venerdì 21 dicembre 2007

Dalle viscere


La nave si allontana dal porto. Accanto a me Francesca guarda le luci della città che si allontanano come una cieca, senza interesse, con la testa piegata da una parte e una sigaretta, due, tre. La guardo e nemmeno riesco a ricordare che corpo ha, il colore dei suoi occhi e il perché. Il suo sedere solamente, il suo camminare.
Torno nell’isola dopo dieci anni, dieci anni col pensiero fisso a quel posto sperduto, quello scoglio enorme e scuro
La grande testa del gigante in mezzo al mare mi chiama, è me che vuole, proprio me. Mentre fumo una sigaretta e mi guardo le scarpe vedo gli spruzzi del suo fuoco e sento i tuoni della sua voce. Il vulcano mi aspetta. Mi alzo e cammino e lui c’è ancora, sento nel naso il sapore del suo zolfo. Da me vuole sapere, sicuro che ho qualcosa da raccontargli.
Ero già stato nell’isola con Viola, lei aveva i capelli rossi come il fuoco, aveva un’esplosione gioiosa di efelidi sulla faccia, aveva due gambe lunghe e affusolate. Eravamo andati lì con la speranza di salvarci, di metterci al sole.
Un cono nero, una pentola bollente, nera la spiaggia, le case bianche, due soli disastrati campanili contro la forza del fuoco e il tremore della terra, un santo di legno tarlato con una spada marcita dal tempo e gli abitanti superstiti di una favola inverosimile e antica.
Avevamo trovato posto in una casa alta, forse l’ultima, prima delle pendici del vulcano, una casa che nascondeva segreti e trappole, cose non dette ed evidenti stonature.
Pietro era il padrone , un otre piena di bugie, in fuga dal continente. Era stato un bandito, un furbo, un manipolatore. Si nascondeva lì fra pietre, tavoli e terrazze.
Carmelo era il suo ospite fisso, un filo invisibile e appiccicoso li legava, uno strano vecchio con la faccia da indiano e l’animo pieno di alcool. Io e Viola stavamo ore ad ascoltare il suo dialetto incomprensibile, ci raccontava un mondo pieno di dischi antichi e rovinati, di libri assaliti dalla muffa, belle donne e fughe precipitose, debiti, abbandoni e disillusione.
Quell’isola prigione, quel mare per prendere le distanze da tutto.
Carmelo parlava e parlava, sottovoce spargeva saggezza, biascicava dentro la notte con le spalle al mare e il mento in su verso la bocca del vulcano.
Aveva un vecchio e inutile fucile sotto il letto per tenere lontani i fantasmi e i creditori. Parlavano i suoi piedi nodosi, nudi e lerci.
- Il vulcano ti è amico, ma di lui non fidarti mai troppo -
Ma parlavano anche le pietre scure della spiaggia, restituivano milioni di voci confuse , voci antiche, confuse con la risacca.
Il vecchio cane di Carmelo sembrava rassegnato e tentava di seguirlo sempre più stanco. Pietro invece si dava da fare a rappresentare le sue tante verità inverosimili. Nella sua faccia invece c’era disegnato. magari un delitto. Lorenzo era il suo figliastro, bello e debole, diretto parente di un Dio minore. Passava le sue giornate a progettare la fuga definitiva nel continente che s’intravedeva laggiù. Due volte lo avevano ripreso in procinto di andare ad arrostirsi nella bocca di fuoco.
Una mattina, quella mattina, mi sveglio e cerco Carmelo. Pietro mi racconta distratto.
- Carmelo mi ha aspettato, ma poi, seduto davanti al vulcano e impegnato con lui in una discussione fra alcolisti, dopo una fragorosa scorreggia è morto. Lorenzo è riuscito a fuggire, questa notte nascosto dentro la vagina di una turista. Il vulcano ha parlato e tutto è successo.Io aspetto il turno mio –
Guardando in sù, arrampicandomi con gli occhi su per la roccia e la sabbia nera mi era sembrato di intravedere una possibilità, un nuovo coraggio, una promessa, una vita nuova. Io e Viola senza il veleno nelle braccia, ad ammirare la bellezza di quel mitologico destino.
Allora un violento spruzzo di fuoco usciva dallo stomaco del gigante. Voleva parlarci. Dovevamo salire, dovevamo ascoltarlo. Un ordine.
La nave, sgangherata e cigolante, attracca nell’isola all’alba. Le case, la sabbia nera, quelle facce scolpite nei sassi. Il gigante nero e il suo fuoco. Tutto come anni prima, ed io a lui mi rivolgo.
- Sono tornato da te, Viola si è persa, ma forse è scesa dalla nave anche lei, nascosta dentro la mia maglietta o in una tasca dei pantaloni. Ti ho portato Francesca, che però non ti vuole conoscere -
Ti parlo e guardo Francesca che vorrebbe tornare indietro, sente un odore acre, sente tremare la terra
- Potresti inghiottirla magari, fammi questo favore? –
Camminando riconosco i posti e gli odori. Il gigantesco albero di fichi con i rami così carichi e pesanti, il dinosauro mi saluta e cigola. E’ l’alba, nascoste nel corpo dei gabbiani e dentro i cactus riconosco ancora le anime dei pescatori scomparsi nel mare. Le barche del porto, le reti, l’odore del pesce, le corde e le carrucole, le facce dei gatti come quelle di dei pagani, le finestre ancora chiuse delle case così bianche da sembrare un inganno. Sono qui, qui un’altra volta, nudo e pronto ad essere posseduto in modo definitivo.
Passo dopo passo una mattina mi attrae a sè, non l’ho fatto allora e devo farlo adesso.
Vertigini e fatica,. A metà strada, tornante dopo tornante, un boato sordo, uno strillo, sembra da dentro il mio stomaco. Affondo nella lava e indietreggio, a testa bassa e quasi pentito, vado.
Sono convinto di andare ad ottenere il perdono, oppure qualche altra sorta di permesso. Fumo, zolfo e terrore autentico. Mi storco anche una caviglia ma vado su e vado su
- Vuoi confessarmi? Forse mi ordinerai di buttarmi giù ? -
Ecco che arrivo sulla cima, ma non mi azzardo a guardare verso la bocca. Mi siedo e attendo la misericordia tua.Un qualsiasi verbo, un segno, un sasso lanciato dritto sulla nuca.
Respiro fumo denso, giallastro e velenoso. Una bava interminabile che esce dalla tua bocca infuocata. Quando poi i miei polmoni risputano fuori, il fumo è miracolosamente bianco, più leggero, tiepido. Il dolore e il lerciume mi attraversa e se ne va.
Sicuro. Tutti i miei sogni sono adesso mondezza. La vena rossa del tuo fuoco che sale in superficie mi entra dentro ed a forza vuole spingere fuori la mala sorte, mi fa sanguinare. Tutto devo e sto via pisciando.
Grazie vulcano, se da qui mi farai scendere. Grazie vulcano. Grazie truculenta faccia di matrona isolana, grazie pescatore fatto di roccia, grazie budella di pesci lasciate a marcire. Grazie principe randagio dei cani Mi richiudo i pantaloni. Chissà come mi rotolo giù, mi lancerò fra le canne e i rovi convinto adesso di essere invincibile.
Ad uno ad uno riconosco le facce, le loro mani, i loro fiati alcolici, il rumore dei loro passi, i denti, la loro musica. Mi salutano i fantasmi adesso coperti di carne viva.
- Adesso vivi, provati, cammina adesso sulla spiaggia, questa spiaggia qui che ti ha visto sfinito, grigio, in cerca di una qualsiasi salvezza, anche di seconda mano, con la roccia così diffidente e nemica. Guarda quanti corpi al sole, stenditi con loro e chiudi gli occhi-
- Ti ricordi di me? –
- Ti ricordi il mio nome? –
- Allora almeno riconosci i miei fianchi, e si che mi guardavi –
- Eilà sei ancora vivo ? Eilà ma come hai fatto? –
- Se vuoi strusciarti io non mi offendo mica –
Francesca dorme, non vuole guardare, Francesca s’è scavata un buco nella sabbia e aspetta l’ora di andarsene. Sei tu vulcano che vuoi mandarla via.
Adesso con i denti e con i muscoli, adesso con le tempie che pulsano desiderio, adesso che la faccia di Viola mi può sorridere da quella bara fredda. Adesso sento me dentro il vento tiepido e dentro il mare che ricomincia su se stesso.
Sono qui circondato da fiaccole accese, nella sera arrivata improvvisamente, accanto a lenzuoli bianchi pieni di cibo e vino, sotto il vulcano il paradiso terrestre.
I fuochi fatui arrivano in processione, mi si siedono intorno, mi chiedono, ridono, mangiano e si ubriacano. Vicino a me che mi sento risorto, che mi dispongo al piacere di essere vivo e di essere salvo. Grazie Vulcano ancora.
Dunque mangiano, dunque ballano, dunque devono, dunque si toccano. Francesca solidificata in un totem mi guarda incredula
- Ciao sono Angela –
Ha il ventre scoperto illuminato dalla luce delle fiaccole, ha la gola ubriaca, scuote la testa e i seni si spalancano.
- Mia figlia Angela te la ricordi? –
Angela m’infila una mano nei capelli, s’infila dentro la camicia, slaccia i bottoni, me la ritrovo addosso. I suoi denti sono talmente bianchi che illuminato il banchetto nuziale.
Via le mutande. Il gigante nero festeggia un suo nuovo discepolo.
Le cosce allargate sopra la mia faccia, a lungo e con molto sudore, finchè dentro ci sono. Intorno guardano, si alzano e si risiedono, sembra che ci danno il ritmo. Francesca è ancora lì, non più mia ma del buio.
Il seno ed il collo di Angela addosso. Ecco che ricomincio, che risorgo di nuovo, ecco il mio io che ribolle. Vengo e mi sento indubbiamente vero, vengo e mi sento senza dubbio libero, vengo e mi convinco di essere un semidio, figlio adottivo del fuoco e della fortuna nuovamente.
Apro gli occhi, mi provo, Angela è nuda e sfinita, accanto a me e mischiata alla sabbia. E’ l’alba. Lei sorride a se stessa.
- Volevo dirti, non te l’ho detto prima. E’ bene che tu sappia…-
- Ho l’Aids, la sifilide e l’epatite ..Se capita che muori non ti offendere. Il vulcano ti ringrazia e ti saluta.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Allo sfacelo dei grigi
si aggiunge un cielo sabbia
e quanta polvere negli occhi
da masticare ancora
fra la lingua e il senso
incatenati a questo disincanto,
riversi e nudi
sulla spiaggia vulcanica
dei nostri inferni impuri
da violare
da difendere
da amare

Ciao Costantino,
buon giorno in poesia
bacio bacio
L.