lunedì 25 febbraio 2008

occhi


Sono capitato dentro il buio per caso. Mi sono perso. Sono uscito di casa per andare a fare la spesa, pochi metri, il giro dell’isolato soltanto. L’unica variabile della mia giornata, gli unici colori diversi, facce e cappotti che mi passano davanti, mi sfiorano, mi urtano, parlano fra di loro e di me non si curano. L’unica vita che respiro oltre la porta di casa, oltre il non ricordo, oltre c’è il troppo lontano, in un tempo che non vedo più. Il passato l’ho consumato e disperso ogni volta che mi sono stropicciato gli occhi, ogni volta che mi sono lavato la faccia, ogni volta che ho ceduto al sonno, ogni volta che ho pericolosamente riflettuto sul mio nome, ogni volta che ho guardato lo specchio, lo specchio che da tempo non ho più. Sono rimasti solamente alcuni automatismi, sgretolati nel ripetersi.
Il mio mondo diverso solamente nel supermercato, in un pacco di pasta, un succo di frutta rossa, un barattolo di pomodori e la peperonata. La peperonata, sì. E quei rumori, sempre gli stessi rumori. La cassa del banco che si apre e si chiude, la magia della calcolatrice sotto la luce dei neon, un altoparlante per ordinarmi di acquistare qualcosa di più conveniente. Ma non voglio abbandonare la mia peperonata. Il giro dell’isolato solamente, se non piove ovviamente.
A schivare gli escrementi del grosso cane nero, ad evitare il saluto sottovoce del tabaccaio che mi aspetta davanti alla sua porta, che vuole prendersi finalmente la soddisfazione di ascoltare una mia corda vocale. La sicurezza del marciapiede sempre quello e della memoria del percorso da fare. Il peso della spesa nelle braccia. Poi a casa, ricontando i passi, per essere più sicuro. Ma qualcosa interrompe il mio ritmo, una ferita nel marciapiede, un inciampo imprevisto e la busta della spesa non pesa, non c’è. Mi giro indietro, il supermercato che avrei dovuto già oltrepassare da quaranta passi, non appare al suo posto. La strada non è questa, non è la solita. Il buio così fitto non era con me, mi ricordo d’essere uscito ch’era mezzogiorno. Mi sono perso.
Mi sono perso. Cammino per strade e costruzioni misteriose. Non c’è niente di familiare nemmeno nel rumore dei miei passi e nel fruscio dei pantaloni. Stavo tornando a casa e adesso non so. Vicoli stretti, nero profondo e odore di escrementi, nemmeno un lampione, nemmeno un negozio, il rumore delle macchine si allontana e mi vuole lasciare da solo. Più nessuno per strada. Cerco di riassumere, dal nome, alla statura, se ho gli occhiali o sono senza, oppure un solo ricordo solido e fondamentale per non aver paura. La peperonata, solo quella. Quale parola posso ora recitare a voce alta? E un’ombra qualsiasi a cui chiedere la strada? Intanto ripeto per esteso la mia data di nascita, intanto mi ritrovo chiuso in una strada di fango che odora di cipolla, magari fosse almeno peperonata. La porta di una baracca appare fra le mie gambe e l’universo nero, è socchiusa, è quasi scardinata, è marcia. Ma dentro si sente tossire. Altro non posso fare, smetto di piagnucolarmi ed entro.
Nel buio pesto mi accorgo della sua faccia, assalita da un solo raggio di luce in diagonale, che gli invade gli occhi e tutte quante le sue rughe, fossati profondi in un canion inaccessibile.
Gli chiedo dove mi trovo e come posso tornare indietro. Si sforza di vedermi meglio, con quel raggio violento che taglia il buio è difficile. Non sono sicuro che mi stia sorridendo, mi aggancio comunque ai suoi occhi aperti in due sottili fessure. Adesso provo a chiedere nei dettagli la strada del ritorno.
Dal letto si alza a sedere, espelle violentemente dalla gola un grumo di catarro, un libro sgualcito cade sul pavimento, non riesco a capire da dove venga il raggio di luce violenta che gli aggredisce la buccia del viso. Il mio domandare obbligato è coperto da un ennesima eruzione violenta di muco giallastro.
Non mi risponde, cerca ancora di capire chi sono, cerca gli occhiali, dimenticati su un piccolo tavolo ferito a morte, insieme a due sigari. Se lì infila, storti e appannati, facendo leva sulle braccia, si tira ancora più su. Stava dormendo vestito. Ripeto allora la mia stupida ma necessaria domanda.
- Mi scusi, dove mi trovo? Come faccio a tornare ? Come mai è già notte ? Come mai non riconosco niente e nessuno? Il supermercato sa per caso dov’è? –
Mi accorgo che qualcosa appare dietro di me, indistinguibile nel buio, mi oltrepassa strusciandomi le scarpe e si va a nascondere sotto il letto. Sembra un enorme corpo umano, mi accorgo appena di tutti i suoi muscoli nudi e possenti,. Ha la spalla destra disegnata, forse un drago. Mi sposto indietro, ma non voglio chiedere spiegazioni. L’intero letto si muove ancora una volta, intravedo nel buio un gomito, una natica, una mano, che si sistemano e si rintanano lì sotto.
Il vecchio cerca sul comodino il mozzicone di sigaro, se lo mette in bocca e, senza staccare gli occhi da me, mastica e sputa.
- Se lei mi dice dove, io vado –
E mi ricordo che dell’enorme corpo non ho visto la testa, non ha una testa, solamente il drago.
Il vecchio, senza ancora regalarmi una risposta, riesce ad agguantare la scatola di fiammiferi e da fuoco al suo mozzicone, una, due, quattro volte, scatarra ancora, riprova ancora, si gira per vedere se sono ancora lì, se per caso non sono terrorizzato definitivamente. Adesso si gira verso la parete accanto a lui, m’invita a guardare, e soffia via una nuvola di fumo.
Come un miraggio ma sì, un’anziana donna riposa seduta su una panchina, indossa un lungo vestito a quadretti e un ridicolo cappello, fra le sue gambe di legna secca tiene un bastone. Come ha fatto questo diavolo di un vecchio? Quale stregoneria ha usato? E’ curioso, anzi è assurdo, ma mi sembra di riconoscere il posto. A questo punto dovrei girare su me stesso e scappare via, ma invece la mia mano tocca la spalliera di una sedia, ci cado a sedere dentro. E adesso mi accorgo della fotografia incorniciata sopra la sua testa,. Qualcuno a torso nudo tiene per mano due bambini, obbligati a stare in posa, fermi, immobili, a lungo, dietro di loro le montagne o finte o vere, con la neve ormai gialla. L’uomo mi guarda dritto in faccia, mi chiede se ho capito, se magari lo riconosco.
- Chi sono ?-
Il vecchio non risponde. Però riesco ad intravedere un suo pensiero. Chi sta seduto sulla riva del fiume insieme ad altri che sembrano dormire? Potrebbe essere una domenica pomeriggio. Ha una camicia, si volta un attimo verso di me, fa un cenno di saluto, si sta allacciando una scarpa, contro voglia si alzerà ed uscirà dal pensiero. Del fiume riconosco l’odore. Il pensiero del vecchio svanisce, si perde sul soffitto insieme al fumo del suo sigaro.
Voglio alzarmi a questo punto, leggere nella testa di quel centenario mi fa sudare le mani. Ma sono sicuro che mi obbligherà ad ascoltare il seguito. Una mano, poi il braccio del grande corpo nudo, riappare da sotto il letto, non ho paura, mi chiedo a proposito del tatuaggio, mi viene in mente che anch’io, … Il vecchio fuma lentamente e lentamente alza i suoi occhi sul soffitto. Sul soffitto , un grande piede di pietra. Il suo pensiero mi racconta di un viaggio, di un sogno che si ripete, di una grande statua che sorveglia il suo sonno.
La pietra fredda e imponente me la offre fra le mani. Ascolto una preghiera e poi mi accorgo di un giovane monaco immobile, in ginocchio, davanti al grande piede, stiamo in silenzio l’uno accanto all’altro, e la sua fede gorgoglia, gli scende dalla gola, scivola sul prato, mi sfiora, poi lentamente risale nella sua bocca. La guardo come se fosse un’immagine mia.
Il vecchio tossisce forte, allunga la mano di nodi per prendere il bicchiere sul tavolino e buttare la cenere, un bicchiere incrostato, così talmente stanco. Dentro il suo vetro maltrattato tre donne parlano di cose irraccontabili, mostrano la pelle troppo bianca e i fianchi pesanti. La prima mi mostra il sedere e ride, la seconda mi assicura che il suo seno è il più bello, che in nessun bordello se ne trova uno uguale, che lo posso toccare se voglio, tanto sono così giovane, tanto che ancora non capisco.
E’ forse possibile che anche mio nonno avesse un bicchiere così? E il mio viaggio continua mentre il vecchio, attraverso le rughe, mi scruta furbo e mi racconta ancora senza aprire mai bocca.
Posso riconoscere una strada, nella parete buia alla mia sinistra. C’è un ubriaco steso in terra che sembra morto, una donna gli passa vicino, gli guarda le mani arrese, la giacca vecchia e sporca, i pantaloni aperti. Si ferma, fruga nella tasca, ci pensa, ma poi si allontana. Ma chi è quel bambino che si porta sottobraccio due grandi bottiglie ? E tutta quella folla pigiata che aspetta, aspetta che un corpo finisca lentamente il suo consumarsi sopra un fuoco sacro e definitivo, mi sembra di riconoscere fra tutti una testa, la stessa testa dell’uomo che sta aiutando altri a tirare via da un gancio un giustiziato e martire quarto di bue.
Il vecchio manovra per alzare in piedi il suo tronco dal letto sudario, dietro di lui posso scorgere le mura di una città vecchia, più vecchia di lui addirittura, delle mani tese aspettano la razione di pane e adesso un pittore, con la sua donna nuda a fianco, non completamente finita.
Il vecchio è riuscito ad alzarsi, raggiunge il centro della stanza, urta lo spigolo di un tavolo che non avevo ancora notato, va verso la porta, la apre ed esce. La luce che viene da fuori illumina un piatto al centro del tavolo, un piatto con i resti di una peperonata..
- La mia? ! –
Un paesaggio di campagna mi entra nel torace, poi il sorriso di mia madre, la donna con il suo bastone, e l’uomo a torso nudo nella fotografia mi saluta ancora una volta, mio padre mi tiene per mano.
Sono stanco, sento le gambe vecchie e pesanti, mi alzo dalla sedia e mi dirigo verso il letto, il mio. Mi stendo e riconosco ogni cosa, ho ritrovato la strada, me stesso e dormo.

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