venerdì 13 gennaio 2012

Dipartenze

Sono diversi giorni che !...
Prima di addormentarmi, provo a tirare le mie somme, ricordarmi tutti i particolari, metterli in fila, possibilmente di assolvermi. Cerco una spiegazione plausibile, diverse credibili giustificazioni. La mia stravagante e distratta esistenza adesso, esige delle risposte. Adesso, subito!
Il mio sonno è agitato, mi avverte ed insiste che il mio tempo s’è accorciato, ha il singhiozzo. S’è rotto.
E’ così, non mi posso sbagliare.
E allora cerco nel mucchio, frugo, sposto, collego, incastro, mi rigiro, ma mi ritrovo in mare aperto, senza appigli di nessun genere. Mi tengo a galla a fatica, vado giù e risalgo, rivado giù, e il buio e il bagnato mi rivogliono avvertire. Ma c’è il tuo sedere, oh sì, il tuo sedere superbo !. Mi aggrappo al tuo sedere, che mi punisce e si scosta e si scosta.
Devo cavarmela da me.
Mi rotolo nel letto con un curioso freddo lungo la schiena e una fatica a respirare che cresce e mi spaventa. Sono spremuto contro il lenzuolo, te lo dico e tu russi, t’infastidisci, bofonchi e catapulti inconsapevolmente il tuo gomito sul mio naso.
Che inutile dolore mentre scavo negli miei irrisolti perché! Le randellate inutili, a freddo, senza nessun motivo. I dispetti tignosi, le urla, gli isterici tremori, i disordinati sensi di rivalsa, le promesse, i giuramenti intermittenti di atroci vendette.. Le sgangherate dichiarazioni di guerra, alla scuola, a mia madre, al mio compagno di banco, alla mia pancia, alle acne che mi deturpano la faccia, agli occhiali.
E aldunque la scoperta della masturbazione. Così tanto per far passare il tempo. E alla fine sudato e scontento con quest’affare ridicolo n4elle mani. Adesso non è proprio il momento.
Ma il freddo lungo la schiena persiste e si dirama. Una infreddatura banale?. Fesserie perché è il mese di Giugno.
In rapida sequenza m’accorgo di un dolore alla schiena. Se ti sveglio e te lo dico mi rispondi che esagero, che non mi ricordo il mestiere che fai. Sei stanca tu. Già, ma il tuo sedere rotondo?!
La mattina è uguale a la notte, identica.
Mi arrovello, non riesco ad alzarmi, mi tormenta un risentimento non decifrato, è quello ad avermi fermato, nell’anima e nel corpo. Il mio rancore contro il tempo che corre, questa è la chiave, desolante, arrugginita e… Te lo dico, lo dico alle tue mani e al tuo sedere, il magnifico, sudo ed ho freddo. Non faccio a tempo a pensare che tutto è già passato, è scaduto, è già da gettare via.
Cinque giorni a rigirarmi e a tribolare.
A rigettare sul lenzuolo una manciata di ricordi pressoché indecifrabili, di gomma ciancicata, cinque giorni e cinque notti in cerca di te fra le pieghe delle lenzuola che devono essere cambiate, che hanno un odore di broccoli, di formaggio. Un sudario.
Un altro dolore alla base del collo. Non me lo immagino, non lo invento, è lui, lo firmo.
Anche un sibilo, un fischio, o qualcosa del genere. Questo non voglio dirtelo, perché francamente non è per niente conseguenziale al dolore alla schiena, e col freddo anche quello non c’entra. E adesso ricordo che il medesimo fischio tormentava anche i timpani di mio padre.
I nostri cari morti ritornano per prenderci per mano e trascinarci al di là del portone. Mio padre è tornato per questo? Ma no, c’avrà da fare per conto suo, avrà sconfinato per sbaglio, non se ne sarà accorto nemmeno, come è solito suo. Mio padre è proprio il meno adatto per venirmi a prendere. Dall’oltretomba mi saluta appena, sembra che mi sorride, ma poi si riattacca ai suoi pensieri, ad inseguire formule, si perde.
Basta con i sogni. Mi voglio riattaccare al tuo culo e al suo caldo, lo cerco, è ancora in bagno. Il tuo culo è sempre stato il rimedio a tutti i dispiaceri dell’intera e problematica umanità.
Arrivi nel letto, ti sistemi scostata da me, allora, per dispetto, mi metto a tremare. Ti giri e finalmente mi tocchi, mi tasti, a colpo sicuro mi esplori. Mi guardi attonita. Allora è vero? Sto male davvero? Non si tratta della solita sceneggiata per interessarti? Quanto tempo esattamente mi rimane?
Suona il citofono, il cane si scalmana e urta, il comodino crolla, l’intera oggettistica si schianta, sul pavimento un putiferio di schegge di ceramica.. Tu salti per aria, ricadi malamente sul letto che cede a sinistra. La gamba cede, sempre la stessa cede, nei momenti cruciali. Ci rivuole un po’ perché l’atmosfera ritorni seria e tesa, anche perché il postino vuole farsi firmare, lo pretende, e il cane lo fronteggia. Devo aspettare un altro quarto d’ora per ricominciare a delineare la mia dipartita. E il postino si riprende la gamba aggredita dal cane e riesce ad andare via spergiurando che rivedere non si farà mai più.
Arriva allora un mio corposo ed inaspettato sputacchio. Ti colpisce in pieno, te, schifiltosa e igienista, mentre, nervosa, sei costretta a riavvicinarti a me che ti chiamo con un rantolare teatrale, così naturale e verosimilmente sofferente. Lo scaracchio sa assolutamente di malato, è verde, ne convieni anche tu. Ci vuole un dottore, è necessario, ma te lo voglio dire
_ Il dottore sei tu! _
Hai un brivido lungo e continuo di repulsione verso di me e verso il mio sputo. Il brivido parte dalla fronte e raggiunge in men che non si dica la punta dei piedi, passando per la bocca dello stomaco naturalmente, ovviamente facendoti trasalire. Allora scappi, ti barrichi in cucina, dici che devi pensare ad un da farsi meditato e corretto.
Il tuo sedere non ho più e ti richiamo con una voce fessa, cerco la tua mano e acchiappo il paralume. Scopro che mi viene da piangere. Così forte? No, è l’acqua ce esce dal lavandino, sei tu che nel frattempo sei corsa a lavarti. Ti chiamo, mi richiami, ti richiamo, mi richiami, ti dico e dichiaro che non ce la faccio ad alzare la testa e voglio subito saperne il perché. Mentre ti asciughi, io, che perdere tempo non posso, esprimo le mie ipotesi, enumero i rischi, aggravo e sceneggio la situazione in modo da riaverti vicino.
Ti ripresenti al capezzale con un grande asciugamano che ti pari dagli schizzi del mio interno in decomposizione. Adesso, con le dita piantate nelle tue braccia, costrette a stare in una posizione storta e innaturale, aggravata dalla tua ernia cervicale. Posso abbandonare me stesso ad uno sconforto che si dipana in una serie di visioni passate, assolutamente poco importanti, e una rilassatezza, una stanchezza muscolare che di solito arriva abbracciata con l’ultimo sonno, quello definitivo.
Sono in ascolto, di piangere non mi va più, gli occhi si socchiudono ma ti resto aggrappato. Non hai più sedere, dov’è? Osservo ai piedi del letto un bamboccio coi pantaloni all’inglese, i calzettoni bianchi, un maglione blu, la schiena dritta e lo sguardo sperduto, disinteressato, inconcludente. Un deficiente. Tiene per mano un adulto, ecco adesso qualcuno della mia famiglia apparirà nell’inquadratura, così sono di solito le visioni prima che il cuore cessì di battere. Non mi spavento, mi rassegno, resto a guardare. Ma l’adulto chi è? Con la mia famiglia non c’entra niente, e il bamboccio non mi somiglia nemmeno. Hanno sbagliato indirizzo e piano? La signora morte è pure distratta?
Pronta intervieni, mi metti sotto il naso qualche fotografia smangiucchiata del tempo che fù. Ma senz’occhiali non c’è mica verso! E gli occhiali dove sono, non ci stanno, non si trovano. Eccoli, starnuto e t’innaffio, lasci la presa e ci cammini sopra. I miei occhiali sono defunti ancor prima di me. Ed ecco che mi prende un attacco di bile.
Ma perché ti sei messa in testa di avvelenarmi gli ultimi momenti? Senza i miei occhiali, pensieri e idee non si mettono in fila. Ti insulto, invoco il tuo sedere e tento di riacchiappare il tuo braccio, ma sbaglio senza occhiali, e mi avvinghio a un polpaccio. Stringo con la poca forza che mi rimane, risputo, esagero e vomito, ti riprendo in pieno così bloccata come ti trovi. Grondi schifezza e mi accorgo che balbetti, che in fondo, che forse mi detesti pure, che vorresti di corsa lanciarti fuori della porta e lasciarmi schiattare da solo. Mentre assaggio l’ipotesi amara di questa parte di te, mentre vorrei raccogliere le forze per rinfacciarti quanto è necessario, soprattutto perché il momento si preannuncia drammatico, ecco che vedo mia madre al tuo posto. E’ giovane, bugiardamente sorride, è lì che sta per farmi una carezza. La chiamo e mi sciolgo. Allora sto per morire sul serio? Mi passa una mano fra i capelli, ma non sa resistere, ma proprio non vuole rispettare il copione.
_ Quando te li tagli i capelli, sembri una donna, per la miseria, alzati e vai! _
E no, ma come, anche adesso? Schiattare con la zazzera lunga è un vezzo al quale non voglio rinunciare. Rompermi le scatole ancora è proprio necessario? Da lei non mi faccio accompagnare nel mondo dei morti, ci manca solo che ci mettiamo a discutere lungo la strada. Così non va, così non voglio.
Allora fra i rantoli mi suggerisci una cosa da farsi, t’incarichi di avvertire l’intera famiglia. I miei due figli, mia madre, i fratelli, i cugini e gli zii, arriveranno subito, che tu hai bisogno di andare a fare un minimo di spesa. Sul loro arrivo immediato è impossibile crederci, in vita non è mai successo, tutti loro hanno sempre avuto molto da fare. Di fronte al morituro chissà!
T’impegni al telefono ma la linea non c’è e non c’è verso quindi che qualcuno risponda. La bolletta del telefono ti avevo detto di pagarla e non l’hai fatto. Ma sì può dipartire così? E’ inaccettabile, è sconveniente, è imbarazzante, è umiliante e di più. Soli e isolati, io e te, con un cane imbecille che non vuole smettere di abbaiare!
Mi accorgo che non posso ne muovermi, ne protestare, è l’ora, sto andando, è così che succede, il tempo per un tragico saluto ed è fatta., senza niente di scritto e organizzato. Ma tu, con carta e penna mi leggi nel pensiero e sei pronta, sotto dettatura, a rimediare. Che lascio e a chi? A chi, se l’unica penna non scrive? E poi la scelta delle pompe funebri, a fatica te lo faccio giurare di non rivolgerti all’impresa di beccamorti qui di sotto. Lo so che ti sono simpatici, ma nel momento del bisogno quello più giovane, quello che piace a te, per intenderci, il ricciolone non mi ha voluto offrire la sigaretta che gli avevo chiesto. Quelli non voglio che si occupino di me.
Un fetore insopportabile si fa strada nel disappunto. Nel mezzo di una mefitica nebbia, intravedo il tuo viso, contorcersi, tremare, come se si stesse per innescare una bomba. Insieme alla pancia che mi sta per esplodere, indovino il tuo desiderio di dartela a gambe. per evitare il peggio
Lo svenimento, il grigio appiccicoso, un rumore di lontano sbattere di metallo. Ci vedo doppio, due tavoli, due te, due porte che sbattono e veloci si richiudono.
_ Vado a lavorare e poi torno _
Mi urli precipitandoti giù per le scale. Te la sei data a gambe e questo è un fatto. E no, prima mi arrabbio, poi ti prendo a calci sul quel sedere che adoro, e dopo semmai… posso dipartire. Così come sono, in rapida successione, mi sento meglio, m’infilo le mutande e ti corro dietro, per strada, lungo il fiume e in mezzo al traffico. Tocca a te a dipartire semmai, mollo fendenti feroci, se il semaforo ha intenzione di diventare rosso quella che schiatta sei tu.

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