venerdì 13 gennaio 2012

Oggi

   _   Buongiorno io sono la tua iella. Arrenditi ed apri gli occhi. Adesso! _
Svegliarsi e restare a occhi chiusi. Pensare il proibito e correre da fermi. Inginocchiarsi davanti alla lavatrice, parlare con i piccioni e provare a convincerli. Tergiversare davanti all’armadio, desiderare di sfasciarlo, guardare e riguardare tutti i muri della casa sperando di incontrare una crepa, una fessura talmente grande da nascondersi dentro.
Riflettere e riflettere sul dentro, il dentro umido e quello arroventato, gioire per essere riuscito ad inventare la migliore bugia dell’anno. Andare in cucina e giocare a mimare il suicidio, ma il tubo del gas non c’è verso di staccarlo. Rimanere poi, e già si sono fatte le 10, davanti al citofono a riflettere su di questo. Il citofono può far paura, il citofono può far esplodere una immensa gioia, il citofono è il silenzio ammalato.
Buongiorno poltrona, oggi non voglio litigare con te, senza nessuna emozione ti faccio a pezzi e ti lancio dalla finestra, poi mi lavo, ci penso dopo. No, anzi, adesso mi metto a guardare il caffè che continua a bollire, ad uscire ed uscire. Voglio vedere quando esploderà, ammirare le macchie sul soffitto. Solo allora proverò ad immaginare di uscire di casa.
Adesso apro la finestra, perfidamente metto le condizioni atmosferiche alla prova, le sfido, le offendo. Che cazzo di tempo farà se oserò scendere in strada? Ne il sole ne la pioggia si decidono, aspettano che io metta la testa fuori, giocano con me, come sempre.
Aspetto, mi giro contro la libreria senza saper che fare. Pulisco, distruggo, seleziono, inverto, faccio impazzire la disposizione decisa ieri sera in un momento di depressione ?
Urla provengono dalla mia libreria, nel frattempo vaffanculo al caffè, ci penso ancora al caffè e alle sue macchie nere. E adesso che devo prendere una decisione su cosa fare di questo curioso oggi, entrano, dalla porta chiusa, ombre e facce mai viste. Mascelle scolpite nella pietra, sono antichi romani, sono facce di morti ed entrano in casa mia indisturbati, ma non solo loro. Vado in cucina, mi rifugio lì e trovo i superstiti di una qualche guerra, feriti, rattoppati, malridotti, che vorrebbero mangiare, che guardano disperati verso la dispensa. Pronti a tutto sono, disperati. Ma è vuota, ma c’è rimasto solamente qualche biscotto scaduto, e un cadavere di aglio, il latte è scaduto e acido,ma io che cosa c’entro? Io c’entro e come, sensi di colpa a iosa oggi di più di ieri. Ieri sera guardavo un massacro al telegiornale senza battere ciglio e non era sicuramente colpa mia, assuefazione all’orrore solamente. I  sani ragionamenti rimandati a data da stabilire. E come glielo spiego a questi infelici, anche perché mi sembra che con me non ci vogliono proprio parlare, non ne vale la pena. Mi spazientisco allora, anche se fondamentalmente li amo. Li minaccio allora. Fuori dalla mia cucina, non sono mica capace di fare miracoli io. Santo non sono, un debole  sono, cattivo a volte, quando non me lo aspetto.
La casa continua a riempirsi, sento muovere e arrampicarsi perfino dallo scarico del gabinetto, braccia, zampe, lingue, ali, pance, non so, è tutto uno strusciare. In corridoio mi passa davanti un qualcosa con le budella di fuori, se le regge, mi guarda come per dire “Ti eri scordato di me ? Davvero hai potuto rimuovere? Lo sapevo” Poi mi passa oltre schifato. Chi è? Perché ? oggi non riesco a ricordare, e forse così è meglio. Forse è solo una questione di stomaco vuoto, il bar sotto casa potrebbe risolvere tutto, ma uscire, ma vestirsi, è facile a dirsi….
Adesso rovistano negli armadi, me li aprono. Allora mi viene fuori un urlo un po’ per la rabbia e un po’ per paura, ma non è un urlo, solamente una vocina stridula, ridicola, che non sospettavo di avere. Adesso perfino, un corpo di pietra si siede sul divano e mi parla, con voce che puzza di fogna, tenendosi sotto braccio una testa pesante, la sua. Oggi e le pietre.
Mi dice che la casa appartiene a loro, che sono venuti a riprendersela, che io devo andare via. Quello però mi sta parlando con la mia voce. Qui c’era un bordello, mi apostrofa.
_   Se non te ne vuoi andare noi con te ci sfoghiamo_
Per istinto di sopravvivenza, per non perdere la verginità e per una lotta ostinata contro i capricci irraccontabili del mio inconscio, mi lancio verso lo stereo e faccio esplodere la musica, talmente forte che la pietra si sfascia, si polverizza sul pavimento, e gli atri arretrano lasciando sul campo, sul pavimento, un olezzo insopportabile. La distruzione puzza di morto, è vero.
Oggi sono stato coraggioso mi dico, ma il fracasso lo devo mantenere per paura, per non vederli più tornare.
Suona il citofono, suona il telefono, bussano alla porta, s’infuriano, sono i vicini e chi altro, mi assediano, mi minacciano, mi dicono di abbassare la musica, di arrendermi, di aprire e farmi scoprire, così come sono. Io no, io sono al centro del salotto, circondato dalle mie pietre, le mie bollette scadute, i miei inutili scritti, le conchiglie e le pipe, le due clessidre, il sapone per lavare i piatti, il cibo per cani, tutte quante le fotografie, le cinque mie paia di scarpe, tre paia di pantaloni storici, bucati consunti, tutto a formare il cerchio magico mio, la difesa di tutte le mattine, il rifugio inviolabile. Suona anche lei alla porta, ma non le apro, non posso, devo difendermi, non so ricordare da quanto non le apro. Non ricordo chi è lei nemmeno. Il tempo passa, quale tempo? L’orologio si è sfasciato cinque anni or sono. Il mio tempo è scandito solamente da gocce che ogni tanto cascano fragorosamente dal lavandino della cucina, poi capita che tacciano per giorni.
Combinato così, così prigioniero delle cose mie, aspetto che il resto del giorno si compia, aspetto il domani. 

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