mercoledì 15 ottobre 2008

Il pomodoro


Oggi è iniziato l’autunno. Oggi dovrebbero arrivare nuovi pensieri, ricordi migliori, la schiena più dritta e proponimenti più dinamici e vitali. Un’eredità, un nuovo lavoro, un portafoglio abbandonato e gonfio? Lo dico assonnato davanti a me stesso, lo dico alla mia stessa voce, lo infilo dentro all’alito fetido di una mattina presto. Lo affermo davanti alla fiamma del fornello della cucina che si sta per esaurire. Lo dico con la speranza che questa iniezione di intenti e speranze mi permettano e mi servano da stimolo per andare finalmente al bagno senza le solite sofferenze esistenziali. E poi basta con i soliti fessi pensieri.
Ma L’inutilità del ferro da stiro è sempre al suo solito inquietante posto, le gocce di pioggia, l’attaccapanni e il pettine blu, il candelabro grande, l’odore di muffa, quel biscotto dimenticato, due paia di calzettoni bucati assolutamente, la solita giacca immettibile e lisa, troppo corta e fuori moda, il rasoio e l’asciugamano che m’ha regalato mia madre, la sedia a dondolo aggiustata troppe volte e molto demoralizzata. Quello che resta di un ombrello. Il cane, il mio vecchio cane senza un nome e senza un perché, nervoso ed inutilmente esigente, lo specchio di me. L’albero ghigliottina davanti alla finestra, la finestra e il lago bugiardamente azzurro, depresso per partito preso. La polvere e il ventilatore che non ha mai funzionato, il ventilatore e la polvere. La bicicletta messa lì dove non deve stare se la ride delle mie buone intenzioni, la scatola e il quadro sono chiusi e fermi dentro se stessi, il nascondiglio e la scopa resistono nella stessa malata e ostinata posizione di sempre. Nel sempre la porta di casa continua ad essere sconnessa, quella del bagno sono dieci anni che non c’è più, ma sono ancora visibili i segni della sua vita interrotta sul pavimento. La finestra per dispetto non si è mai voluta chiudere, il latte stagna sul fondo della bottiglia, e quella magra felicità scaduta e non recuperabile si ostina a dormire. La stufa tace e non vuole.
Eppure al centro della testa passa la macchina di mio padre con l’autista, le mie scarpe lucide e nere e i pantaloni all’inglese con i bottoni di fianco, le estati interminabili nella villa al mare, la cameriera in divisa e la governante, i regali di Natale, l’applauso dei compleanni, la vasca dei pesci rossi in salotto, il sorriso austero della mia signora madre. Immagini che si fermano e che pulsano forte, che la mia testa si diverte ad inventare solamente per rendermi il più spiacevole possibile il soggiorno in questa dichiarata topaia.
Tutto mi osserva immobile e delle mie buone intenzioni non ne vuole sapere. Appesi al soffitto ad imitare i pipistrelli, dondolano la dimestichezza perduta e quel rancore specifico ingiustificato e sconnesso, quello che è ancora prigioniero nella bocca dello stomaco. I resti dell’ambizione ammuffiscono e sporcano le pareti. L’occhio destro rimbalza addosso all’illustre e ridicola presenza del vaso da fiori più piccolo, quello che inaugurava il pomeriggio del mio primo contratto da scrittore. L’occhio destro della noncuranza, l’amore bagnato e la disillusione. L’inadeguatezza. Tanti i progetti con la luce di mezzogiorno, dentro un bicchiere e dentro un altro ancora, derisi e ammazzati col sopraggiungere dell’inquinato imbrunire e dall’aggressività della luce elettrica. Uno dopo l’altro i poveri resti delle mie idee geniali per sbarcare il lunario e strabordare nella notorietà, finiti nel cesso e scaricati, oppure vomitati sul marciapiede in un giorno di pioggia, o scomparsi dentro una vagina della quale non riesco a ricordarne il nome.
La pasta scotta e l’insalata rimangono un patetico tentativo sconfitto. Quella macchia di vino che non se ne va, che ha ferito a morte la mia più bella camicia bianca. Quella macchia sta lì per svilirmi, per dirmi che di ottimismo adesso è inutile parlare, che non ci sono le basi e i presupposti.
E allora apro l’armadio e conto a casaccio e da capo la stoffa di un tempo passato, una stoffa indurita come carta vetrata, che non vuole saperne dell’acqua. I conti non tornano, solo sagome che non riesco ne a datare ne a riconoscere.
Allora è questo il momento di ricordare il sogno delle pillole rosse, quel sogno capace di fermarmi il cuore ed ogni avanzo di pudore. Una brusca frenata ed definitivo tracollo per scrollarmi le spalle e ricominciare da capo. Da quale capo? Ma le pillole rosse non hanno altri effetti che il riportarmi furbescamente a tutti gli aperitivi che mi tracanno facendo versacci osceni al futuro.
E il futuro, e del futuro mi accorgo e lo vedo comparire sulla tovaglia di plastica usurata della mia cucina sempre depressa. Eccolo, un piatto dipinto a mano e scheggiato con un pomodoro appoggiato sopra. Un solo pomodoro, nemmeno tanto maturo, aggredito dalla luce della finestra, Un’opera d’arte casuale, la materializzazione di una voce che giù al portone, sempre verso le otto del mattino, racconta all’edificio della gravissima crisi economica che ci sta impoverendo. Fratello, se hai fame ecco qua, ingoiato il pomodoro, per oggi, e forse anche per domani hai chiuso. No, il pomodoro no, il pomodoro è il mio futuro, deve restare sul tavolo, così posso guardarlo e chiamare la fortuna, qualcos’altro da scrivere, una lotteria da vincere, un incontro di quelli risolutivi. Certo che ho fame, certo, ma questo sbaglio non lo devo fare. Anzi mi siedo che un rimasuglio di alcool m’è rimasto e ci parlo, e convinco il pomodoro a portarmi bene.
Tracanno quel che c’è da tracannare, ingoio quanta più aria posso e mi concentro su quale tipo di fortuna posso sperare da questo pomodoro. Il mio cane sta lì che mi guarda come si guarda un fesso. Allora gli faccio vedere il pomodoro e provo a spiegargli del futuro sulla nostra tavola. Gli spiego e tracanno fino all’ultimo goccio. Prendo carta e penna e le avvicino all’ortaggio, in modo che l’intera notte si possano consultare su quello che avverrà, sul mio nuovo romanzo, sul nero su bianco che finalmente mi renderà famoso. Superstizione? Nella mia condizione rimane l’unico atteggiamento indispensabile. Saluto il mio cane dalla faccia delusa perché anche questa notte non ha niente da mangiare e dovrà urinare sul pavimento, e vado a dormire.
E’ mattina e mi trascino in cucina, il pomodoro è scomparso e il piatto sbeccato giace assassinato e in mille pezzi sul pavimento. La finestra è aperta e il mio cane, ladro e traditore per necessità, col pomodoro nella pancia, s’è involato di sotto ad incontrare il suo futuro.

1 commento:

Anonimo ha detto...

E' sempre faticoso venire al mondo, ma il difficile si manifesta molto più tardi
quando la disperazione di esistere e la visione di un mondo di cui tenti di svelarne il senso ti trasformano in “massa”.
fermare il nulla e l’indifferenza,
vivere generosamente.
Sei il mio punto vulnerabile,il mio stato di ebbrezza da cui ha origine lo stordimento…
Aura