lunedì 3 marzo 2008

intorno alla notte


La notte, questa notte nasce come la condanna di un tribunale, cambia i colori, stravolge il ritmo del tempo, i suoi rumori diventano più distinguibili e minacciosi. Questa, come tutte le altre notti, ha un esito incerto, cammina su un cornicione, in bilico. Quando arriva, il buio sale lento e furbo dalle caviglie, si sparge nelle vene, invade la pancia, il torace, le braccia, prende possesso delle mani, della gola e le mascelle. Arriva sugli occhi inesorabile e definitivo, e raddoppia il suo effetto, diventa buio nel buio e porta il sonno con se, allo stesso modo di una malattia terminale. Il sonno si appoggia sul mio torace ed aspetta di possedermi a suo piacimento, soddisfatto di rendermi suo servo per il tempo che gli occorre, per il giusto tempo che basta. Una ripetuta prova generale della brutta morte definitiva.
Mi accorgo allora che il mio torace non fa resistenza, si lascia penetrare nei reni, nelle scapole e fin su al naso e la fronte. Mi rimane ben poco per organizzare i pensieri, per non essere preso alla sprovvista e sbattuto, e travolto, e annegato nel mare in tempesta dell’imprevedibile, facile vittima del mio inconscio infido, traditore e dispettoso. In balia di un giochino troppo violento, costretto a brindare ad una festa maledetta e fetida farcita dall’incontrollabile, da visioni apocalittiche ed esagerati presagi di sventura.
Il mondo dei sogni è spietato e traditore. Bisogna stare attenti perché i pericoli e i danni di una sola notte possono avvelenare la mattina seguente e tutti gli altri giorni che dopo verranno, sempre che accetteranno di arrivare.
Ed io così faccio anche questa volta al sopraggiungere dell’ennesima prova generale della definitiva notte. Ancora prima di spegnere la luce, mi scelgo i pensieri in sequenza, la posizione più comoda e le immagini che potrebbero favorirmi un sonno senza danni ulteriori, così da andare in contro a sogni nei quali l’orrore non è di casa. Sogni sicuri, sogni sorridenti.
Mi sistemo sul fianco sinistro, infilo la mano sinistra sotto il cuscino, la mano destra deve restare per solo cinque minuti fuori delle coperte, ma poi devo infilarla dentro e posizionarla a poca distanza dal naso, il naso che deve annusare un giusto e salutare freddo. L’esperienza poi mi suggerisce di non stendere le gambe, ma nemmeno tenerle troppo rannicchiate, e le dita dei piedi è sbagliato e controproducente tenerle accartocciate su se stesse. Il telefono e lo sprai per il naso sempre a portata di mano.
Dopo queste accortezze decido il ricordo con il quale iniziare il pericoloso viaggio e spengo la luce.
Il mare luccicante della città nella quale ho vissuto da adolescente, il golfo, il grande vulcano, il lungo mare, i vicoli stretti della città vecchia. L’odore di cucinato, quell’aria sorridente, tutti quegli occhi spensierati, le ricchezze e le miserie
gomito contro gomito. D’altra parte non è la prima volta che vado ad iniziare la notte a questo modo e mi ritrovo ancora per grazia di Dio sano di mente.
Allora mi avvio davanti alla grande finestra sul golfo della mia bella casa. Le scuole medie,
Ecco, ho ingranato la marcia verso una notte che non mi tradirà, continuo a guardare il luccichio del mare e i vicoli pieni di gente. Ma all’improvviso il rumore assordante di una porta a vetri che, per colpa del vento si abbatte su di me, il mio naso pieno di sangue e un sonoro schiaffo di mia madre. No, questo è un particolare che devo scartare, saltare, eliminarlo subito. Saranno state le ginocchia troppo piegate a chiamarlo in causa. Accendo la luce sorpreso, è la prima volta che risale a galla quella porta a vetri, mi rifiuto comunque di sapere e di indagare oltre, il sonno è già in viaggio verso l’ombellico, mi devo sbrigare. Riposiziono le gambe, mi schiarisco la voce, mi soffio il naso, mi stropiccio la faccia e ricomincio dai miei amici, da quelli che ricordo, dalle facce dei miei compagni di scuola, e poi la mia prima ragazza, le sue guance, quel ridicolo bacio nel buio improvvisato di una festa di compleanno, i tremori della sua pancia, l’imbarazzo. ancora lei con le mani in mezzo alle mie gambe nel buio del cinema “Amedeo”. Uffa, ma il cinema Amedeo non è stata la mia meravigliosa prima volta, così proprio non va. E’ successo durante una lezione di ginnastica in seconda media, mentre saltavo e allargavo le gambe, ho impiastricciato il pantaloni della tuta con qualche cosa di appiccicoso, e così imbrattato sono arrivato a casa convinto di essere ammalato gravemente, non ho detto niente a nessuno. Anche questo particolare è da depennare, saltarlo a pie pari e non tenerne conto.
Continuo con i nomi e con le facce. Paola era bionda e indossava sempre un cappotto blu, Massimo era troppo grasso ed era figlio di un professore universitario, Giancarlo era già un teppista ma dal sorriso sfavillante, Piero sedeva al primo banco della mia classe…no Gesù, proprio lui che un giorno non è venuto a scuola perché è morto suicida, così mi rovino il sonno. Ma forse mi ricordo male io. Vado a bere un bicchiere d’acqua e ricomincio. Non posso nemmeno ricominciare dal mio compagno di banco Alfredo che ha perso tutti e due i genitori giù da una scarpata il pomeriggio che dovevo andare da lui a finire i compiti. Che sfortuna, il giorno dopo all’interrogazione di geografia non ho aperto bocca !
Va bene, ripenso dalla mia grande casa con la vista sul mare. Era stata ricavata da un vecchio convento aggrappato alla montagna, la portineria era all’ultimo piano, il portiere si chiamava Enrico ed era fesso e pure antipatico. Un giorno, insieme a mio fratello gli ho scaraventato dentro casa una grande busta piena di bombe puzzolenti al gusto di uova andate a male. L’androne davanti alla porta di casa ci serviva per giocare a pallone, urlare a perdifiato, picchiarci e correre con i pattini a rotelle. I’appartamento era addirittura a due piani, lo studio di mio padre aveva una vasca di pesci rossi. Dalla terrazza e dalla finestra di camera mia potevo vedere il golfo tutto intero, con il mare immenso, due isole e le barche, tante, piccole e lontane. La scrivania dove ogni pomeriggio mia madre m’inchiodava per fare i compiti era piazzata proprio davanti alla grande finestra dei sogni. Mi sedevo e scrivevo su un grande foglio di carta “La matematica mi fa schifo”. Urla e schiaffi, schiaffi e urla di mia madre davanti a quel panorama da sogno. Non posso permettermi di arrendermi al sonno con codesti dolorosi pensieri, non posso proprio perché rischierei di risvegliarmi con qualche difetto importante.
Rimescolo in fretta nei ricordi e pesco il viaggio premio per l’avvenuta promozione, ma lo devo abbandonare in fretta, perché le immagini della corrida mi fanno sobbalzare. Infierire su un toro, accompagnando la tortura con grida di gioia, tutto un intero stadio, ed io con le mani davanti alla faccia a supplicare di non ucciderlo.
Di corsa a pesca di un altro ricordo decente, in un vuoto temporale causato proprio da quella corrida, dalla spada imbrattata di sangue, dal berretto nero del torero lanciato in aria, da quella gioia collettiva e assassina.
Mi giro allora sul fianco destro, azzardo una manovra mai tentata prima, mi abbraccio stretto, vado alla ricerca dei miei amori.
Titti, eternamente sopra di me, a cavalcarmi e cavalcarmi, fino a quando un giovane turista orientale non le ha pestato un piede. Paola che era innamorata perdutamente e solamente dei miei occhiali, ho cambiato montatura e la sua passione per me si è dissolta. Olivia che non voleva mai togliersi le calze, che aveva i capelli troppo lisci e neri con dei riflessi blu, che non sapeva spogliarsi, che un giorno intero senza far l’amore non poteva stare. E’ bastata un brutta influenza per far finire l’incanto. Giovanna, dalla quale una sera non riuscivo più ad uscire, incastrati così e trasportati al pronto soccorso coprendo l’imbarazzo con un solamente un lenzuolo. L’imbarazzo fu troppo bruciante. Milena, troppo secca e troppo pazza, che ho potuto amare solamente ad un metro di distanza e con parole ben studiate e su misura. E alla fine quel volto senza un nome, quel corpo così caldo e attraente senza una forma, quell’alito inebriante addosso a me senza una data di nascita e un colore, quel ritmo del suo ventre a tempo di musica, per anni aggrappato a me evanescente. Con quel corpo vicino, in cielo e in mezzo ai prati, nell’acqua e sulle cime delle montagne, a me sempre incollato.
Così, adesso posso finalmente dormire innamorato, ingordo di quell’umida pancia invisibile ed ubbidiente ad ogni mio desiderio.
Il sonno arriva che ho fatto appena in tempo. Un sogno così ovale e suggestivo.
Sposto una gamba, mi assesto, mi rigiro sicuro ed il libro che ho lasciato incustodito sulla coperta si apre spintonato da me a pagina quindici. Dalla pagina quindici esce il fumo dei corpi di migliaia di deportati, i corpi scheletrici ammucchiati al gelo di uno spietato e macabro inverno, accanto ad una montagna di denti e occhiali, e un fetore che cresce e non si vuole fermare. Il sogno si sposta e mastica e ingoia quella pagina crudelmente inopportuna.
Ed io mi ritrovo a navigare nell’orrore.
Prigioniero per sempre di un sogno che non mi appartiene, respiro quel fumo e quel tempo e come loro rimango imprigionato nel lurido e nell’ingiusto.

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