirmi più giovane, per accorgermi dello scorrere del sangue, per misurare la sicura capienza ed elasticità dei polmoni, per la gioiosa consapevolezza di avere ancora due gambe capaci di sorreggere il mio divenire. Cammino per attraversare il mio mondo, per avere la certezza ch’è ancora mio, che il vento c’è ancora ed ancora esiste la pioggia e può bagnarmi. Cammino e mi rendo conto, dopo il centoventesimo passo che qualcosa non va come dovrebbe andare, il fianco destro mi tira e sento l’irresistibile bisogno d’inarcare il torace all’indietro e storcere il collo, così cinque volte di seguito, poi dieci, poi venti. Non è la prima volta, non è una sorpresa, però mi imbarazzo, perché adesso le contorsioni non smettono più. Il mio analista, sempre lui, mi aveva avvisato. - Potrebbe accadere un conflitto fra il tuo corpo e l’aria pulita, fra te e gli alberi circostanti, fra il vento ed il tuo corpo contaminato da tensioni che non sapevi di avere. Cerca di andare avanti, non ti fermare, accetta il confronto e continua senza alcuna vergogna –
Eroicamente, così combinato, davanti agli occhi dell’intera natura e degli incuriositi viandanti, faccio ritorno a casa. Informerò sicuramente l’analista del mio coraggio.
E’ sera finalmente, ed arriva di nuovo il momento di rapportarmi con i corpi del mio prossimo immaginario. Certi vaghi bisogni arrivano tutti insieme un’ora prima della cena, quando te ancora non hai varcato la mia porta.
So bene che devo dare la mia disponibilità a qualsiasi voglia o fantasma che sia. So bene che sarebbe inutile resistere, o tentare di cambiare pensiero Mi lascio invadere senza pudori, senza considerare le vergogne del mio io assetato ma dolorosamente represso. Niente paura dunque, potrò dare sfogo a me stesso nel silenzio e nel segreto di un’immaginazione che ha il bisogno primario di esplodere. Da tutto posso farmi prendere e tutto posso prendere io, abbandonando temporaneamente e per fortuna la mia vita sotto dettatura e da compito in classe. Posso ora vedere le facce ed i corpi che più mi piacciono, posso cambiarli ed invertirli alla bisogna, prima del tuo arrivo, in solitudine. Ma ecco che tu decidi di anticipare, quando ancora mi trovo tutto quel marasma nell’anima e nella pancia. Mi saluti, mi sorridi, ti lavi e ti spogli, reclamando giustamente e sottovoce il momento tuo. Mi prendi di sorpresa e non mi resta che riversare tutto dentro di te inconsapevole. Ma, nel momento che succede il passaggio, l’immaginario diventa materia, diventa luridume, diventa tradimento, ti riempie. E il senso di colpa mi assale e tutta l’intera notte mi rimane.
Il tuo anticipare, l’analista non lo aveva previsto. E nemmeno che tutto ciò si potesse ripetere ad intervalli regolari nei giorni a venire.

sabato 18 ottobre 2008

Suggestioni collettive


Una madre, una giovane madre caracolla giù dal balcone con i suoi due figli stretti fra le braccia, uno schianto unico e tre storie mozzate.
Nessuno conosce i motivi di quel volo a capofitto, anche perché trattasi di madre esemplare e amorevole e sana di mente. Ma un tale di nome Giacomo, qualche ora prima della disgrazia, ha suonato alla porta della madre moritura, l’hanno visto andare via due minuti dopo il volo, soddisfatto e in vena di cantare.
E chi ha salvato e dissuaso quel ragazzo sul ponte Garibaldi, quello che voleva assolutamente farsi un tragico bagno nell’acqua fetida e avvelenata del fiume. S’era fissato che voleva raggiungere le anguille. Chi gli ha offerto un appiglio e una birra e lo ha distratto con proposte oscene? Alcuni testimoni, tre barboni, due viandanti e due piccioni, affermano che è stato qualcuno che corrisponde alla descrizione di tale di nome Giacomo. Un eroe, con spudorato coraggio.
Sfoglio il giornale e leggo di due uomini armati. Disinvolti ed eleganti, entrano verso mezzogiorno nell’ufficio delle poste e telegrafi di piazza Sant’Anastasia, la rapina non si svolge in modo incruento come previsto, l’unico colpo di pistola, sparato dall’agitazione e dall’inesperienza, trapassa il cervello di una vecchietta venuta a ritirare la sua pensione. Materia grigia sul pavimento delle poste e telegrafi.
L’identità e l’aspetto di uno dei due rapinatori, lo sparatore, la carogna, corrisponde esattamente a quello del solito Giacomo onnipresente.
Ma c’è un tale, dallo sguardo dolce e malinconico che tutti i pomeriggi alle tre, si siede sulla stessa panchina di Villa Borghese e sta lì fermo e quieto ad osservare il gioco dei bambini e il chiacchierio delle loro mamme e governanti.
Si mostra divertito, appare inoffensivo, comunque dall’aria intelligente, ha tutti i suoi capelli per nulla tinti e indossa un maglione a vu, assolutamente signorile, legge il giornale, guarda, sorride, ammicca, pensa, si gratta, sospira, attende il tempo che ci vuole Poi si alza e se ne va con un’aria notevolmente più sollevata. Tutto questo dura da sei anni.
Una delle madri allarmata lo ha riconosciuto, si tratta del suddetto Giacomo, sempre lui e sempre lo stesso che poi scompare come per incanto. Sarà pericoloso! sarà uno sbaglio! Sarà magica suggestione !.
Probabilmente anzi sicuramente è lui il l’assassino del rapido delle sedici e trenta, colui che a quell’ora esatta, sale sui rapidi, segue le donne nel bagno e poi le scanna per pura noia esistenziale. Qualcuno l’ha visto uscire dal gabinetto del treno, veramente pentito, con il morale a terra. Sotto braccio stringeva un involto, la testa mozzata di una povera disgraziata, che poi ha abbandonato sul marciapiede della stazione, davanti al giornalaio. Quando ha comprato il giornale, il giornalaio ha visto le sue mani, quella sinistra aggraziata, forse di donna, quella di destra, di legno, segnata, brutale, un’arma, e poi un odore…un odore che non si può raccontare.
Ma è anche vero che a quell’ora è stato visto prestare servizio come volontario in un centro di accoglienza per senzatetto, certo che si trattava di lui, volenteroso, ben disposto e generoso quanto serve e si deve. L’amico dei barboni lo chiamano, l’angelo custode dei disperati.. Trova ovunque e distribuisce coperte, vestiti, parole gentili e carezze, non un lampo di cattiveria negli occhi a volte neri, a volte verdi ed anche rossi.
E poi, sempre lo stesso Giacomo ha difeso, ch’era notte fonda, una prostituta dalla violenza brutale del suo aguzzino. Sembra però che lei gli abbia visto una coda, o l’ombra di quella che poteva sembrare, lunga, come quelle di un rettile oppure di un topo. Ma insomma, allora non è un assassino? Dipende. Alla stessa ora, ma in un’altra città, lontana migliaia di chilometro con montagne, fiumi e mari di mezzo dei testimoni affermano di averlo visto affondare il coltello nel fianco un ignaro passante, poi perplessi l’hanno sentito esclamare che s’era sbagliato, voleva solamente abbracciarlo. Il suo prossimo, un fratello suo, come tanti nel mondo.Non c’era mica motivo di ucciderlo.
Altri affermano, sono pronti a giurarlo che Giacomo sia un’anima candida e poetica, all’angolo di una strada del centro lo hanno visto e ascoltato suonare il suo sax e declamare bellissimi versi. Come può, lo stesso uomo urlare il suo disappunto contro la guerra in una città di oltreoceano e nello stesso momento sputare contro un pacifista incatenato? Come può uccidere ed amare con tanto trasporto la gente? Va predicando nei parchi pubblici la giustizia sociale e poi, in macchina, ubriaco, investire un ragazzo che esce da scuola. E’ scappato, non ha pagato per quello che ha fatto. Giacomo riesce a non pagare mai.
Giacomo si è messo a fare politica, ha scelto i due partiti diametralmente opposti, due ideali irrimediabilmente lontani. I suoi ragionamenti si uccidono l’uno con l’altro. Giacomo predica e bestemmia, è detentore di un sorriso bellissimo e di un ghigno satanico, contemporanei e sovrapposti. Esiste davvero, non esiste affatto, è prigioniero ed ostaggio di se stesso, i suoi muscoli sono costretti a lottare l’uno contro l’altro. Lingua, zigomi, corde vocali, pensieri e sogni li immagino sconquassati da continue tempeste, da un crudele tiro alla fune.
Quale coscienza può avere un simile essere? Oppure Giacomo non esiste, è solamente il risultato agghiacciante di una suggestione collettiva.

mercoledì 15 ottobre 2008

Il pomodoro


Oggi è iniziato l’autunno. Oggi dovrebbero arrivare nuovi pensieri, ricordi migliori, la schiena più dritta e proponimenti più dinamici e vitali. Un’eredità, un nuovo lavoro, un portafoglio abbandonato e gonfio? Lo dico assonnato davanti a me stesso, lo dico alla mia stessa voce, lo infilo dentro all’alito fetido di una mattina presto. Lo affermo davanti alla fiamma del fornello della cucina che si sta per esaurire. Lo dico con la speranza che questa iniezione di intenti e speranze mi permettano e mi servano da stimolo per andare finalmente al bagno senza le solite sofferenze esistenziali. E poi basta con i soliti fessi pensieri.
Ma L’inutilità del ferro da stiro è sempre al suo solito inquietante posto, le gocce di pioggia, l’attaccapanni e il pettine blu, il candelabro grande, l’odore di muffa, quel biscotto dimenticato, due paia di calzettoni bucati assolutamente, la solita giacca immettibile e lisa, troppo corta e fuori moda, il rasoio e l’asciugamano che m’ha regalato mia madre, la sedia a dondolo aggiustata troppe volte e molto demoralizzata. Quello che resta di un ombrello. Il cane, il mio vecchio cane senza un nome e senza un perché, nervoso ed inutilmente esigente, lo specchio di me. L’albero ghigliottina davanti alla finestra, la finestra e il lago bugiardamente azzurro, depresso per partito preso. La polvere e il ventilatore che non ha mai funzionato, il ventilatore e la polvere. La bicicletta messa lì dove non deve stare se la ride delle mie buone intenzioni, la scatola e il quadro sono chiusi e fermi dentro se stessi, il nascondiglio e la scopa resistono nella stessa malata e ostinata posizione di sempre. Nel sempre la porta di casa continua ad essere sconnessa, quella del bagno sono dieci anni che non c’è più, ma sono ancora visibili i segni della sua vita interrotta sul pavimento. La finestra per dispetto non si è mai voluta chiudere, il latte stagna sul fondo della bottiglia, e quella magra felicità scaduta e non recuperabile si ostina a dormire. La stufa tace e non vuole.
Eppure al centro della testa passa la macchina di mio padre con l’autista, le mie scarpe lucide e nere e i pantaloni all’inglese con i bottoni di fianco, le estati interminabili nella villa al mare, la cameriera in divisa e la governante, i regali di Natale, l’applauso dei compleanni, la vasca dei pesci rossi in salotto, il sorriso austero della mia signora madre. Immagini che si fermano e che pulsano forte, che la mia testa si diverte ad inventare solamente per rendermi il più spiacevole possibile il soggiorno in questa dichiarata topaia.
Tutto mi osserva immobile e delle mie buone intenzioni non ne vuole sapere. Appesi al soffitto ad imitare i pipistrelli, dondolano la dimestichezza perduta e quel rancore specifico ingiustificato e sconnesso, quello che è ancora prigioniero nella bocca dello stomaco. I resti dell’ambizione ammuffiscono e sporcano le pareti. L’occhio destro rimbalza addosso all’illustre e ridicola presenza del vaso da fiori più piccolo, quello che inaugurava il pomeriggio del mio primo contratto da scrittore. L’occhio destro della noncuranza, l’amore bagnato e la disillusione. L’inadeguatezza. Tanti i progetti con la luce di mezzogiorno, dentro un bicchiere e dentro un altro ancora, derisi e ammazzati col sopraggiungere dell’inquinato imbrunire e dall’aggressività della luce elettrica. Uno dopo l’altro i poveri resti delle mie idee geniali per sbarcare il lunario e strabordare nella notorietà, finiti nel cesso e scaricati, oppure vomitati sul marciapiede in un giorno di pioggia, o scomparsi dentro una vagina della quale non riesco a ricordarne il nome.
La pasta scotta e l’insalata rimangono un patetico tentativo sconfitto. Quella macchia di vino che non se ne va, che ha ferito a morte la mia più bella camicia bianca. Quella macchia sta lì per svilirmi, per dirmi che di ottimismo adesso è inutile parlare, che non ci sono le basi e i presupposti.
E allora apro l’armadio e conto a casaccio e da capo la stoffa di un tempo passato, una stoffa indurita come carta vetrata, che non vuole saperne dell’acqua. I conti non tornano, solo sagome che non riesco ne a datare ne a riconoscere.
Allora è questo il momento di ricordare il sogno delle pillole rosse, quel sogno capace di fermarmi il cuore ed ogni avanzo di pudore. Una brusca frenata ed definitivo tracollo per scrollarmi le spalle e ricominciare da capo. Da quale capo? Ma le pillole rosse non hanno altri effetti che il riportarmi furbescamente a tutti gli aperitivi che mi tracanno facendo versacci osceni al futuro.
E il futuro, e del futuro mi accorgo e lo vedo comparire sulla tovaglia di plastica usurata della mia cucina sempre depressa. Eccolo, un piatto dipinto a mano e scheggiato con un pomodoro appoggiato sopra. Un solo pomodoro, nemmeno tanto maturo, aggredito dalla luce della finestra, Un’opera d’arte casuale, la materializzazione di una voce che giù al portone, sempre verso le otto del mattino, racconta all’edificio della gravissima crisi economica che ci sta impoverendo. Fratello, se hai fame ecco qua, ingoiato il pomodoro, per oggi, e forse anche per domani hai chiuso. No, il pomodoro no, il pomodoro è il mio futuro, deve restare sul tavolo, così posso guardarlo e chiamare la fortuna, qualcos’altro da scrivere, una lotteria da vincere, un incontro di quelli risolutivi. Certo che ho fame, certo, ma questo sbaglio non lo devo fare. Anzi mi siedo che un rimasuglio di alcool m’è rimasto e ci parlo, e convinco il pomodoro a portarmi bene.
Tracanno quel che c’è da tracannare, ingoio quanta più aria posso e mi concentro su quale tipo di fortuna posso sperare da questo pomodoro. Il mio cane sta lì che mi guarda come si guarda un fesso. Allora gli faccio vedere il pomodoro e provo a spiegargli del futuro sulla nostra tavola. Gli spiego e tracanno fino all’ultimo goccio. Prendo carta e penna e le avvicino all’ortaggio, in modo che l’intera notte si possano consultare su quello che avverrà, sul mio nuovo romanzo, sul nero su bianco che finalmente mi renderà famoso. Superstizione? Nella mia condizione rimane l’unico atteggiamento indispensabile. Saluto il mio cane dalla faccia delusa perché anche questa notte non ha niente da mangiare e dovrà urinare sul pavimento, e vado a dormire.
E’ mattina e mi trascino in cucina, il pomodoro è scomparso e il piatto sbeccato giace assassinato e in mille pezzi sul pavimento. La finestra è aperta e il mio cane, ladro e traditore per necessità, col pomodoro nella pancia, s’è involato di sotto ad incontrare il suo futuro.

martedì 17 giugno 2008

Ti stavo osservando


Sei lì, dritto in piedi, immobile, all’incrocio, a pochi passi dal semaforo, hai una mano affondata nella tasca, e nella tasca stringi qualcosa. Guardi la gente che passa dritta negli occhi. Ti urtano, passano veloci davanti e dietro di te, te che sembri essere di pietra, un pilastro, un’insegna, tutt’uno con la strada. Guardi il fiume di automobili che aspettano di riprendere la corsa al semaforo, senza nemmeno chiudere le palpebre degli occhi almeno una volta. Perché? Cosa avresti intenzione di fare ? Cosa stringi nella tua tasca destra? Quanto tempo ancora resisterai lì, impalato ?
Io ti passo vicino, involontariamente ti urto un gomito, dopo qualche passo mi volto indietro, non capisco perché ritorno, incrocio un tuo occhio e qualcosa di orribile vedo.
Non so se fuggire o se invece parlarti, se tentare di convincerti a rinunciare a quello che sicuramente hai in mente di fare. Riattraverso la strada, fra la gente che passa in due flussi contrari. Riprendo a osservarti a dovuta distanza.
Sei sempre immobile, i tuoi occhi sembrano seguirmi, vuoi forse un aiuto da me, desideri che sia io a convincerti. Allora ti vengo incontro ancora, mi riavvicino accompagnato dal rumore assordante dei motori e dei passi. Hai la mano affondata ancora nella tasca dei pantaloni a stringere un lampo, il sangue che potrebbe scorrere a fiumi davanti a questo semaforo. Ti parlo adesso.
- Scusami, sai dirmi, mi sono perduto, che posto è questo? –
Non mi rispondi, mi guardi con occhi inanimati. Mi vuoi senz’altro dire che non potrò fermarti, perché oramai hai deciso, perché oramai uno schifoso destino ha deciso per te.
Ed io non posso permettere che l’orrendo destino si compia, io che sto semplicemente tornando verso casa. Insisto allora, addirittura sorrido.
- Aspetti qualcuno? Ma come fai a vedere in mezzo a questa folla? Lo so, aspettare non è affatto comodo, mette a disagio, innervosisce –
Ma tu non vuoi muovere un muscolo, non ti sento il respiro, sei di gesso e sei messo lì chissà da quanto. Perché avrai deciso così, quale guaio tremendo? Quale irreparabile rancore? Ti vengo sotto con un altro sorriso e con una sicurezza agghiacciante in aggiunta.
- Siccome è da tanto che aspetti, ti offendi se uno sconosciuto ti offre un caffè? Così parliamo dei fatti nostri magari, anch’io ce n’ho da dire perché questa vita non è affatto semplice –
Succederà magari fra un attimo, la tua mano uscirà dalla tasca e tutta la strada urlerà di dolore.
- Ce l’hai una famiglia? Magari lei se n’è andata? Insomma non ti vuole più ?Guarda che col silenzio mica risolvi niente –
Il semaforo pedonale cambia di colore e un’altra carovana di gambe e di pance ci arriva addosso, ci sposta, mi allontana da te che barcolli, ma ti rimetti fermo. Per un attimo ti perdo, non ti vedo, mi sporgo per cercarti fra le teste e i cappelli. Eccoti spostato di un solo metro. Ci riprovo.
- Allora scusami, facciamo due passi, camminiamo un po’insieme così ci aiutiamo a riflettere, così può darsi che desisti da quello che vuoi fare. Ne troverai un’altra questo è sicuro, ti rifarai una vita, questo è certo –
Ci penso meglio e ti dico di più.
- Oppure è il lavoro che hai perso? -
I tuoi occhi adesso frugano in una fila di suore che sta attraversando la strada, la tua mano nella tasca si muove, cosa farà l’intero tuo braccio?
- Ecco, guarda loro, loro in fondo se la cavano meglio-
Resti fermo, infilato nel marciapiede, muto.
.- Senti, stai forse pensando di esplodere? Guarda che le suore non c’entrano, e gli altri passanti sono tutti inoffensivi. Il tuo rancore è proprio irreparabile? Facciamo allora insieme colazione. Sei muto?–
Non mi accorgo che ti parlo convulso, convinto come sono che è arrivato il momento. Non mi accorgo che mi sono aggrappato al tuo braccio. Non mi accorgo che mi ascoltano e si fermano dietro di me.
- Per favore non farlo, non ne vale la pena, fai un respiro profondo e rinuncia, siamo fratelli tuoi, non lo fare –
Un cane sbuca dall’angolo e ti ringhia. Due donne ti guardano minacciose, un pachiderma si fa strada fra la gente che ormai ci circonda.
- Vorresti ammazzarci tutti? Vorresti che adesso ti diamo la benedizione ? Dacci quella pistola ch’è meglio –
Il cane ti addenta una gamba, mi spingono via e tu scompari sotto il loro furore. La tua mano giustiziata non ha voluto lasciare un corno porta fortuna che ti tenevi in tasca. Un corno di corallo rosso sangue.

mercoledì 4 giugno 2008

Corpo a corpo


Sono ventiquattr’ore che ti aspetto. Ho cercato di domare il disordine, ho straordinariamente cambiato le lenzuola, le ho scelte nere, funeree, come piacciono a te. Ho riempito il cesto con la biancheria sporca, che di solito corre libera e felice per casa. Ho acquistato due candele, su tuo suggerimento e le ho messe in camera da letto, una dalla parte mia, altra vicino a te. Ho acceso tutti quanti i termosifoni, il camino e la temutissima stufa a gas, così, nuda, non potrai lamentarti del freddo. Ho anche appeso, fuori dell’uscio di casa, un messaggio di benvenuto. Ho fatto tutto questo sperando in una appassionante nottata.
Non torni, ancora devo aspettare, accendo la musica, anzi ne metto altra a portata di mano, la preparo su misura per te. Il tempo ti oltrepassa, ed io mi infilo dentro a letto a immaginare, a studiarmi le posizioni e le tenerezze.
Tiro in dentro la pancia, considero la mia età, mi passo una mano sulla barba per capire se punge, provo se i muscoli ci sono ancora. Mi rialzo perché mi accorgo di non avere l’esatto odore che piace a te. Meglio una doccia ennesima, meglio purificarmi l’alito ancora di più, meglio tagliarsi le unghie se il desiderio ti dovesse suggerire varianti inconsuete.
Accendo il televisore, ma mi porta velocemente al torpore, la porta si apre finalmente ch’è già arrivata la notte. Eccoti qua, sei stanca, e come temevo nervosa, non vuoi parlare, non vuoi mangiare, hai insieme mal di testa e mal di schiena, un minaccioso progetto di dolore al braccio, e un mal di pancia di riserva.
Anche stanotte il mio progetto appassionato lo devo rimandare?
Adesso mi dici di volerti spogliare, ma prima mi srotoli i fatti e le tragedie, tutti quanti gli aneddoti della giornata finalmente passata, nomi, cognomi, fatti e misfatti. Parli e racconti guardando la porta, il pavimento e la crepa sul muro, il lampadario. Io, di nascosto, mi odoro le ascelle, mi è sembrato di sentire ancora l’odore del minestrone.
Probabilmente il momento è arrivato, ti siedi sul bordo del letto e ti spogli, fai così per offrire ai miei occhi solamente la schiena, la tua schiena capace di farmi sognare per giorni. Ti avrò.
Ma ti infili il pigiama, entri nel letto e ti abbracci le ginocchia. Così come farò ad averti?
Decido di allungare comunque una mano e la tua schiena risponde che anche questa sera il dolore ci sta, risponde prontamente e ad alta voce. Ti giri a pancia all’aria e mi rimproveri del caldo esagerato e troppo secco. Mi alzo per raffreddare, mi sbrigo, il desiderio mi rigetta nel letto, e un’altra carezza, quasi per caso, calcolando e pregustandone le conseguenze. Hai una smorfia di orrore, le mie mani sono troppo fredde, ed anche i piedi. Perché mai sono uscito dal letto?.
Mi scuso, dichiarando preventivamente che davvero ti amo. Ti fai uscire allora, in concomitanza, un secondo lamento, prolungato, ben modulato, tragico quanto basta. Ma io insisto e propongo, ti chiedo con esattezza di fare l’amore.
Mentre mi espongo così ed ascolto che tu non hai per nulla risposto, sono però sicuro che al bagno ci devo riandare, solo per una questione emotiva, solo per prevenire un bisogno. Il gas va richiuso di nuovo e la porta di casa vuole un altro controllo.. Ecco che torno e ti sento russare.
- Come, già dormi ? –
- Ma no, pensavo –
- A cosa? –
- Nulla di nulla –
Cerchi di riacchiappare uno sbadiglio ma non ci riesci, ed io sono più che deciso a non farmi scoraggiare.
Ti ridico che ti amo tre volte di seguito e tu mi ricordi che non ho messo la sveglia. A ricordarmi che l’operazione più urgente e necessaria è quella di dormire. Quando ho finito di parlare con i numeri e i minuti tu giaci sfinita, immobile e girata dalla parte opposta, all’improvviso mi chiedi e capita così che mi riaccendi.
- Mi massaggi la schiena? –
Ecco l’invito, ecco l’occasione, ecco tutto il mio amore, ecco l’incontro emozionante, il desiderio risorto.
- Più giù, dove c’è la ferita –
Io ubbidisco, ma poi mi lascio trasportare, esulo dal mio compito, sconfino, il respiro mi tradisce e cambia, ti bacio un orecchio.
-
- Il solletico no ! –
Ti contorci e ti richiudi, mi chiedi l’ora e questo non è un bel segno, è il segno che mi devo affrettare, le mie mani scorrono in giù e commettono il solito e imperdonabile errore.
- Lo sai che non mi piace così ! Lo sai che m’imbarazzo così ! Lo sai che subito così non mi piace! –
Ricomincio dal seno? Dal seno sembra che funzioni. Ti esclamo due volte e lo accetti, allora con una manovra furba e decisa ti sono sopra. Ma tu urli, che t’ho schiacciato un braccio, il braccio solito.
- Ti ostini a pesarmi a sinistra, perché te la prendi sempre con questo povero braccio mio? Sono sei anni che lo fai, sembra che lo fai apposta –
Insomma allora e mi levo e mi viene quasi da piangere, so bene che la mia solita manovra maldestra potrebbe evolversi in un processo nel cuore della notte, d'altronde è vero, sono sei anni che mi diffidi. Ti ho sempre promesso che prima o poi avrei cambiato posizione, ma la pigrizia, ma la cattiva abitudine, ma le strane esigenze del mio basso ventre.
Però ho un buon repertorio di argomenti rassicuranti da esibire, quelli che nella maggior parte dei casi funzionano sempre. E’ notte inoltrata ed io provo ad appoggiare le mie labbra sulle tue. La tua lingua però non vuole sentire, si rifiuta di uscire allo scoperto.

- Lo sai che è sempre stato così, non mi piace baciare così, lo trovo imbarazzante. Ma tu non hai fatto uscire il cane ?-
E’ vero, mi rialzo col freddo che mi stringe il sedere e spingo in fretta il cane furibondo fuori della porta.
Quando torno a letto sei immobile, sembri assolutamente deceduta, non mi resta che dormire, oppure abbandonarmi al solito desiderio impersonale, senza uno specifico volto. Assopito in questa indecisione, le palpebre mi suggeriscono di tentare la sorte nel sogno.
Ed è allora che mi accorgo di un dito su di me, leggero oltre che furtivo. Abile ed esperto, all’altezza del mio ombelico. Ci gira intorno, passeggia, si ferma a pensare, poi si rimette a danzare, leggero, inesorabile. Adesso cambia la sua traiettoria, punta verso il centro, affonda e sfonda, probabilmente tira via, svuota. Io mi dimeno, tento di impedirlo, ma mi ritrovo con le budella di fuori, ma ancora vivo, ma ancora cosciente.
Ti vedo sorridere e sussurrare nel centro del buio.
- Hai visto, sei contento, ti è piaciuto? Adesso fammi dormire però che è tardi -

giovedì 1 maggio 2008

La voce



Sto davanti alla finestra spalancata, nonostante il freddo invernale, guardo attraverso il buio. I lampi di un temporale che si sta avvicinando illuminano a giorno l’acqua del lago e la sua riva opposta.
- Hai gli occhi conficcati nel buio da una buona mezz’ora, non senti il freddo? Chiudi questa finestra. Cosa ci trovi di così interessante in una notte così nera ? -
No, il temporale lo vedo, le saette illuminano a giorno le case del paese che mi sta di fronte, sull’altra riva del lago. Qualcuno ha il camino acceso, un vecchio, in una casa in alto, guarda quello spettacolo pirotecnico e pensa, e ricorda un’altra di quelle notti di tanti anni prima. Posso vederlo e leggere le parole e le immagini della sua mente, nei dettagli. Altri due, nella casa accanto si stanno accoppiando, lo fanno in piedi, chiusi dentro al gabinetto, sono belli, sono bestiali. Più su, in una delle case più alte del paese, una ragazza è sotto le coperte, ma non dorme, piange. Si sente brutta, e davvero lo è. Adesso vedo quel vecchio che si è dovuto fermare per forza a due passi da casa. Si è fermato nel buio a urinare. La donna che indossa lo scialle marrone è alla finestra, guarda in mezzo al lago, guarda proprio verso di me e mi parla, mi dice che domani verrà e mi prenderà per mano, dice anche che è tanto che mi osserva mentre dormo.
Ma la voce, dietro la mia spalla destra insiste che il temporale non c’è, che è notte fonda, che come al solito gioco ad inventare.
La voce ha un alito da vecchio, i denti gialli, due lunghi peli che gli fuoriescono da una narice e l’unghia del mignolo destro lunga ed affilata. Indossa anche, per dispetto a me, che ne ho una pazza fobia, un maglione a collo alto di lana pesante e grezza. Basta questo per rendermela cordialmente antipatica. E indigesta. La voce non riesce nemmeno a specchiarsi, per pudore.
Ed anche questa volta, come sempre, sono costretto alla ricerca frettolosa di una fantasia di rincalzo qualsiasi, per non accusare il solito gorgoglio mozzafiato all’altezza dello sterno.
Rinuncio al mio spettacolo pirotecnico e chiudo la finestra, mi giro e e chiedo aiuto agli scaffali di ferro battuto e vimini, indispensabili per darmi man forte.
Sugli scaffali mi aggrappo a libri e riviste accatastati a casaccio gli uni addosso agli altri, fili elettrici aggrovigliati, dischi, scatole di cartone sventrate e dimenticate, due bicchieri sporchi incastrati tra loro da anni. Titoli su titoli, un vecchio elenco telefonico oramai inservibile. In alto un porta candele di legno, accanto a lui un piccolo gufo di terracotta circondato da diversi pacchetti di sigarette vuoti, e poi matite, e poi penne, ed una copia, l’ultima rimasta di un libro che ho pubblicato molto tempo fa. La testa di mio padre spunta sotto ad un foglio di giornale orfano del suo resto. Guardo meglio e tutto si muove, m’invita, si ricompone e si scompone in un allegro chiasso sapientemente inconcludente. E la forza dell’immaginazione mi riempie di nuovo le vene.
La voce adesso ricompare tuonante, m’invita a rendermi finalmente conto di quell’inutile pattume ormai inservibile, di quanto negativamente possa influire su di me, quando mi siedo accanto e tento di suddividere il tempo.
Per liberarmi di quell’orribile contro canto mi aggrappo al prezioso quadro che vive e respira dietro di me, una contadina che addormenta suo figlio davanti al camino. Fin da piccolo mi è stato detto che questo quadro rappresentava me stesso, che quel bambino sono io…allora sento ancora ed ogni volta , le braccia di quella donna circondarmi la vita e sussurrarmi una ninnananna speciale.
La voce adesso interviene ancora, è spazientita, costretta sempre a ripetere la stessa solfa.
- Esci dal quadro, siamo alle solite, sai bene che è un falso, non è affatto prezioso e sai bene anche che quel bambino non puoi essere tu -
E dal quadro mi tira via in malo modo, tanto che ci rimane una ferita aperta.
Scendo le scale precipitosamente e per non ascoltare quello stillicidio negativo mi vado a chiudere nel solito ed affidabile gabinetto, giro la chiave e sono al sicuro. Qui dentro la mia immaginazione vola, è libera, non conosce pudori, è al riparo da qualsivoglia ingerenza, non mi devo difendere, non ho bisogno di giustificazioni, e posso fare a meno dei suoi suggerimenti.
E soddisfatto mi siedo sul water deciso a volare, a prendermi questa ennesima vacanza. Ma lui sta dietro la porta, prova a girare la maniglia, mi chiede sghignazzando se per caso mi serve una mano.
Per caso una mano già la posseggo. A voce alta mi ricorda che quel gabinetto è il più scomodo e il più angusto che io abbia mai posseduto, e poi fa freddo lì dentro e la luce è accecante, sembra di stare nel gabinetto della stazione. Ecco perché le mie masturbazioni alla fine risultano prive di un corpo, troppo veloci e senza la costruzione di una qualsiasi storia significativa. Insomma di un meccanicismo insipido e umiliante. Avessi almeno delle mattonelle di un colore accogliente e una vasca da bagno che si possa chiamare tale. Non funziona nemmeno sempre l’acqua calda. Insiste e vuole aprire, insiste e mi vuole sminuire, ridicolizzarmi, come sempre.
Mi rivesto e ricordo l’aiuto che, ogni volta che ho chiesto, la camera da letto mi ha regalato, il grande quadro alla destra di me nel quale mi sono rifugiato ogni volta che il tempo è venuto a reclamare la sua tassa.
Nel quadro una donna tiene stretta nella sua mano destra una bottiglia, nelle sinistra ha una sigaretta puntata verso il cielo, appoggia il suo gomito ad un vecchio televisore che accoglie nel suo interno un cielo sereno con qualche sporadica nuvola libera dall’acqua e dall’ira. Alle sue spalle fabbriche e ciminiere che mandano fuori un fumo rossiccio, denso, quasi solido, velenoso, e nell’aria, nello spazio in alto, un corpo nudo, più giovane ma privo della testa, fluttuante nel vuoto.
La donna ha lo sguardo lontano, sperduto nella mia stanza ed oltre. Ho tutta l’intenzione di mettermi a viaggiare con lei, di guardare dove lei guarda, di perdermi nei suoi pensieri e scomparire dal contraddittorio che non ha nessuna intenzione di arrendersi.
Mentre sto dentro il quadro solo ancora con metà del mio corpo, mi sento dire che in realtà quella donna mi ha sempre causato l’insonnia, che ho tentato per ben due volte di darla via, che le ho tirato addirittura un portacenere contro, e ch’è inutile adesso tutta quella commedia. Sono un ignobile bastardo e questo è un fatto. Sarebbe utile che adesso trovassi il coraggio di tagliare la tela.
Basta, i miei sogni sono in pericolo, il mio volare rischia di avere delle ali fasulle. Dove sono le mie pietre? Ieri la camera straboccava di pietre, la loro energia mi fa battere il cuore forte, posso realmente viaggiare stringendole fra le mani, posso sentirmi parte integrante del fuoco che arde al disotto di me.
Erano tante quelle pietre, mi dice lui, rimanendo seduto sul letto e senza nemmeno guardarmi. Erano troppe ed erano diventate una mania, un bisogno troppo forte. La maggior parte le ha gettate nel lago, depositate in un luogo più consono.
La mia anima giace sott’acqua adesso. Ma adesso mi rimane ancora il Crocifisso d’avorio, il buddha che ride di lucido legno, le pipe sparse sul comodino. Tutto prima aveva una sua casuale ed artistica collocazione, tutto fino ad ora si spostava in balia del momento e dell’umore, tutto viaggiava con me, tutto significava un pezzetto del mio appagante marasma, oggetti vivi, oggetti pulsanti, oggetti come prolungamenti del mio indefinito, sofferente ma vivido pensiero e midollo. Innanzi a tutti la mia vecchia tromba, che adesso è nascosta e in punizione dietro la televisione. E il resto? Tutto subisce un nuovo ordine sconosciuto ed indigesto. Le pipe sono in fila lucide e pulite, senza più vita. Il crocifisso non guarda più l’immagine di Che Gue Vara, è in alto, è escluso, è solo. Il Che sorride solamente a se stesso. Il legno del buddha è lucidato a festa, l’usura degli anni e delle nostre chiacchierate è scomparsa in modo definitivo.
E le fotografie che prima affollavano il davanzale dietro al mio letto, le immagini di una vita vissuta in straordinaria confusione? Dove sono? Non sento la loro voce.
Lui me le indica senza parlare, chiuse e riposte in un cassetto, mute per sempre.
Non mi resta altro che precipitarmi in cucina nella quale ha sempre vinto la casuale irresponsabilità, l’esaltazione dell’incompetenza, la teorizzazione dell’endemica distrazione.
Ma mi ha preceduto, è lì che leva, analizza, scansa, butta in una grande busta nera formato famiglia.
Cerco quindi di salvare il salvabile, ma anche la voce resiste, lui non vuole mollare.
Ci litighiamo il grande pesce thaillandese sopra il camino, il gatto di bronzo ci cade per terra e va in mille pezzi, il servizio da tè giallo, già menomato in molte sue parti, salta per aria…soltanto il manico della teiera resta mio. La macchinetta del caffè mi scompare sotto gli occhi, così la scatola dei biscotti, così il cioccolato, così i pacchetti di sigarette vuoti, così i bicchieri perennemente sporchi. Dei piatti e bicchieri decorati, già martoriati negli anni ma da me inseparabili, non se ne salva nemmeno uno nella furia. La sedia a dondolo basculante la distrugge davanti agli occhi miei. E quando arriviamo a mettere le mani sulla gran confusione artistica del tavolo la rissa si mette a danzare frenetica.
Urla sputazzando saliva.
- Ecco come sei, sei come tutto questo ciarpame di pezzi di carta, tutto abbandoni qui sopra. Sei inconcludente, sei ammalato, vago, incapace, immaturo…fai pulizia una volta per tutte. Via, nella mondezza, ogni cosa !Devi avere il coraggio finalmente ! -
Allora la mia fantasia, l’io trasgressore e creativo tango del pressapochismo, ha un guizzo decisivo. Una di quelle feroce che si fanno vedere solamente al finire, che però possono alla fine risolvere.
Anche il vecchio che ho visto urinare nel buio dell’altra riva del lago, mi suggerisce di non esitare più.
- Deciditi, adesso –
Il temporale è arrivato, sopra di me i fuochi d’artificio impazzano.
Lo acchiappo per la gola e lo trascino su, davanti alla finestra, la apro e lo spingo di fuori. L’incubo è interrotto, la storia ha un epilogo, la mia voce sta volando di sotto, ed io sto volando con lei.

domenica 20 aprile 2008

l'invito

Vi invito a fare colazione con la mia teca cranica, d’altronde si usava già nel medioevo mangiare le teste degli impiccati rossi di carnagione per curarsi l’anemia. Mangiatene in abbondanza, perché il sapore non dev’essere poi così disgustoso. Masticate tutto che io non mi dispaccio. Dopo la testa, se non vi è passata, né la fame, né la curiosità, né il bisogno dello scempio, vi metto a disposizione tutto il resto di me, dai pensieri fino alle budella, dall’occhio sinistro al tallone destro, dall’intestino crasso a tutte e dieci le dita delle mani, dalla giugulare fino al buco del sedere. Da un semplice e banale pensiero di questa mattina a tutto l’intero mio inconscio, compresi i sogni. Aprite senza indugio. Si racconta che alla carne umana, una volta assaggiata, non si può rinunciare. Per cortesia, scavate, strappate, spaccate, masticate a vostro piacimento, infierite senza problemi sui miei pudori e le mie dignità. Fatelo vi prego, perché ho sempre desiderato di essere stuprato e sbranato per sola e semplice curiosità, senza cattiveria, ma così, solamente per vedere come in realtà sono fatto.

giovedì 27 marzo 2008

E cammina cammina


Incrocio i tuoi occhi all’uscita del cinema, sotto la pioggia fitta e gelata, sono grandi, neri e profondi. Hai lunghi capelli castani e una faccia affilata. Ci guardiamo a lungo, come se già ci conoscessimo, come se non ci fosse bisogno di parole. Restiamo a guardarci ammezzo alla gente che apre gli ombrelli, che si saluta, che attraversa la strada o aspetta un taxi sotto la pioggia battente. Ti guardo ipnotizzato senza saperne il perché. Tu non vuoi andartene, resti lì impalata con l’ombrello chiuso. Sei fradicia e immobile. Chi sei, cosa vuoi da me? A guardarti meglio hai una somiglianza impressionante con l’interprete principale del film che abbiamo appena visto, ma no, non è così.
La gente va via, rimaniamo soltanto io e te sui due marciapiedi opposti, nessuno dei due vuole voltarsi ed andare via. Entro nel tuo nero senza nemmeno accorgermene e mi lascio trascinare. Arriva il mio taxi.
I tuoi occhi li incrocio di nuovo quando, vestito da soldato, con la spada tengo lontana la folla di curiosi da un uomo che porta sulle spalle la sua pesante croce. Tu ti fai avanti per dare un po’ d’acqua a Gesù di Nazareth, ma io brutalmente ti ricaccio indietro, nessuno deve aiutarlo, è scritto che, con la dovuta sofferenza, deve salire su quella collina e morire. Io sono un soldato e non mi interessa se quest’uomo merita o no la sua fine, io ubbidisco a degli ordini. Ma i tuoi occhi riescono a farmi sentire un ottuso carnefice. Ci riprovi, corri avanti, ed io ti lascio fare, questa volta faccio finta di niente.. Sei sotto la sua croce mentre lui muore, ed io vorrei chiedere scusa.
Sei ancora tu, gli stessi occhi, lo stesso volto appuntito, accusata di essere una strega. E sono io ad accompagnarti sul rogo, solo perché ti hanno sentito ridere e cantare sconcezze nel sonno, così come usano fare le streghe. Ti hanno preso e trascinata da me per bruciarti in piazza. Accendo il fuoco sotto i tuoi piedi mentre la gente ti insulta ed urla. Mentre bruci mi guardi dritto in faccia, io mi tolgo la maschera e della tua morte atroce sinceramente mi dispiace. Basta con questo mestiere, non voglio più uccidere nessuno. Ma ti guardo bruciare, e dopo di te moriranno altre due, colpevoli di altrettante probabili stranezze.
Mi guardi prigioniera, insieme ad altri, infreddoliti e ridotti pelle ed ossa, tutti in fila, scheletri all’appello davanti alla baracca di un lager. Sei solamente un numero, non hai più diritto a una vita, aspetti solamente che venga il tuo turno. Sei in fila in mezzo alla neve, ed io ho una divisa nera lorda di sangue, ho il potere di vita e di morte su di te. Il tuo corpo, che non vale più niente, posso annientarlo in una camera a gas, gettarlo in una fossa comune o farlo bruciare in un forno. Sono qui per ucciderti. Ci guardiamo a lungo e non scelgo te, i tuoi occhi me lo impediscono.
Quando entro nello scompartimento e mi siedo, ti riconosco, sei tu e mi stai seduta di fronte, riconosco il tuo volto appuntito e i tuoi occhi neri, forse mi sbaglio, ma anche tu hai capito chi sono.
Alzati a va via, altrimenti sarai la mia prossima vittima, non riesco a resistere molto senza uccidere, è un vizio, è un vezzo, è una malattia. Ma tu ti alzi per andare al bagno ed io ti seguo. Entri, non farlo ti prego, non voglio. Ma tu entri e stai per richiudere la porta, io la blocco, in un attimo e senza guardarti, mi ritrovo ad essere ancora il tuo assassino. No, non è vero, ho colpito senza guardare e ti ho mancata. Arrivederci alla prossima volta.
E la prossima volta ritorna in un assalto in piena regola. Entro in assetto di guerra, di notte, all’interno di una scuola e picchio selvaggiamente chiunque mi trovo davanti, ragazzi che dormono nei sacchi a pelo. Lo faccio solamente perché sono pagato per farlo, sono un eroico tutore della legge io, approvo la tortura e adoro l’odore del sangue. E’ una libera e personalissima interpretazione del mio dovere, è un sistema per esorcizzare un pensiero diverso. Ti trovo in un angolo che dormi, ti prendo per i capelli e picchio e picchio, poi ti trascino con me. Ti giri ed i tuoi occhi me li trovo addosso. Non ci diciamo una parola, lascio spaventato la presa, ancora tu. E allora mi accanisco altrove.
Ma non puoi sfuggirmi, ma il destino ci riappiccica insieme, tu credi nella rivoluzione, tu devi assolutamente spararmi, ma volutamente sbagli inspiegabilmente la mira, per un assurdo motivo che anche te stessa non spieghi, non puoi uccidermi. Ci guardiamo ancora, ancora rimandiamo alla prossima volta.
Sono steso in terra in un angolo riparato della stazione ferroviaria quando nuovamente mi accorgo di te, hai due gambe lunghe e i tacchi alti, ti muovi come un’antilope, sei vestita elegante. Mi guardi assolutamente per caso, attraverso la barba incolta e gli stracci intravedi i miei occhi, prendi una moneta senza che io ti chieda niente, ti pieghi lentamente e, dispiaciuta me la posi accanto, sembra quasi che mi sorridi, che sei contenta di rincontrarmi. Ma la donna alla quale ho trapanato la testa per salvarle la vita ha soltanto i tuoi occhi, non sono matematicamente sicuro che si tratti di te, te che sei riuscita per un centimetro ad evitare di investirmi con la tua macchina proprio davanti al cinema dove ti ho visto la prima volta. Scendi dalla macchina, piove, lasci che la pioggia gelida e battente ti bagni. Adesso mi ricordo più di mille anni fa, di averti così tanto desiderato. Finalmente mi prendi per mano e scompari insieme a me nel buio.

sabato 15 marzo 2008

La danza degli infiniti


Disinnescare, fantasticare e rimescolare fino quasi a tarda notte. Ricominciare a declamare la propria improbabile estraneità. Fluidificare la deposizione già depositata in precedenza, cambiare disposizione dei verbi, imbrogliare i soggetti, riconsiderare la propria posizione. Andare a marcia indietro.
Sorseggiare l’accadimento, metterlo a disposizione dell’improvviso rifiuto. Ballare per essere più gradevolmente convincente. Fingere di dormire, fingere di deglutire più volte. Volteggiare nelle improbabili dicerie. Riconsiderare per un’altra intera notte eventualmente il da farsi. Irrompere di nuovo, farsi esplodere nel centro.
Bivaccare, gozzovigliare nella nuova versione dei fatti, sodomizzare i misfatti, ingiuriarli, ridirli a bassa voce ed esercitarsi a ridere. Inoltre ridare forza e nuovo smalto alle virgole, spostare i punti interrogativi, copulare,e godersi gli avverbi. Esercitarsi a minimizzare.
Girare improvvisamente sulla destra. Fermarsi e farlo notare. Rotolarsi e creare solamente due contraddizioni. Ripetere alla rovescia con toni diversi. Distribuire a piacere sei nuove stonature, rifarci di nuovo le pieghe e accarezzarne con lentezza esasperante i bordi.
Cercare almeno sette decodificazioni valide. Invalidare con coraggio tutto l’intero ed interminabile resto. Sospendere il risultato, ridicolizzare il risultante. Candidare altre incognite, altre affascinanti incognite spuntate fuori come per caso. Adesso mettersi in ginocchio, adesso saltare in piedi all’improvviso, puntare in alto e morire per terra.
Giocarsi incoscientemente la libertà, quella che mai più sarà nuovamente proposta. Allora poi sentenziare di nuovo, parlare con slancio ad una folla che non c’è. Contare e ricontare le dita delle mani, gettarle in alto per essere più convincente, inconcludente quanto deve bastare, in alto mare proporsi nuovamente.
Come da manuale invocare il miracolo, mettere in fila per due le speranze, raccomandarsi e cominciare a pregare camminando all’indietro. Saltando però.
Corrugando la fronte.
Poi dritti e di corsa verso l’infinito, respirare a pieni polmoni l’inaccessibile, considerare l’imponderabile, tenendo conto di non essere ancora completamente sospettato.
Ingiuriare se stesso ogni tanto, così da non farsi dimenticare, per provare ad oltrepassare il consentito impunemente.
Dichiarare apertamente di volere sbirciare nell’aldilà, e se si presenta l’occasione di volerlo sfidare in duello, che è bello da sentire, che rende più alteri e più tronfi.
Cambiare quindi marcia e provare a farsi dimenticare, chiudere la finestra e nascondersi, negare e rinnegarsi, cancellare le ombre e d affermare di volersi organizzare la dipartita. Dipartire sul serio quindi, evitando gli inganni, dipartire e mai più ritornare. Facendosi cremare per verificare l’effetto che può fare.

martedì 4 marzo 2008

Sono tornato


E’ il mio compleanno. Sono tornato nella mia bella casa di pietra ereditata dai nonni materni, sono tornato dal mio grande leccio secolare che forma una gigantesca cupola d’ombra davanti alla casa. L’albero che racchiude, nascosti dentro il suo torace molti segreti della mia giovinezza,. i ricordi pulsanti e bagnati dei miei primi innamoramenti. Dentro di lui riposano le pagine che ho scritto e le risposte che non ho più potuto rileggere, perché la guardia forestale, una mattina d’inverno è venuta a mettere il cemento di rincalzo per rinforzare il gigante esausto e malconcio, e ha seppellito per sempre una parte di me, un grande pezzo del mio cuore.
Seduto davanti alla porta, guardo davanti al sole quello che ero, una carriola ormai deformata, la vecchia ruota di un carro, gli alberi, le pietre, l’erba, il bosco che comincia a pochi metri davanti a me, e i cespugli che scandiscono i miei anni. Ascolto il verso degli animali, dispiaciuto perché non riesco più a riconoscerli ed il rumore, quel magico rumore del treno che passa sulla ferrovia più in basso, quel rumore che mi ha fatto compagnia nel buio della mia camera nella casa dei miei nonni, a un chilometro di distanza da qui. Sono venuto per parlare con quello che resta di me, con le mie pensieri annebbiati e i miei batticuore, oramai poco distinguibili, ma ancora presenti.Sono andato via dopo la morte dei miei nonni, deciso ed entusiasta di affrontare la vita di città, a gettarmi in un frenetico mucchio, tutto preso da un’accelerazione soltanto immaginata. E adesso sono qui, il giorno del mio compleanno, messo in fuga dalla consapevolezza di essere troppo debole e troppo ingenuo per la vita cittadina e di avere ancora una volta bisogno del mio padre albero. Sono tornato per raccontare a queste pietre e al silenzio di questo verde tutte quante le mie stanchezze, a scusarmi perché non ho capito che da qui non mi sarei mai dovuto muovere. Annuso l’aria per cercare il latrato dei cani, per riempirmi la faccia del profumo della legna che arde nel grande camino, del profumo di lavanda e della minestra che cuoce lenta e saporita. Per catturare, fra le labbra e la fronte quest’aria così troppo limpida e crudelmente sincera. Sono tornato perché è il mio compleanno.
Salgo ancora sulla groppa del grande leccio, come facevo tutti i pomeriggi di tanti anni fa, la salita è comoda e non pericolosa, i rami sono talmente grandi che non c’è bisogno di appoggiarsi. Accanto alle sue immense radici devono essere ancora seppelliti gli oggetti che rubavo a casa dei miei nonni per rappresaglia, dopo ogni sgridata. Statuette, bicchieri, vasi, piatti, fotografie. Trovo ancora il grande buco, tappato dal cemento, nel quale nascondevo i miei grandi sogni, le lettere a Marisa, la figlia del maresciallo del paese e le sue risposte enigmatiche. Le dichiarazioni d’amore a Maria Pia, l’amica di mia sorella più grande. L’amore, quello strano ed inquietante amore per la mia sorella adorata. Nel buco anche i miei progetti futuri, precisi e chiari in tutti i dettagli, la mia vita come volevo che fosse.Volevo andare in città per fare il dottore. Lì nascosto giace tutto il vino, che venivo a bere, per cancellare le insicurezze e gli appuntamenti mancati, steso su un ramo ogni volta più alto a cantare le mie stonate filastrocche sotto voce.
Nel grande buco, tappato con il cemento, c’è però rimasta una piccola apertura, che si allarga con facilità, ci ficco un dito, poi due, poi tre e sono a due passi dal mio tesoro nascosto. Dentro sento vibrare qualcosa, sono zampe, sono ali, sono centinaia, una nuvola di Ammazzasomari, così si chiamano i calabroni gialli e neri, dei veri e propri combattenti. Escono velocemente dal piccolo foro e si vengono a posare, sopra la testa, sulle braccia, sul torace. Sono immobilizzato dalla paura, ma loro danzano avanti e indietro sulla faccia, s’infilano nella camicia, la loro è una danza gioiosa, è un benvenuto. Mi assicurano che hanno fatto buona guardia alla mia memoria. Ora che mi hanno ritrovato loro si occuperanno di me. Mi entrano in bocca, riescono, mi frugano ovunque e più non se ne andranno.

lunedì 3 marzo 2008

intorno alla notte


La notte, questa notte nasce come la condanna di un tribunale, cambia i colori, stravolge il ritmo del tempo, i suoi rumori diventano più distinguibili e minacciosi. Questa, come tutte le altre notti, ha un esito incerto, cammina su un cornicione, in bilico. Quando arriva, il buio sale lento e furbo dalle caviglie, si sparge nelle vene, invade la pancia, il torace, le braccia, prende possesso delle mani, della gola e le mascelle. Arriva sugli occhi inesorabile e definitivo, e raddoppia il suo effetto, diventa buio nel buio e porta il sonno con se, allo stesso modo di una malattia terminale. Il sonno si appoggia sul mio torace ed aspetta di possedermi a suo piacimento, soddisfatto di rendermi suo servo per il tempo che gli occorre, per il giusto tempo che basta. Una ripetuta prova generale della brutta morte definitiva.
Mi accorgo allora che il mio torace non fa resistenza, si lascia penetrare nei reni, nelle scapole e fin su al naso e la fronte. Mi rimane ben poco per organizzare i pensieri, per non essere preso alla sprovvista e sbattuto, e travolto, e annegato nel mare in tempesta dell’imprevedibile, facile vittima del mio inconscio infido, traditore e dispettoso. In balia di un giochino troppo violento, costretto a brindare ad una festa maledetta e fetida farcita dall’incontrollabile, da visioni apocalittiche ed esagerati presagi di sventura.
Il mondo dei sogni è spietato e traditore. Bisogna stare attenti perché i pericoli e i danni di una sola notte possono avvelenare la mattina seguente e tutti gli altri giorni che dopo verranno, sempre che accetteranno di arrivare.
Ed io così faccio anche questa volta al sopraggiungere dell’ennesima prova generale della definitiva notte. Ancora prima di spegnere la luce, mi scelgo i pensieri in sequenza, la posizione più comoda e le immagini che potrebbero favorirmi un sonno senza danni ulteriori, così da andare in contro a sogni nei quali l’orrore non è di casa. Sogni sicuri, sogni sorridenti.
Mi sistemo sul fianco sinistro, infilo la mano sinistra sotto il cuscino, la mano destra deve restare per solo cinque minuti fuori delle coperte, ma poi devo infilarla dentro e posizionarla a poca distanza dal naso, il naso che deve annusare un giusto e salutare freddo. L’esperienza poi mi suggerisce di non stendere le gambe, ma nemmeno tenerle troppo rannicchiate, e le dita dei piedi è sbagliato e controproducente tenerle accartocciate su se stesse. Il telefono e lo sprai per il naso sempre a portata di mano.
Dopo queste accortezze decido il ricordo con il quale iniziare il pericoloso viaggio e spengo la luce.
Il mare luccicante della città nella quale ho vissuto da adolescente, il golfo, il grande vulcano, il lungo mare, i vicoli stretti della città vecchia. L’odore di cucinato, quell’aria sorridente, tutti quegli occhi spensierati, le ricchezze e le miserie
gomito contro gomito. D’altra parte non è la prima volta che vado ad iniziare la notte a questo modo e mi ritrovo ancora per grazia di Dio sano di mente.
Allora mi avvio davanti alla grande finestra sul golfo della mia bella casa. Le scuole medie,
Ecco, ho ingranato la marcia verso una notte che non mi tradirà, continuo a guardare il luccichio del mare e i vicoli pieni di gente. Ma all’improvviso il rumore assordante di una porta a vetri che, per colpa del vento si abbatte su di me, il mio naso pieno di sangue e un sonoro schiaffo di mia madre. No, questo è un particolare che devo scartare, saltare, eliminarlo subito. Saranno state le ginocchia troppo piegate a chiamarlo in causa. Accendo la luce sorpreso, è la prima volta che risale a galla quella porta a vetri, mi rifiuto comunque di sapere e di indagare oltre, il sonno è già in viaggio verso l’ombellico, mi devo sbrigare. Riposiziono le gambe, mi schiarisco la voce, mi soffio il naso, mi stropiccio la faccia e ricomincio dai miei amici, da quelli che ricordo, dalle facce dei miei compagni di scuola, e poi la mia prima ragazza, le sue guance, quel ridicolo bacio nel buio improvvisato di una festa di compleanno, i tremori della sua pancia, l’imbarazzo. ancora lei con le mani in mezzo alle mie gambe nel buio del cinema “Amedeo”. Uffa, ma il cinema Amedeo non è stata la mia meravigliosa prima volta, così proprio non va. E’ successo durante una lezione di ginnastica in seconda media, mentre saltavo e allargavo le gambe, ho impiastricciato il pantaloni della tuta con qualche cosa di appiccicoso, e così imbrattato sono arrivato a casa convinto di essere ammalato gravemente, non ho detto niente a nessuno. Anche questo particolare è da depennare, saltarlo a pie pari e non tenerne conto.
Continuo con i nomi e con le facce. Paola era bionda e indossava sempre un cappotto blu, Massimo era troppo grasso ed era figlio di un professore universitario, Giancarlo era già un teppista ma dal sorriso sfavillante, Piero sedeva al primo banco della mia classe…no Gesù, proprio lui che un giorno non è venuto a scuola perché è morto suicida, così mi rovino il sonno. Ma forse mi ricordo male io. Vado a bere un bicchiere d’acqua e ricomincio. Non posso nemmeno ricominciare dal mio compagno di banco Alfredo che ha perso tutti e due i genitori giù da una scarpata il pomeriggio che dovevo andare da lui a finire i compiti. Che sfortuna, il giorno dopo all’interrogazione di geografia non ho aperto bocca !
Va bene, ripenso dalla mia grande casa con la vista sul mare. Era stata ricavata da un vecchio convento aggrappato alla montagna, la portineria era all’ultimo piano, il portiere si chiamava Enrico ed era fesso e pure antipatico. Un giorno, insieme a mio fratello gli ho scaraventato dentro casa una grande busta piena di bombe puzzolenti al gusto di uova andate a male. L’androne davanti alla porta di casa ci serviva per giocare a pallone, urlare a perdifiato, picchiarci e correre con i pattini a rotelle. I’appartamento era addirittura a due piani, lo studio di mio padre aveva una vasca di pesci rossi. Dalla terrazza e dalla finestra di camera mia potevo vedere il golfo tutto intero, con il mare immenso, due isole e le barche, tante, piccole e lontane. La scrivania dove ogni pomeriggio mia madre m’inchiodava per fare i compiti era piazzata proprio davanti alla grande finestra dei sogni. Mi sedevo e scrivevo su un grande foglio di carta “La matematica mi fa schifo”. Urla e schiaffi, schiaffi e urla di mia madre davanti a quel panorama da sogno. Non posso permettermi di arrendermi al sonno con codesti dolorosi pensieri, non posso proprio perché rischierei di risvegliarmi con qualche difetto importante.
Rimescolo in fretta nei ricordi e pesco il viaggio premio per l’avvenuta promozione, ma lo devo abbandonare in fretta, perché le immagini della corrida mi fanno sobbalzare. Infierire su un toro, accompagnando la tortura con grida di gioia, tutto un intero stadio, ed io con le mani davanti alla faccia a supplicare di non ucciderlo.
Di corsa a pesca di un altro ricordo decente, in un vuoto temporale causato proprio da quella corrida, dalla spada imbrattata di sangue, dal berretto nero del torero lanciato in aria, da quella gioia collettiva e assassina.
Mi giro allora sul fianco destro, azzardo una manovra mai tentata prima, mi abbraccio stretto, vado alla ricerca dei miei amori.
Titti, eternamente sopra di me, a cavalcarmi e cavalcarmi, fino a quando un giovane turista orientale non le ha pestato un piede. Paola che era innamorata perdutamente e solamente dei miei occhiali, ho cambiato montatura e la sua passione per me si è dissolta. Olivia che non voleva mai togliersi le calze, che aveva i capelli troppo lisci e neri con dei riflessi blu, che non sapeva spogliarsi, che un giorno intero senza far l’amore non poteva stare. E’ bastata un brutta influenza per far finire l’incanto. Giovanna, dalla quale una sera non riuscivo più ad uscire, incastrati così e trasportati al pronto soccorso coprendo l’imbarazzo con un solamente un lenzuolo. L’imbarazzo fu troppo bruciante. Milena, troppo secca e troppo pazza, che ho potuto amare solamente ad un metro di distanza e con parole ben studiate e su misura. E alla fine quel volto senza un nome, quel corpo così caldo e attraente senza una forma, quell’alito inebriante addosso a me senza una data di nascita e un colore, quel ritmo del suo ventre a tempo di musica, per anni aggrappato a me evanescente. Con quel corpo vicino, in cielo e in mezzo ai prati, nell’acqua e sulle cime delle montagne, a me sempre incollato.
Così, adesso posso finalmente dormire innamorato, ingordo di quell’umida pancia invisibile ed ubbidiente ad ogni mio desiderio.
Il sonno arriva che ho fatto appena in tempo. Un sogno così ovale e suggestivo.
Sposto una gamba, mi assesto, mi rigiro sicuro ed il libro che ho lasciato incustodito sulla coperta si apre spintonato da me a pagina quindici. Dalla pagina quindici esce il fumo dei corpi di migliaia di deportati, i corpi scheletrici ammucchiati al gelo di uno spietato e macabro inverno, accanto ad una montagna di denti e occhiali, e un fetore che cresce e non si vuole fermare. Il sogno si sposta e mastica e ingoia quella pagina crudelmente inopportuna.
Ed io mi ritrovo a navigare nell’orrore.
Prigioniero per sempre di un sogno che non mi appartiene, respiro quel fumo e quel tempo e come loro rimango imprigionato nel lurido e nell’ingiusto.

lunedì 25 febbraio 2008

occhi


Sono capitato dentro il buio per caso. Mi sono perso. Sono uscito di casa per andare a fare la spesa, pochi metri, il giro dell’isolato soltanto. L’unica variabile della mia giornata, gli unici colori diversi, facce e cappotti che mi passano davanti, mi sfiorano, mi urtano, parlano fra di loro e di me non si curano. L’unica vita che respiro oltre la porta di casa, oltre il non ricordo, oltre c’è il troppo lontano, in un tempo che non vedo più. Il passato l’ho consumato e disperso ogni volta che mi sono stropicciato gli occhi, ogni volta che mi sono lavato la faccia, ogni volta che ho ceduto al sonno, ogni volta che ho pericolosamente riflettuto sul mio nome, ogni volta che ho guardato lo specchio, lo specchio che da tempo non ho più. Sono rimasti solamente alcuni automatismi, sgretolati nel ripetersi.
Il mio mondo diverso solamente nel supermercato, in un pacco di pasta, un succo di frutta rossa, un barattolo di pomodori e la peperonata. La peperonata, sì. E quei rumori, sempre gli stessi rumori. La cassa del banco che si apre e si chiude, la magia della calcolatrice sotto la luce dei neon, un altoparlante per ordinarmi di acquistare qualcosa di più conveniente. Ma non voglio abbandonare la mia peperonata. Il giro dell’isolato solamente, se non piove ovviamente.
A schivare gli escrementi del grosso cane nero, ad evitare il saluto sottovoce del tabaccaio che mi aspetta davanti alla sua porta, che vuole prendersi finalmente la soddisfazione di ascoltare una mia corda vocale. La sicurezza del marciapiede sempre quello e della memoria del percorso da fare. Il peso della spesa nelle braccia. Poi a casa, ricontando i passi, per essere più sicuro. Ma qualcosa interrompe il mio ritmo, una ferita nel marciapiede, un inciampo imprevisto e la busta della spesa non pesa, non c’è. Mi giro indietro, il supermercato che avrei dovuto già oltrepassare da quaranta passi, non appare al suo posto. La strada non è questa, non è la solita. Il buio così fitto non era con me, mi ricordo d’essere uscito ch’era mezzogiorno. Mi sono perso.
Mi sono perso. Cammino per strade e costruzioni misteriose. Non c’è niente di familiare nemmeno nel rumore dei miei passi e nel fruscio dei pantaloni. Stavo tornando a casa e adesso non so. Vicoli stretti, nero profondo e odore di escrementi, nemmeno un lampione, nemmeno un negozio, il rumore delle macchine si allontana e mi vuole lasciare da solo. Più nessuno per strada. Cerco di riassumere, dal nome, alla statura, se ho gli occhiali o sono senza, oppure un solo ricordo solido e fondamentale per non aver paura. La peperonata, solo quella. Quale parola posso ora recitare a voce alta? E un’ombra qualsiasi a cui chiedere la strada? Intanto ripeto per esteso la mia data di nascita, intanto mi ritrovo chiuso in una strada di fango che odora di cipolla, magari fosse almeno peperonata. La porta di una baracca appare fra le mie gambe e l’universo nero, è socchiusa, è quasi scardinata, è marcia. Ma dentro si sente tossire. Altro non posso fare, smetto di piagnucolarmi ed entro.
Nel buio pesto mi accorgo della sua faccia, assalita da un solo raggio di luce in diagonale, che gli invade gli occhi e tutte quante le sue rughe, fossati profondi in un canion inaccessibile.
Gli chiedo dove mi trovo e come posso tornare indietro. Si sforza di vedermi meglio, con quel raggio violento che taglia il buio è difficile. Non sono sicuro che mi stia sorridendo, mi aggancio comunque ai suoi occhi aperti in due sottili fessure. Adesso provo a chiedere nei dettagli la strada del ritorno.
Dal letto si alza a sedere, espelle violentemente dalla gola un grumo di catarro, un libro sgualcito cade sul pavimento, non riesco a capire da dove venga il raggio di luce violenta che gli aggredisce la buccia del viso. Il mio domandare obbligato è coperto da un ennesima eruzione violenta di muco giallastro.
Non mi risponde, cerca ancora di capire chi sono, cerca gli occhiali, dimenticati su un piccolo tavolo ferito a morte, insieme a due sigari. Se lì infila, storti e appannati, facendo leva sulle braccia, si tira ancora più su. Stava dormendo vestito. Ripeto allora la mia stupida ma necessaria domanda.
- Mi scusi, dove mi trovo? Come faccio a tornare ? Come mai è già notte ? Come mai non riconosco niente e nessuno? Il supermercato sa per caso dov’è? –
Mi accorgo che qualcosa appare dietro di me, indistinguibile nel buio, mi oltrepassa strusciandomi le scarpe e si va a nascondere sotto il letto. Sembra un enorme corpo umano, mi accorgo appena di tutti i suoi muscoli nudi e possenti,. Ha la spalla destra disegnata, forse un drago. Mi sposto indietro, ma non voglio chiedere spiegazioni. L’intero letto si muove ancora una volta, intravedo nel buio un gomito, una natica, una mano, che si sistemano e si rintanano lì sotto.
Il vecchio cerca sul comodino il mozzicone di sigaro, se lo mette in bocca e, senza staccare gli occhi da me, mastica e sputa.
- Se lei mi dice dove, io vado –
E mi ricordo che dell’enorme corpo non ho visto la testa, non ha una testa, solamente il drago.
Il vecchio, senza ancora regalarmi una risposta, riesce ad agguantare la scatola di fiammiferi e da fuoco al suo mozzicone, una, due, quattro volte, scatarra ancora, riprova ancora, si gira per vedere se sono ancora lì, se per caso non sono terrorizzato definitivamente. Adesso si gira verso la parete accanto a lui, m’invita a guardare, e soffia via una nuvola di fumo.
Come un miraggio ma sì, un’anziana donna riposa seduta su una panchina, indossa un lungo vestito a quadretti e un ridicolo cappello, fra le sue gambe di legna secca tiene un bastone. Come ha fatto questo diavolo di un vecchio? Quale stregoneria ha usato? E’ curioso, anzi è assurdo, ma mi sembra di riconoscere il posto. A questo punto dovrei girare su me stesso e scappare via, ma invece la mia mano tocca la spalliera di una sedia, ci cado a sedere dentro. E adesso mi accorgo della fotografia incorniciata sopra la sua testa,. Qualcuno a torso nudo tiene per mano due bambini, obbligati a stare in posa, fermi, immobili, a lungo, dietro di loro le montagne o finte o vere, con la neve ormai gialla. L’uomo mi guarda dritto in faccia, mi chiede se ho capito, se magari lo riconosco.
- Chi sono ?-
Il vecchio non risponde. Però riesco ad intravedere un suo pensiero. Chi sta seduto sulla riva del fiume insieme ad altri che sembrano dormire? Potrebbe essere una domenica pomeriggio. Ha una camicia, si volta un attimo verso di me, fa un cenno di saluto, si sta allacciando una scarpa, contro voglia si alzerà ed uscirà dal pensiero. Del fiume riconosco l’odore. Il pensiero del vecchio svanisce, si perde sul soffitto insieme al fumo del suo sigaro.
Voglio alzarmi a questo punto, leggere nella testa di quel centenario mi fa sudare le mani. Ma sono sicuro che mi obbligherà ad ascoltare il seguito. Una mano, poi il braccio del grande corpo nudo, riappare da sotto il letto, non ho paura, mi chiedo a proposito del tatuaggio, mi viene in mente che anch’io, … Il vecchio fuma lentamente e lentamente alza i suoi occhi sul soffitto. Sul soffitto , un grande piede di pietra. Il suo pensiero mi racconta di un viaggio, di un sogno che si ripete, di una grande statua che sorveglia il suo sonno.
La pietra fredda e imponente me la offre fra le mani. Ascolto una preghiera e poi mi accorgo di un giovane monaco immobile, in ginocchio, davanti al grande piede, stiamo in silenzio l’uno accanto all’altro, e la sua fede gorgoglia, gli scende dalla gola, scivola sul prato, mi sfiora, poi lentamente risale nella sua bocca. La guardo come se fosse un’immagine mia.
Il vecchio tossisce forte, allunga la mano di nodi per prendere il bicchiere sul tavolino e buttare la cenere, un bicchiere incrostato, così talmente stanco. Dentro il suo vetro maltrattato tre donne parlano di cose irraccontabili, mostrano la pelle troppo bianca e i fianchi pesanti. La prima mi mostra il sedere e ride, la seconda mi assicura che il suo seno è il più bello, che in nessun bordello se ne trova uno uguale, che lo posso toccare se voglio, tanto sono così giovane, tanto che ancora non capisco.
E’ forse possibile che anche mio nonno avesse un bicchiere così? E il mio viaggio continua mentre il vecchio, attraverso le rughe, mi scruta furbo e mi racconta ancora senza aprire mai bocca.
Posso riconoscere una strada, nella parete buia alla mia sinistra. C’è un ubriaco steso in terra che sembra morto, una donna gli passa vicino, gli guarda le mani arrese, la giacca vecchia e sporca, i pantaloni aperti. Si ferma, fruga nella tasca, ci pensa, ma poi si allontana. Ma chi è quel bambino che si porta sottobraccio due grandi bottiglie ? E tutta quella folla pigiata che aspetta, aspetta che un corpo finisca lentamente il suo consumarsi sopra un fuoco sacro e definitivo, mi sembra di riconoscere fra tutti una testa, la stessa testa dell’uomo che sta aiutando altri a tirare via da un gancio un giustiziato e martire quarto di bue.
Il vecchio manovra per alzare in piedi il suo tronco dal letto sudario, dietro di lui posso scorgere le mura di una città vecchia, più vecchia di lui addirittura, delle mani tese aspettano la razione di pane e adesso un pittore, con la sua donna nuda a fianco, non completamente finita.
Il vecchio è riuscito ad alzarsi, raggiunge il centro della stanza, urta lo spigolo di un tavolo che non avevo ancora notato, va verso la porta, la apre ed esce. La luce che viene da fuori illumina un piatto al centro del tavolo, un piatto con i resti di una peperonata..
- La mia? ! –
Un paesaggio di campagna mi entra nel torace, poi il sorriso di mia madre, la donna con il suo bastone, e l’uomo a torso nudo nella fotografia mi saluta ancora una volta, mio padre mi tiene per mano.
Sono stanco, sento le gambe vecchie e pesanti, mi alzo dalla sedia e mi dirigo verso il letto, il mio. Mi stendo e riconosco ogni cosa, ho ritrovato la strada, me stesso e dormo.

mercoledì 6 febbraio 2008

dentro


Finalmente decido di farmi guardare dentro una protuberanza in più che mi ha sempre pesato, che è sempre stata sopra la mia testa. Una mattina il barometro e l’amara constatazione dell’esaurimento del caffè nel suo apposito contenitore, mi suggeriscono di vederci finalmente chiaro sul perché del mio inseparabile ed antiestetico bozzo.
Si tratta di una risposta difficile, articolata e complessa, capace di scatenare degli strascichi che non possono essere sottovalutati. Ascolto il dottore che quasi non può predersi sul serio.
- Giacciono rinchiusi e ben protetti sulla sommità della sua testa, un ciuffo di capelli, due denti e la falange di un mignolo che non le appartiene –
Per essere più orribilmente precisi, apparterrebbero a un mio fratello gemello. Quelli racchiusi dentro di me sarebbero quindi i suoi miseri resti, del resto perfettamente conservati..
Guardo sbigottito il dottore, nemmeno respirando
- E’ difficile dire il perché, ma se lo è mangiato lei -
- Per caso l’ho ucciso, l’ho giustiziato? Sono allora in definitiva un cannibale? –
L’esibizione del dottore perde di forza e affonda. Si toglie gli occhiali, si rimette gli occhiali, prende in mano una penna, riposa sul tavolo una penna. Tenta di costruire un sorriso, rinuncia al sorriso.
- Lei adesso come adesso ha bisogno di una terapia d’appoggio e un momento di riflessione per metabolizzare nel modo più corretto l’accaduto, per fare mente locale sul prossimo da farsi –
Dopo uno sbigottito sonno, ad occhi spalancati, senza nessun sogno declinato per intero e degnamente raccontabile, la mattina lancio per aria la tazza del mio irrinunciabile cappuccino. Lo faccio e non ne capisco il perché.
- Che cosa orrenda ho fatto, che cosa disgustosa, ma poi perché mai ?! -
Poi mi capita di alzare lo sguardo allo specchio del bagno, che si trova lì in agguato, che probabilmente sono anni che aspettava questo momento. Non avrei dovuto farlo, proprio no davvero. Mostra me stesso con i denti scoperti ed i capelli di un altro colore, mi vuole fare vedere in faccia il sangue del mio sangue che ho giustiziato e masticato nel caldo liquido della pancia di mia madre. Lo specchio va in frantumi,
- Mi puoi sentire? Puoi perdonarmi? Devi. Un motivo? …Perché, che bisogno c’avevo anche di mangiarti?-
E mentre le schegge si spargono fragorosamente sul lavandino e intorno, mi arriva nella testa un rumore, la bozza di una voce terribile, cupa e lenta. Gesù ma che film è mai questo, Di chi è questo orrore. Comunque mai più davanti ad uno specchio.
- Sei tu? E’ questa la tua voce? Ma perché mi spaventi ? Così è andata oramai -
Sventrato lo specchio, scopro che non voglio mai più stare solo. In compagnia forse non oserà sgridarmi, non mi metterà le mai al collo, dovrà per forza rinunciare. Ma non trovo nessuno disposto a diventare spettatore e complice di un crimine così orrendo, di uno che urla all’improvviso nel mezzo della strada. Lo faccio annusando nell’aria, senza saperne il perché. Urlo, insulto e sputo. Bestemmio. Ascolto me stesso impotente senza potermi scusare o spiegare. Cosa penserà di me il viandante poco me ne importa. Sembro caricato con la molla, sembro uno scherzo di carnevale, la punizione di un gioco imbecille.
E’ lui che muove i miei fili, è lui che sghignazza dentro il mio lobo centrale destro. Ed io non lo posso fermare.
- Buon giorno vicino –
Mi apro i pantaloni, li tiro giù e gli mostro il sedere nudo e crudo, poi cammino all’indietro per andarmene.
Sono anche convinto che all’improvviso trovo mio fratello dietro la porta della cucina, con me in Ascensore che mi guarda torvo, che mi vorrebbe mollare un ceffone, o che mi prende per un orecchio e me lo storce in mezzo alla calca del trenta sbarrato.
- Eri d’accordo con lei, è nostra madre che t’ha detto di farlo ?-
Quella voce profonda, quel terremoto che ho udito nella pancia poco prima di uccidere, era ovviamente la voce della mia tenera mamma
- Non ho mica i soldi per mantenervi in due, mangialo ora –

Ecco, forse è così, è lei l’istigatrice, il mostro, la mia tenera mamma
- Io sono soltanto un esecutore inconsapevole, e affamato. Allora siamo intesi, prenditela con lei -
Insomma, io ho paura di avere paura che quella spiegazione non gli basti, vuole sapere del pranzo, del pasto crudele…del perché degli avanzi. Forse perché ero sazio?
- Infierire no, mai, e poi su mio fratello ! Guarda ti prego, non me ne faccio una ragione. Sono pentito, sono esterrefatto, sono quasi impazzito, continuo continuamente a pentirmi. Adesso è tutto chiaro? -
No signore, io per strada non esco, capita che mi dimentico chi sono e dove devo tornare, perché le mie stranezze non si fermano più, perché ho paura di riconoscerlo nella faccia della farmacista o del fruttivendolo, dell’idraulico o del garzone del lattaio. Può apparirmi dietro ogni angolo, qualsiasi spigolo, portone, finestra, voragine nella strada, camino, cassetto, fessura nel muro. Potrebbe cadermi dal cielo giù, addosso.
Ma nemmeno dormire, perché poi nel sogno non mi saprei difendere, e perché avrebbe la sua vendetta troppo facile.
Allora armato di un coltello da cucina lo attendo, ed ecco che squilla il telefono, vado …ed è lui a mettermi la cornetta nelle mani, lui che mi guarda dritto con la sua faccia masticata da me, senza più un occhio e con le budella che gli pendono di fuori
- Ciao, come stai? Non rispondi al telefono ? Che fai, te la fai addosso? Adesso tocca a me –
Il coltello me lo tiro su un piede. Si è preso la mia voce e ci nuota dentro, sorride, allunga una mano per acchiappare la mia identità, per strapparmela via, io scappo ed inspiegabilmente mi metto a ballare, giro su me stesso, saltello, non sono più io. E giù per le scale e in strada a spintoni e calci.
- Oddio signora mi scusi, mi creda, veramente non volevo sodomizzarla, è mio fratello gemello che mi spinge a fare certe cose. Mio fratello che se m’arrestano non gli importa–
- Ho fatto veramente la cacca dentro la fontana? Mi spiace –
Entro nella banca in mutande, in mutande vengo scaraventato nella sala da tè.
Immergo la testa nel water, anzi è senza dubbio lui che mi costringe, che spera di farmi esalare l’ultimo respiro. E’ così che schivo solo per un miracolo una macchina in corsa.
Apro gli occhi e guardo in giù, sono sul cornicione del settimo piano.
- La mamma l’ho fatta saltare, e te non vuoi andare? –
E’ soltanto uno scherzo cattivo, ondeggio sul primo scalino di un orologiaio e a lui mi metto a raccontare il mio orrendo crimine, gli canto la mia storia.
- Un ciuffo di capelli, due denti ed un dito –
- Dove abita? Chi è lei, come si chiama? –
Gli rispondo in una lingua sconosciuta, salto, rutto, e scompaio nel mio tragicomico enigma. In balia della vendetta dispettosa.
Riesco a fuggire dal gas della cucina aperto e ad una ben più precisa revolverata. Decisamente decido chiuso in un armadio in tre soli minuti di lucida apprensione, di farmi togliere via i poveri resti di mio fratello con l’aiuto del bisturi.
Devo contare fino a dieci perché l’anestesia faccia effetto, in fretta devo fare, che lui è lì che mi guarda, in piedi.
Adesso basta, adesso per la seconda volta ti mando al creatore.
- E’ tutto finito, si svegli, si ricorda per caso il suo nome?–
Apro gli occhi addosso alla grande luce sopra di me e dico quel nome, il nome assegnato al mio fratello gemello.

mercoledì 9 gennaio 2008

Infilati nel bianco




“Una punta ,un’eresia. Un rotore, Una teoria”
Questi sono versi li ha scritti mio padre, scienziato di mestiere, ma anche artista, ma anche geniale svitato.
Tutto è cominciato con un thermos di cristalli di emoglobina che si portava dietro da un continente all’altro. Una magnifica avventura, lui la racconta così. Ma gli effetti collaterali dell’avventura sono stati nefasti.
I tentativi di dare una forma intelligente alle sue stranezze, lo hanno trascinato sul tetto di casa. Non so nemmeno se è vero che sono andato, di notte, per convincerlo a scendere, con la polizia di sotto, con la casa piena di animali. E poi il manicomio, a quell’epoca si chiamava così. Da un primo manicomio a un secondo, il ricordo delle sue braccia legate l’ho riposto nel fondo di me. E adesso qualcuno mi racconta che scappava dai cinesi nascondendosi dietro i pilastri della stazione ferroviaria. Mia madre lo ha detto. Poteva anche tacere mia madre.
Ma allora di che uomo si tratta ? Come può ,un uomo di scienza, salire su un tetto e mettersi ad urlare… aveva in mano anche una pistola giocattolo, oppure un lanciarazzi, qualcosa di sicuro aveva. Non so, forse anche questo adesso mi sembra un ricordo sbagliato. Una cattiveria da pescivendoli.
Uno scienziato è giusto che un po’ svitato lo possa diventare.. Dicono anche che la notte la passava scrivendo formule matematiche sulla carta igienica. Anche questa una bugia? E allora le sue distrazioni, i treni sbagliati, gli appuntamenti inesistenti, il motoscafo saltato per aria per colpa di una sigaretta, il laboratorio dell’università saltato per aria a causa di una banale distrazione.
Ancora una voce cattiva si è divertita a raccontarmi che aveva già tradito mia madre in viaggio di nozze. Affari suoi, sicuramente gonfiati e stravolti da un’aneddottica troppo facile.
E poi c’è quella storia della ragazza cinese. Una stupidaggine !. L’avrebbe conosciuta in America, forse una studentessa, e lei lo avrebbe seguito sulla strada del ritorno. Mica le aveva detto ch’era sposato. Ripudiata, scacciata e suicidata su un treno regionale, di quelli con scomodi sedili di legno, che vagano nelle campagne in cerca di stazioni dimenticate. Comunque la sua scienza e la sua presunta pazzia mi hanno sempre messo a disagio. Parlarci era difficile. Capirlo era difficile. Guardarlo vivere era difficile. Smentire gli aneddoti da barzelletta è tutt’ora impossibile.
Era prigioniero, solo e soprattutto. Prigioniero di se stesso, legato da corde che si formavano dalle estremità delle sue dita, imbavagliato da una bava collosa che gli scendeva da alcuni pensieri indecifrabili. Un doppio di se stesso lo tirava in dietro.
Ricordo i pranzi insieme al ristorante. Parole isolate, un specie di sorriso di traverso, e poi tutti e due con gli occhi affogati nel piatto, io a pensare a qualcosa di interessante da dire, lui non so, lui nel torpore del suo silenzio, lui a scappare dai rimorsi suoi, lui appiccicato nei suoi universitari muti ragionamenti. Volevo ogni volta scappare, il conto ci metteva sempre troppo.
Ricordo tutte quelle bottiglie di whisky vuote in salotto, erano la base di un tavolo. Ma lui può permetterselo, lui beveva perchè poteva, perché la sua intelligenza si è presa l’impegno, ed ha la superbia di preservarlo comunque, nell’eternità. E poi bere è cosa da grandi, e poi si tratta di una sfida, e poi per il professore è un gioco intelligente, un atteggiamento implicito.
Mi ricordo la cucina di casa sua trasformata in laboratorio, per studiare e pensare alle alghe, per credere e materializzare il cibo del domani., mi ricordo la fede incrollabile delle sue ricerche. Era strano mio padre?
E adesso mi ritornano le immagini di una sua lezione all’università, in un’aula enorme gremita di studenti, attenti, carta e penna alla mano. Mio padre era di spalle alla lavagna, dall’ultimo banco in alto appariva come un quadruccio di striminzite dimensioni. Parlava fitto e a voce bassa, diceva a se stesso di spalle all’aula, e con un gesso disegnava formule su formule alla lavagna. Pochi secondi, e poi cancellava, la lavagna si dimostrava troppo piccola per tutto quel sapere. Passava oltre.
Gli studenti pur di seguire quella sua lezione da ventriloquo, scendevano dai banchi e gli si accalcavano addosso. Ma aveva già cancellato. Una chiacchierata interminabile con se stesso.
Uno di loro era rimasto seduto e guardava meditabondo un pezzo di pongo informe, sul banco, davanti a lui. Il pongo aspettava impaziente una forma qualsiasi. Ma quale?
I rapporti fra di noi sono sempre stati complicati e pieni di curve. Il suo linguaggio oscuro e sicuro, contro la mia schiuma confusa, le frasi a metà, i pensieri anche. Poca profondità, una sostanza abbozzata come il pezzetto di pongo che ancora non ha deciso la sua forma e mai potrà, in un cavolo di mondo che giura e spergiura, ch’è troppo veloce per tutti.
- Usciamo e parliamo? –
Un sabato mattina, a sorpresa
In macchina, attraverso la città che a rotta di collo si muove, cerchiamo in silenzio qualcosa da dirci.
- Parliamo di sesso, di come si fanno i bambini, oppure…?
Dieci anni c’avevo e quello non mi sembrava un argomento interessante, però se poteva trasformarsi in un inizio…Aspettavo il seguito.
Ma siamo già arrivati all’università, siamo già entrati nel suo studio, si è già immerso nelle carte, ha già cominciato una interminabile telefonata in inglese. Io mi guardo intorno e gli voglio chiedere di un colore, di quel tavolo grande. Ma lui esce dallo studio e mi dice di aspettare. Resto solo davanti ad un quadro gigantesco, un volto minaccioso che mi pianta gli occhi addosso ovunque mi sposto. Dopo due ore la sua mano sulla mia spalla mi libera dall’incubo e mi riporta casa, promettendomi una futura prossima volta. Il quadro è quello di un mio antenato, bruttissimo, minaccioso e Santo.
La prossima volta studierò qualche bella frase da dire.
E adesso l’unico suo schiaffo mi ritorna in mente. Quello il giorno che ha allungato la nostra distanza all’infinito?
Siamo in Spagna, in un viaggio premio per la mia promozione in prima media, o forse quella di mia sorella. In Spagna a guardare la corrida con le mani davanti alla faccia per non guardare la morte. Il suo schiaffo è calato su di me perché mi sono rifugiato a giocare dove nessun torero potesse raggiungermi
Il suo unico schiaffo era fuggito insieme a lui e chissà dove ed appresso a quale molecola o donna, e ritornato per cercare di spiegarmi come era potuto accadere. Ma le sue parole, come sempre non avevano suoni per me comprensibili.
Il disagio e una colpa pronta e confezionata da poter esibire come prova.
- Di me poco gliene importa –
- Ha tradito mia madre, è scappato con quella, certe volte neanche telefona la domenica. –
- E’ strano, è cattivo, è davvero un po’ matto? -
- Beve troppo, come farà a capirci qualche cosa –
Ha un altro figlio, oltre noi tre, nato quella stessa sera nella quale s’era rifugiato sul tetto, il figlio di un altro lui, un ennesimo. Un figlio nato da una donna comparsa da una magia. Ma tutto si perdona ad uno scienziato che adesso si è messo in testa di diventare un artista, un orgoglio in più, oppure un modo di mascherare una follia incontrollabile che gli preme le tempie, che già gli ha regalato un sibilo acuto e continuo, di notte e di giorno, sempre, tanto che per pensare deve accendere la radio.
Adesso ha un tono di voce diverso. Si è messo a dipingere, si è messo a sognare. Salda insieme grandi strutture di metallo vibrante. Poi disegni e poesie, ripetitive e sempre quelle:
“Un martello Una clessidra.Uno smalto Una tastiera “
I disegni infantili. Follia pura può darsi, ma più umana e fragile della sua scienza.
Forse potrei amare più facilmente un artista scienziato.
Allora ritento un approccio, allora gli mostro cosa anche io riesco a fare. Una sera. mi presento da lui e gli dico
- Lavoro per la televisione. Ho una mia teoria sulla preistoria, faccio dei riferimenti e azzardo altri fatti da altri tralasciati, arrivo alla fantascienza . Ti accendo il televisore e ti faccio vedere ? –
Avevo trovato la chiave, mi ero costruito una mia genialità da esporgli.
- Fantascienza? –
Già s’era girato dall’altra parte, doveva cercare un libro, s’era dimenticato di me. Il suo sapere incrollabile aveva ricominciato a prendermi a calci nel sedere. Le sue formule non ammettevano repliche. Un figlio? Il più sensibile? Niente affatto, non si può mica tornare indietro dal seminato. Niente eresie, che questo non è un gioco. Rispedisci tuo figlio da dove proviene con il suo tenero e blasfemo filmato in tasca. Io sono la scienza, non posso ne concedere ne pensare altre cose.
- Nemmeno la fantasia può trasportarlo fino a me –
E intanto il suo pianoforte, che ha sempre suonato la medesima canzone, mi consigliava di non tornare, di prendermela a male, ch’era una battaglia perduta in partenza.
Con l’intransigenza cucita addosso, ascoltavo di lui, rifiutandomi di vederlo e rifiutandomi di sorridere. Il silenzio allora…
“Una foglia un orbitale una goccia un’illusione”
Mio padre un mito folle, mio padre e la prepotenza del sapere, mio padre la quinta essenza del menefreghismo , mio padre un dispiacere sfilacciato nel tempo. Fra me e lui l’antartide.
Ma la sua scienza continua a camminargli sottobraccio, a sfidare il sapere canonico, l’arte intona la sua canzone imbarazzante e il suo nome vola al disopra delle città universitarie, degli stereotipi fritti e rifritti, sbeffeggia i luoghi comuni, fa il verso al già visto, azzarda intuizioni, spintona gli oscurantismi, alza la voce, ignora regole e confini, si spinge oltre l’orizzonte curvo, disegna mappe indecifrabili ma curiosamente possibili. Migliaia di pagine le sue, scritte senza conoscere ne soste ne stanchezze, dimenticandosi lungo la strada addirittura la sua identità, sdoppiandosi e continuandosi a sdoppiare, perdendo i pezzi e spargendoli in un’universo più grande. Uno scienziato, il più geniale e il più matto.
Il prezzo è altissimo, ma deve essere pagato per intero. Io annuso di lui la sua forza con imbarazzo…con la consapevolezza di avere perso l’ultimo treno della sera. Anche le sue cadute diventano merce preziosa da ascoltare rispettosamente. La sua saliva diventa una traccia da seguire. Il professore ha detto, il professore è stato qui, il professore ha le sue insolite e giuste teorie.
Fino a quando gira una chiave, una domenica pomeriggio, si apre una porta e non ricordo quale fratello mi dice:
- Ha il cancro –
Deve ridirlo perché io lo possa per bene capire.
- Tuo padre, il professore, ha il cancro -
Cerco…. qualcosa da dire e da chiedere, cerco… una manciata di comprensione dentro e fuori di me..
- Giù in fondo nel lobo del polmone sinistro -
- Quale padre? Quale cancro? –
Ed io adesso sono lì, scaraventato davanti a lui, che dopo vent’anni quasi non riconosco.
Cerco…
“Un rumore, un’inflessione, un sistema, una creazione”.
E’ seduto su un divano con gli occhi spaventati, sembra ubriaco e perduto, sta masticando chissà quale formula, non è più irraggiungibile, non è più il professore. La televisione trasmette una partita di calcio a volume altissimo. Il fischio nell’orecchio, quasi non ricordavo, non l’ha abbandonato, anzi anche io adesso posso sentirlo. Questo è adesso mio padre, centrifugato dentro un tempo che non ho più voluto guardare.
Mi fa vedere un pezzo di carta scritto e firmato. Leggo e rileggo ancora
- Carcinoma c’è scritto –
- Esattamente mi vogliono appiccicare una malattia che non ho. Mi vogliono far credere che ho un cancro. C’è scritto nero su bianco che non ce l’ho -
- Tua madre, i tuoi fratelli me lo sono venuti a urlare in faccia -
- Non ho un tumore è chiarissimo. Me ne intendo io, sono un luminare io –
Perchè si diverte adesso a negare questa lugubre evidenza ? Perché la sua scienza s’è messa in testa di commettere questo omicidio, perché vuole imbrogliare le carte e punirlo?
I suoi occhi spalancati mi spiano
- Una macchinazione! –
- Un complotto venuto dall’alto ? -.
- Annientiamo il professore una volta per tutte, facciamola finita una buona volta con lui –
Parla come un ferito a morte aggrappato a un delirio.
- Se qui c’è scritto che non si tratta di tumore, tumore non è. E forse quel medico non è altro che un compagno di scuola di tua sorella, oppure l’amante di tua madre per caso. Io invece sono un professore universitario –
Vuole che m’infilo nel suo farneticare e ci resto. Qual è mio padre, dov’è seduto?
Cerco nelle corde vocali.
Alle pareti del salotto sono appese le sue poesie incorniciate, i suoi disegni infantili….la sua scienza è relegata in una grande biblioteca ammuffita e invasa dalla polvere. La sua scienza ha perduto, tace.
Accanto a lui il figlio, l’altro figlio nato da una magia, il ladro del mio nome, la mia stessa voce, lo stesso difetto sulla guancia sinistra. Guardava e si agitava dentro un impasto acre di rancore appassionato, con la pericolosa convinzione di essergli specchio. Parla e ride forte, cercando di coprire quella fine annunciata, tentando di riportare il mio illustre padre al suo sapere protettivo.
Siamo arrivati in clinica. Siamo lì, prigionieri del bianco, stesi su un letto bianco di una camera bianca, sono accanto a mio padre, lo guardo, ascolto le sue parole incomprensibili, spezzettate..
Nel corridoio appaiono velocemente due lunghe poltrone che prima non c’erano, ci preparano al pellegrinaggio dei grandi cervelli, gli illustri colleghi dell’università, certe facce appuntite, discrete e dal sottovoce intelligente, certe giacche e polsini consumati dall’eccessivo sapere, alcune vecchie bucce dal nome importante. Due minuti ognuno, per ripercorrere un’esistenza così talmente illustre. Anche per me ci sono sorrisi e parole formulate ad ultrasuoni. Dopo l’ultimo le poltrone nel corridoio spariscono, l’amministrazione le rivuole indietro. Servono davanti alla camera quindici.
La pace ed il silenzio di tutto l’intero giorno seguente, costruita dal suo respiro pesante. La sera arriva un infermiere bianco e mi dice di non andar via, che forse la sera sarà questa. Dovrei telefonare, avvisare gli altri che fra non molto si infilerà nel tunnel in modo definitivo. E così, resistendo alla stanchezza, faccio la prova delle mie emozioni.
Le sue parole vanno a spegnersi. Le sue gambe, non vogliono rimanere sul letto sudario, cercavano di scendere, di andarsene via. Le mani, affusolate e quasi grigie, si muovono ogni tanto, come per dire cose che fanno fatica a formarsi nella gola. Mi alzo, mi avvicino e le rimetto al loro posto. Un carceriere. Nulla di lui si muove, sembra allora dormire, e allora anch’io, spaventato da quello che potrei sognare eventualmente.
Ma la sua voce indebolita mi arrivava ancora una volta.
- Perché ci sono le macchine sul soffitto? -
- Perché c’è sparso tutto il mio lavoro così colorato?-
- Come papà. Cosa? –
- Chiedi un collirio, chiama un dottore, è possibile che non se ne sono accorti? -
- Digli anche che voglio le ostriche per pranzo, non una cosa qualsiasi –
Ancora ficcato in quel sogno, mi alzo dal sudario bianco per andare a chiamare un dottore.
E’il delirio, mi spiega, passandosi morbosamente la mano su una tasca del camice sempre orribilmente bianco. Il collirio non c’entra.
- Una medicina ce l’ho, ma solo alla fine. Non io, ma i suoi parenti adesso –
Rientravo nella stanza con i polsi ed i gomiti che ballano senza più controllo…e il collirio e le ostriche? Niente, magari dopo, magari non si ricorda più. Sta con lo sguardo fisso al soffitto, immerso nel suo delirio.
Il telefono squilla con un eco assordante, l’amministrazione, viste le circostanze, m’invita a regolare il conto definitivo. L’amministrazione incalza ancora ma io mi richiudo nel silenzio bianco stavolta rotto soltanto dal fruscio delle sue ginocchia che si alzano e adesso più che mai vogliono uscire. Io faccio le prove della mia sofferenza, posso toccarla addirittura, ma rimane ben chiusa in una busta di plastica. Provo a parlare. Ma la sua voce s’infila nella mia e la busta di plastica del dolore si lacera e si sparge per terra.
- Tre persone mi hanno rovinato la vita, tutte e tre…-
Col fiato sospeso aspetto che mi dica quali, intanto gli rimetto ancora una volta le gambe nel sudario, e scopro che quasi ho paura di toccarlo.
- Quali papà, chi? –
Ma mentre lo chiedo crolliamo ambedue in un sonno malato. Immagino solamente qualcuno che viene di fretta e inutilmente a sistemare la stanza e in silenzio va via spalancando la finestra. L’amministrazione ha fretta d’incassare e ritelefona.
La porta della stanza bianca si apre. E’ l’ultima fidanzata di mio padre,. Si guarda in giro, parla forte, come se si trattasse di un risveglio del primo mattino, si drizza sulla schiena
- Ti faccio la barba ? Ti lavo la faccia?-
Mio padre non si è nemmeno accorto ch’è arrivata, mio padre si è ormai infilato in un sonno profondo. E allora chiude la finestra e si mette a pettinarlo, più lentamente che può.
- E’ stanco e non lo voglio svegliare –
Io mi alzo dal letto accanto e corro nel bagno a vomitare. Dal bagno ascolto l’arrivo di tutti. I miei tre fratelli e mia madre, la regina imbarazzante di quella bianca stanza.
Posano i cappotti dove capita. Il primo dei fratelli riesce subito ha bisogno di un caffè per preparasi evidentemente al peggio, il secondo fratello prede una sedia e si sistema in fondo alla stanza, nel punto più lontano dal letto di mio padre. A mia sorella le squilla il cellulare, vorrebbe spegnerlo, ma poi risponde. Quel lavoro è urgente ed urgente anche l’appuntamento di domani, mia madre riesce a prendere fra le sue una delle mani inermi e sempre più scure, la fidanzata fa un passo indietro, dice qualcosa senza alcun senso e poi decide di chiudersi in bagno. Io resto in piedi ebete e indeciso. Nella stanza il bianco è ancora il colore più forte.
Sento i passi di qualcuno nel corridoio, è il dottore che qui non entrerà, ognuno di noi vuole organizzarsi il tempo dell’attesa, ognuno di noi si sta chiedendo quando. Le gambe di mio padre non tentano di scendere più. Lo guardo, guardo il soffitto dove prima era apparsa la sua giostra personale. La fidanzata, soddisfatta del suo pettinare, ma imbarazzata dalla presenza di mia madre, propone di andare a comprare del cibo, è un silenzio spettrale che si deve colmare.
- Quando accadrà? –
- Quanto ci manca, è già notte? Prima succede e ed è meglio per lui –
L’infelicità di quella frase rimbalza sulle pareti e si spegne in un niente.
No, adesso si sente il respiro, prova ad essere profondo, ma il bianco della stanza lo rimanda indietro, lo spezza, lo tramuta in affanno. Siamo tutti lì, tutti girati verso di lui, tutti in ascolto, tutti con le mani sudate, il tempo adesso si è messo a correre.
Più il respiro si fa affannoso più la nostra agitazione e attenzione sale e scende come in otto volante. La mia faccia si riempie di lacrime come in un riflesso condizionato, ma le lacrime non escono, vengono riassorbite dalla gola, e così i pensieri…non ce n’è uno declinato perfettamente, nebbia solamente e gli occhi non si vogliono fermare, da lui alle facce intorno, alle sedie, a tutto quel bianco accecante. L’attenzione si perde nei rumori, i gorgoglii della pancia, il respiro di mio padre, il naso pieno di muco di mia sorella, una gola che si schiarisce, un colpo di tosse non so di chi. Qualcuno si affaccia alla porta e passa via, è il dottore e non è il dottore, mi alzo voglio seguirlo, ma la sua voce alta nel corridoio mi fa tornare indietro. Siamo così, sospesi, in cerca di una distrazione possibile, l’articolo di un giornale, un bicchiere vuoto, lo stipite della finestra, una maniglia, il rumore di un lontano sciacquone, il battito del nostro cuore. Siamo agganciati così ad una sorte che ci guarda e non le importa di noi, che sembra di non avere fretta …che probabilmente all’improvviso darà il suo colpo di grazia definitivo. Ed è così che, mentre tutti noi sembriamo assopiti dentro noi stessi, ed anche stanchi di attendere l’epilogo, il primo rantolo arriva improvviso e scuote l’intero suo corpo, lo solleva e un secondo ed un altro. Tutti ci ritroviamo alle sue mani agganciati, decisi a resistere. Un tiro alla fune, una fune che comincia a puzzare di acqua stagnante, che sembra uscita fuori dal fantasma di un’antica nave.
Io mi sgancio, ho le mani segnate, ho il suo rantolo addosso, il mio respiro va con il suo, esco a cercare il dottore, che parla al telefono, che subito non ha intenzione di smettere. Lui parla di una casa al mare, della ristrutturazione della sala da pranzo, di certe mattonelle che ha visto a un prezzo eccezionale, del figlio, della scuola del figlio, degli amici del figlio…lui parla e nella stanza bianca mio padre continua a lottare.
- Quella medicina?-
- Quale medicina? -
Gli dico sovrapponendomi alla ristrutturazione del suo salotto. E aspetto la sua risposta un tempo infinito.
Rientro con l’infermiere e la siringa, mentre la fidanzata di mio padre si vuole mettere a dirigere il traffico delle emozioni collettive.
- Non urlate così, state calmi, lui ancora vi può sentire –
Ma nessuno l’ascolta, ma il tiro alla fune s’è fatto furioso. La sorte ci mette più forza e scaraventa via le ultime resistenze sudate, le mani di mio padre lasciano la presa, le sue dita appaiono più lunghe ed ancora più magre, le unghie sembrano cresciute improvvisamente. Io e l’infermiere siamo il regalo finale.
- Pochi minuti ancora -
Ecco la mia patente di boia. Di quei pochi minuti nulla mi posso ricordare, soltanto che sono durati fino all’alba. Ed ecco il signor dottore, carezzandosi sempre la tasca del camice, entra, si avvicina e ci dice. Intorno a me la stanza è sottosopra, non è più così bianca. Coperte, lenzuola, cappotti, sedie, giornali tutto è volato via, è esploso, per poi ricadere annodato e scomposto. Vado dalla finestra al bagno, dal bagno al corridoio, dal corridoio al corridoio, mi muovo per non ricadere, intorno a me sento piangere, uno dei miei fratelli lo vedo seduto in terra con la testa fra le mani, mia madre e mia sorella sono scomparse, uscite, non so dove. La fidanzata aiuta l’infermiere a spogliare mio padre. Mi guardo mentre esco sul balcone, mi accendo una sigaretta e respiro a pieni polmoni una gelida alba. Il corpo nudo di mio padre è solo, è vuoto, è spento, tutto quel bianco è tornato padrone e l’ha invaso, tutto quel bianco ha anestetizzato il mio sentire. E il mio dolore dov’è? Qualcuno rimette troppo in fretta tutto a posto, disinfetta, pulisce. Lo ritroverò più tardi, nel traffico di una strada, dietro a un portone, dentro gli occhi di un cane randagio, dietro gli occhiali di mia sorella, sotto la doccia in una qualunque mattina, consapevole di essermi immaginato tutto.

Abbiamo finito di mangiare, il mio difficile sogno ad occhi aperti termina qui, mi alzo, saluto mio padre assorto nei pensieri suoi, ho da fare. E non mi accorgo che un piccolo pezzo di agonia, della stessa consistenza della gomma americana, mi è rimasto appiccicato ad una scarpa.