venerdì 13 gennaio 2012

Pape Satan

Finalmente sono riuscito a cancellarla dalla mia rubrica e dalla mia memoria, l’ho spolverata via dalla mia pelle in modo definitivo
    _    Cosa è successo ? Aspetta prima di rispondere, chiudi gli occhi, respira profondo, riapri gli occhi, parla ora _
Ci provo, mi viene da  vomitare, forse mi arrabbio, non so se riesco a ricostruire per intero. Si tratta dell’origine dei miei problemi di testa, è stata una storia importante, troppo, e insieme un’assurdità, direi una cattiveria, roba da manicomio. Una roba capace di rovinarmi per tutta la vita, condizionarmi, rendermi fragile, facile vittima delle tempeste psicosomatiche, scatenarmi tic nervosi, fobie, silenzi, bugie, alcolismo e tossico dipendenze. Non sto esagerando, ho paura perfino di raccontare, perché così sarò ancora in mutande, pronto e in posizione favorevole per essere preso a schiaffi ancora. Lo devo fare? Lo faccio.
L’ho incontrata in una strada dritta, lunga, assolata, nell’isola più bella del mondo, dove tutto è perfetto, dove la bellezza è la sola parola d’ordine, però dove l’inganno e l’apparenza è una caratteristica sconcertante e sempre in agguato. Cielo meraviglioso, cosce meravigliose, scogli e labbra da sogno, orologi e collane, la straordinaria perfezione dei sederi. E poi quella strada dritta inondata di caldo e lei, maglietta e pantaloni neri, occhi e capelli neri. Un buco, un virus nell’estate torrida, un punto esclamativo armato di tutto punto, sorridente, affilato, irresistibile, giovane e con il corpo scolpito e levigato per farsi vedere e toccare. Ecco il mio miraggio, ecco l’occasione per infilarmi dentro la giovinezza sul serio, l’occasione per scuotermi e svegliarmi dalla mia apatia malattia.
Si perché vivevo nella gelatina, avevo le acne e gli occhiali mi scivolavano sul naso reso viscido dal sudore. Le donne non sapevo come toccarle, a loro non sapevo cosa dire, e nude mi facevano venire la tremarella. Ed ecco la Giunone sorridente apparire dal caldo.
    _    La maglietta ha lo stesso colore dei tuoi capelli _
Più stupidaggine di così non gliela potevo dire, ma le sue mani affilate già mi sfioravano le spalle. Chi era, come mai era apparsa? Una nave scuola, una specie di angelo, un regalo per me che ero in ritardo su tutto, che non sapevo e non mi accorgevo, che barcollavo nella nebbia sessuale e esistenziale soprattutto. La sua pelle era liscia e profumata, le slabbra promettevano l’estasi, a me che l’estasi l’avevo sperimentata solamente nella solitudine chiusa a chiave del mio bagno. La sua peluria nera come la pece, con riflessi addirittura blu, mi avrebbero guidato e preso per mano nelle strade del mondo, mi avrebbero finalmente insegnato il come si fa e il come si dice. Finalmente in piedi e a schiena dritta, dopo che lei, con un sorriso non esageratamente palese, mi montava sopra e m’insegnava, m’inondava di speranza, m’inoculava autostima…si ma insieme a lei e basta. Bastava un pomeriggio da solo a fare ingrippare il meccanismo, ad anestetizzare tutte quante le mie risorte aspettative. E allora senza mutande il prima possibile, ovunque era possibile, per trovare la forza addirittura di finire gli studi, per prendere la patente, per cercare un altro efficace rimedio contro le acne, per un discorso intelligente, per un alto pensiero. Mentre si agitava su di me e mi guardava fisso, la vita mi riscorreva dentro, potevo ancora sognare un programma, immaginarne le varianti, il successo, gli applausi, la comprensione e la stima della mia famiglia tutta, a cominciare dalla governante. Per farmi venire, qualcosa mi diceva, il mio inconscio se lo ricorda ancora.
Pape Satan, mi andava dicendo. Un fiume tiepido sentivo scorrere da lei a me. Non era mica finita li, ancora nuda si metteva a suonare la chitarra, cantava canzoni di vittoria e di conquista dei miei sensi dipendenti e assuefatti a quella magica altalena. Voleva che cantassi insieme a lei, lei la conquista ed io la resa.
    _    Descrivimi meglio com’era, una sua fotografia, un attimo imprigionato nel tuo cervello, una resa. _
Tre fotografie, le solite, ingiallite e logorate, ma eterne, le uniche tre. Lei appare vestita con una gonna blu, con una giacca leggera e bianca e dei sandali bianchi anche loro, i capelli in balia del vento che le coprono in parte il viso e dietro di lei l’acqua, calma rassicurante e minacciosa nella stessa misura, che mi vorrebbe avvertire di un qualche spaventoso epilogo, se io solo fossi in grado di interpretare, ma i fili di burattino nelle tre fotografie non appaiono. La sua splendida voracità capace di muovere e far danzare tutto dentro di me, dalla milza alle caviglie, si nasconde e si confonde, nel panorama che mi ha suggerito di costruire. Una bella mattina senz’altro. Pape Satan mi mormorava mentre la fotografavo, e il vento l’aiutava.
    _ E quella sera?_
Dovevamo andare al cinema, una sera di fine estate, ed un inspiegabile rifiuto mi usciva incontrollato e ribelle dalla bocca, ma non tanto convinto e per nulla imperativo, un rifiuto debole, nemmeno il risultato di un pensiero preciso, facile da sconfiggere. Eravamo in macchina, fermi, sottocasa di mia madre. Al buio illuminato da un unico e fastidioso e ammalato lampione, la sua voce cambiava e così il suo aspetto, mi accorgevo per la prima volta di una orribile gobba che le deformava il naso,  gli zigomi spigolosi, appuntiti, le mascelle serrate, un altro colore della pelle, una voce profonda, spezzata, che non prevede repliche. Mi lasciava, si staccava da me, le dava fastidio il mio alito pesante, mi respingeva, le mie lacrime la facevano tremare di rabbia. E una dopo l’altra le mie incapacità mi ritornavano addosso, mi rientravano dentro probabilmente dalle narici, improvvisamente mi ritrovavo a respirare impotenza, ricordavo tutto quello che, sotto di lei, avevo dimenticato. L’inadeguatezza, i miei pensieri fatti di nulla, le gambe e le braccia inutili, le mani disperse e confuse sull’asfalto della strada, il cuore che batteva a casaccio. Il tentato suicidio di mio padre, in macchina, in una notte identica a quella che stavo vivendo, e le mie bugie endemiche, e la rabbia nei confronti di un mondo che non voleva aspettarmi.
    _    Va bene, andiamo al cinema allora _
Del tutto inutile, una punizione, una sentenza irreversibile, una enorme montagna di fango già tutta addosso a me che pietosamente chiedevo, invocavo un perdono di qualcosa che non avevo ne capito e ne commesso, che non sapevo nemmeno cos’era. Lei, il boia accanto a me, voleva essere riaccompagnata a casa e scomparire per sempre. Cosi, all’improvviso, mi aveva reciso una vena, fermato il respiro con una mano premuta contro il collo per impedire di avvicinarmi, le sue ossa pesanti e potenti come la pietra, le sue dita artigli. E verso casa sua ho spinto l’acceleratore verso lo stesso muro, quel muro contro il quale voleva morire mio padre. Pape Satan avevo nella testa Pape Satan. Il volante non voleva girare.
Mio padre non voleva, il volante girava all’ultimo momento e lei, con i capelli ispidi e duri e con la faccia invasa da solchi profondi, scompariva dietro un cancello sotto un diluvio di pioggia acida. Poi il silenzio, un muro di gomma a soffocare ogni possibilità di riparlare e ripensare. Giorni interminabili e inutili, giorni pieni solamente di buio.
    _   E le hai scritto la lettera che ti avevo consigliato. L’hai rivista poi? _
Mi ha concesso solamente di farsi guardare mentre, in fretta, saliva su un autobus, il trenta sbarrato,  poi lei e il suo ricordo si sono nascosti, cicatrizzati, irriconoscibili, causandomi un piccolo ma continuo dolore ad ogni respiro. E il trenta sbarrato, che si fermava cigolando, vomitava e risucchiava e ripartiva cigolando, è diventato il mio incubo ricorrente nel sonno e nella veglia, da ubriaco e da sobrio. Per un paio di anni sono andato ad aspettarla davanti a quella fermata, ho spiato fra la folla, sono addirittura salito sull’autobus con la speranza e la paura d’incontrarla, mi sono fatto strada fra mille ascelle sudate, ho spintonato pance e sederi, ho annusato e perfino chiesto. Niente, ingoiata dalla città, niente persino al suo antico indirizzo. E allora perché non farla riapparire dentro una bottiglia di vino oppure in un’avida boccata di fumo giallastro e mortifero ?  Nella masturbazione però era troppo rischioso. Ma è successo che, pochi giorni dopo, forse subito dopo essermi allontanato dalla fermata dell’autobus, è scesa la nebbia dentro di me, scomparsi o molto confusi molti particolari di lei, collegati a lei e intorno a lei, praticamente tutto. Quindi quello che ero non lo ricordo più, me lo sono dovuto far raccontare, fidandomi di verità esterne, non della mia pancia o delle mie dita. Ed un vuoto bianco fin troppo luminoso mi è apparso nei miei sogni notturni, e un continuo rumore di traffico, di freni consumati, di accelerate improvvise, di sirene. La mattina era diventata lenta, inconsistente, inutile a viversi, il risveglio colloso ed amaro, l’inutilità del lavarsi, il fastidio del vestirsi, la paura di uscire, il rifiutarsi di ricordare. Bottiglie di vetro, talmente tante da riempire una biblioteca, ormai vuote, invitanti e minacciose, la mia medicina, il mio stordimento. Il mio respiro ed il sangue, il fegato ed il cuore, la pancia e le gambe, il mento e quello che rimaneva di pochi e deboli pensieri incollati e appiccicosi, in un nulla di fatto. Le ore, l’orologio, i desideri, i cambiamenti di stagione, in un nulla di fatto. Le ginocchia vuote, le mani rimaste aperte, sgomente, il plesso solare inutile, così come la gola, in un nulla di fatto.
    _    Tutto consequenziale, previsto, inevitabile, nessuna sorpresa! _
La fa semplice lui. E che ne dice delle fughe verso il torbido, la ricerca compiaciuta dell’illecito, il maledetto gioco della bugia più grossa ? Come fare per punire lei, il mio amore più grande? Punendo me stesso, torturando sadicamente la mia anima, giorno dopo giorno, pisciando sadicamente sull’autostima, facendo del mio corpo una ideale cloaca massima. Pape Satan, le due parole rimaste scolpite.
Niente più sesso, solo isteriche masturbazioni pensando a corpi vuoti, senza faccia, avidi di me per il loro personale piacere, non per il mio. Che stupido, lei era scomparsa nel nulla e nulla dello scempio di me avrebbe saputo.
    _    autodistruzione, autolesionismo, con ossessione e teatralità. Voglia di morire ? _
Attacchi di ansia, svenimenti finti e veri, tremori autentici, rabbia autentica, bruciante, autentici deliri, fino all’ago e il caldo nella gola, fino a quello. Il risveglio disteso sotto la luce accecante di una sala operatoria.
    _   Salve, puoi parlare ? dimmi come ti chiami. Ben tornato fra noi _
Voleva dire resuscitato, risucchiato in dietro da un tunnel scuro e invaso da melassa grigia e appiccicosa, una schifezza il viaggio verso la morte, una fucilata, sparato con una molla il viaggio di ritorno improvviso. Rieccomi a casa a recitare la gratitudine e alle prese con l’immensa stanchezza per niente attenuata dalla resurrezione. Un nuovo programma adesso, ma quale? La normalità ? Soltanto quella del gabinetto. La Resurrezione ha dei costi spaventosi…ma lei, lei non c’è, non è prevista, è addirittura dimenticata, e questa si ch’è una notizia, peccato però che, al risveglio si è portata via, insieme al disagio e al dolore, anche una grande porzione di ricordi. Devo dunque rivivere con un buco nero, e sia!
   _   Comunque una ripartenza ! _
Una ripartenza sul niente, fasulla, col nero dietro, e quindi tutto dovevo inventare, parole ma non fatti, parole disattente a pugni fra di loro, parole deboli e a la merce di qualsiasi attento ascoltatore, un passato inventato da sputtanare in un solo attimo. Un inferno simile a prima, ma finalmente di lei, di quella lei, c’era rimasto solamente il nome, un nome come tanti altri, senza riferimenti, nessuna faccia, nessun odore, nessun indirizzo ne numero di telefono, nessun corpo, nessun dolore.
Però mi rimane una casa con il pavimento celeste, ho ancora due finestre sul fiume, ho un castello e una basilica che vedo di fronte, ho, se voglio la musica…chi più di me, mi dico e me lo devo dire parecchie volte al giorno, rinforzando la domanda con le diverse marche di alcolici di diverso colore da sempre inseparabili, così mi accingo ad andare avanti dentro e attraverso gli anni. E il resto del mondo lo posso osservare sullo schermo di un computer, un bell’aiuto dentro il suo schermo, così indisturbato posso insistere nei sogni non miei, solamente qualche volta disturbato dal suono delle sirene delle autoambulanze che i vetri delle mie belle finestre non riescono ad isolare. Dentro il tempo così.
    _ Ma?_
Ma un mercoledì sera, immediatamente dopo la cena, appena mi metto davanti alla mia finestra sul mondo, con una sigaretta innestata dentro i polmoni, lo schermo del computer mi blocca digestione e respiro. E’ lei, la sua faccia, è proprio un’altra volta lei e sue sono le parole scritte che mi compaiono davanti. Mi commuovo, tutto ritorna chiaro, tutto quello che non riguarda lei non è successo. Pape satan, la sua mano oltrepassa lo schermo, mi ha trovato e mi chiede scusa, poi un bacio, un bacio che ha il sapore dei nostri diciotto anni. Non le chiedo niente, non riesco, so solo che la pancia mi trema. Anche se fosse un incubo non posso non viverlo. Gli occhi sono gli stessi, sorridono di meno ma sono loro, la pelle, quella bella sua pelle, non usa più l’abituale profumo, ma uno nuovo, forse un pò acre, ma poco importa. Si scusa, si scusa ancora, perfino piange e ricorda, riempie la mia voragine nera, attacca dei pezzi e li incastra.
    _   Fantastico ma anche pericoloso _
Possiamo ricominciare, mi ha detto, possiamo essere felici, mi ha detto, ci possiamo divertire, mi ha detto. Ed ha ricominciato a divorare la mia pancia, lo ha fatto in modo famelico, ingordo, sembrava volesse arrivare a succhiarmi il sangue. Io? Dalla tenerezza, alla felicità, al dolore. Un suo taccuino nero dimenticato sul comodino sorvegliava la scorpacciata sognata, desiderata e poi dimenticata attraverso gli anni.  
 _ Un taccuino nero?_
Era sul comodino e mi suggeriva di aprire nel mezzo, approfittando del rumore della doccia. Nomi, numeri di telefono e orari di appuntamento, in casa e in albergo, un da fare incessante, mimetizzato a fatica.  “Alle 17 dal parrucchiere”, invece no “Alle 17 appuntamento all’Hotel Esperia con quel tale imprenditore “Ricco”, “Goloso di me, oltre il consentito”. Quel taccuino come una cacciavitata nella pancia.
Uscita dalla doccia a visto il taccuino aperto e bagnato da tutte le mie lacrime. E’ uscita di casa per sempre guardandomi per l’ultima volta con gli occhi di un demonio deluso e furibondo.

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