venerdì 13 gennaio 2012

La casa sul fiume

Questa città non è mai sembrata interessata a me, si è sempre dimenticata di avermi. La mia casa sul fiume è antica quasi quanto la storia sua, è stanca, sembra piegata su se stessa, è sorretta da altri due palazzi che le impediscono di esalare l’ultimo respiro. La mia casa che guarda il fiume è sorella e amica dell’acqua che le scorre di sotto, verde o troppo marrone, dispettosa e invadente, infetta e inospitale, avvezza alle irruenze. Mi avverte di stare alla larga. Si aggrappa forte al tetto di un antico tempio le cui colonne ho intravisto alte da un casuale buco della cantina madida di acre umidità, il sudore degli anni, delle anime invisibili che, annoiate, e meditabonde, ogni tanto vagano su e giù per le scale. La mia casa è stata anche il necessario bordello per i pellegrini in visita al tempio della cristianità, la cupola che svetta al mio fianco sinistro quando mi sporgo dalla finestra, l’osceno necessario alla preghiera di tutti i giorni. Ci provo sempre a parlare con le presenze di quelle signore che vendevano ai pellegrini il loro corpo appesantito.
Di fronte a me, oltre l’acqua che scorre nel mezzo ed il rumore  della civiltà invadente e tossica, è in piedi, a gambe divaricate Castel Sant’Angelo maestoso e cupo con le sue mura che odorano di giustizie sommarie e torture le cui grida si possono udire ancora, imprigionate nelle grate delle finestre, in certe albe domenicali. Urla amiche soltanto del nervosismo dei giovani gabbiani. Alla mia destra anche le mura dimenticate del carcere vecchio, diviso in braccia piegate e deformate dall’artrosi, da un ossessivo ripetersi, da un canto criminale mischiato all’escremento dei piccioni, a beffarde leggende che si allargano e restringono a fisarmonica attraverso via della Lungara, la sua strada di accesso.
Ora sono tornato e guardo le facce di anni prima, quelle che sono rimaste, che più di ogni altre possiedono e sono parte di questa piazza in bilico sul fiume. C’è ancora Luigi, un ladro ormai professionista, una volta era secco allampanato, alto e curvo su se stesso, come me. Non glie ne andava una giusta, si faceva arrestare con una facilità esagerata. Imbrogliava e derubava tutti, gli amici e i suoi stessi parenti. A me rubò una bicicletta. La sua seconda casa era il carcere Regina Coeli. Ma Luigi era capace anche di scusarsi, di abbracciarmi come si fa con un fratello, di dirmi che la bicicletta l’indomani me l’avrebbe restituita. A fianco a me abita ancora quella che era una ragazza bionda con due grandi occhi, due semafori celesti, cercava di bucarsi poco, cercava di amministrare e di dominare l’ago. Ora appare dalla finestra del suo primo piano, gonfia  e rassegnata, il suo grande sedere quasi non passa dalle porte, i suoi grandi occhi vivacchiano semichiusi e spaccia dalla finestra la sua mercanzia senza nemmeno la paura di essere scoperta. Cerca sempre il suo cane bianco scomparso chissà quando e chissà dove. La tabaccaia è ancora lì, ma più torva, più incarognita, adesso fuma la pipa e parla della snervante necessità di difendersi, odia i turisti, odia gli straccioni, i neri, gli arabi, i vicini di casa, le macchine, il rumore, i piccioni. Il futuro e il presente. Si è comprata una pistola per non essere rapinata per la settima volta. Adesso si sente capace di uccidere. Me la ricordavo sorridente e con una minigonna vertiginosa, le cosce dure e allegre e uno sguardo pieno di promesse imbarazzanti.
Sul portone incontro anche la signora del quarto piano, dovrebbe avere ottanta anni adesso, ma i suoi capelli sono sempre neri e la sua faccia è sempre quella di un’antica romana scolpita nella pietra, la figlia di un fantasma proprio di quei tempi lì, dicono in piazza. La signora Mercanti mi accolse il primo giorno che comprai questa casa, per l’occasione mi fece salire da lei a mangiare il castagnaccio, buono ma assolutamente indigesto, la sera stessa di quel castagnaccio il marito schiattò. Roberto poi ha ereditato l’antico e storico chiosco al centro della piazza da suo padre, sperava di diventare ricco facendo cappuccini e caffè per quelli dell’ospedale al di là del semaforo, ci credeva veramente. Adesso è lì, stanco e deluso, che si affanna, corre, bestemmia e vorrebbe rinascere lontano da quel marciapiede, oltre il confine. Rimane solamente per guardare i sederi delle belle straniere di passaggio. I nuovi ospiti della piazza sono invece i barboni, vivono e dormono sulle scale che portano al fiume, dividono il loro sonno e gli avanzi della piazza con i topi, con loro fanno festa nei cassonetti. Uno di loro ha la barba lunga e la faccia ascetica, gli occhi come due pozzi senza fondo, racconta a tutti dei suoi amici topi, del viaggio che si sta preparando a fare verso Gerusalemme, perché così c’è scritto chissà dove. Si fa invitare a pranzo nelle case, e  le deruba il giorno dopo. Barbone, sognatore e ladro.
Qui è la mia casa ad osservare l’acqua e i grandi alberi che tentano inutilmente di nascondere il fetido fiume che cambia il suo aspetto asseconda della pioggia e del fango strappato alla campagna. E al di là, sull’altra riva, il pensoso aspetto di una basilica, sfasciata e stanca di tutto quello scorrere, quell’andare di ferri e luci sotto di lei le fanno tremare le budella e rendono impossibile il concentrarsi delle mani sul rosario. La Basilica e il grappolo di barboni abbarbicati ai suoi stanchi e stufi scalini di pietra fanno la guardia a via Giulia, un’isola per ricchi indolenti, poco entusiasti ed annoiati con cani dal pelo lucido e macchine di colore blu.
Ho aperto la porta della mia vecchia casa con il batticuore ed ho trovato lo scempio, i resti di un campo di battaglia, è stata l’ultima inquilina ha regalarmi il massacro, rifiutandosi di pagare l’affitto, l’ha stuprata, prima di lasciarla. L’ha ferita a morte, ha rigato il pavimento di legno chiaro con un punteruolo, ha piegato i tubi dell’acqua, macchiato le pareti e massacrato selvaggiamente la cucina. Il soffitto, una volta affrescato, è pieno di macchie nere e squarci profondi, tutto odora di muffa e di odio. Ho vomitato il mio sgomento quando ho varcato la porta. Non voglio più, marcia in dietro e dimenticare di nuovo. Dove sono i ricordi, l’ha scaricati nel cesso? Ma prima di andare via, prima di richiudermi la porta alle spalle, avverto qualcosa sulla spalla destra una stretta leggera, la sensazione delle dita che, gentilmente vogliono trattenermi, tirarmi in dietro. La mia spalla si accorge della mano invisibile, mi giro e la mano tenta delicatamente di infilarsi nella camicia aperta.
Forse si tratta della mano invisibile di Elena, la mia prima moglie? Sicuramente no. Elena aveva il corpo del ghepardo, dal naso alle caviglie un odore meraviglioso che ancora oggi il lavandino e il bidè si ricordano e mi chiedono…allegra e spensierata, svagata.  L’ho conosciuta davanti ad un sassofono completamente ubriaco, per prime le sue lunghe cosce che si strusciavano addosso a me come per sbaglio, poi a casa mia per fare solamente pipì, e nel mio letto per provare a conoscerci. Si muoveva per casa nuda facendo eccitare pareti e scaldabagni. Gli operai che lavoravano di fronte alla cucina, non smettevano di masturbarsi, con quel loro coso impazzito e premuto contro la finestra di fronte, lei li stuzzicava così dalla mattina alla sera. Allegria pura siamo d’accordo, la mia casa entusiasta, anche per la sua grande passione per la sodomia. Il giorno del matrimonio è arrivata con un’ora e mezza di ritardo, le è rimasto il volante della macchina in mano e si è dimenticata di mettersi le mutande, poco male, mio nonno aveva la faccia avvampata quando gliel’ho presentata e non riusciva a staccare la mano dalla sua, la stringeva, la voleva. A metà ricevimento mi ha scombussolato il cervello, preso e portato via, in macchina, lontano, tutta la notte in viaggio, diretti a uno chalet di montagna i cui proprietari, contadini, hanno subito, per un’intera settimana, urla e schiamazzi indicibili di lei che si esibiva sul mio corpo divertito. Il letto poi si arrese, si schiantò in due, innervosito ed esausto. Tornati a casa, la mia casa sul fiume, Elena ci comunica un pomeriggio, a me e ai soprammobili, che lei è incinta, parecchio incinta veramente. Ma le pareti e il soffitto mi hanno messo in guardia
    _     Allora cambia tutto _
Come cambia tutto, avete visto porcate incredibili, era o non era un bordello questo qui, e adesso vi scandalizzate? Tacete ch’è meglio. Non potevano controbattere, ma l’intera mia casa si irritava, lo vedevo, me ne ero accorto, Elena diventava un sorvegliato speciale, s’incupiva, pensava e ci ripensa sopra, sentiva delle voci diceva lei, infastidita. Forse che non voleva questo figlio…forse.
Una sera tornando, lei era seduta al centro della stanza, nuda, a gambe spalancate, davanti al televisore che stava trasmettendo in diretta una tragedia, il crollo di una tribuna in uno stadio durante una partita di calcio, morti e feriti a iosa, grida e sdegno, disperazioni e rabbia oltre l’abituale misura. I morti aumentavano, lunghi distesi sull’erba. Lei rideva a crepapelle, completamente ubriaca. Accanto a lei, in terra un’intera collezione di bottiglie di vino, vuote, ingoiate per intero. Chi l’ha comprate? lei mi dice di no, se l’è trovate davanti. Nemmeno io. I muri sogghignavano. L’ombra veloce di un’altra mano, il suo grande seno, il profilo. Era stata lei, Era arrivata dai resti della basilica sotto le mie fondamenta ? Poi l’aborto, poi il matrimonio così immediatamente finito, lo splendido corpo di Elena trasformato, risucchiato dall’interno, segaligno e triste. Ed io con l’impressione che la mia casa  non sia stata dispiaciuta per nulla.



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