venerdì 20 marzo 2009

Due metri più in là

Buon giorno mondo.
Anche questa mattina mi capita di mandare giù cinque di troppo di quel liquido atroce e miracoloso del quale mi trovo per caso ad abusare per generici guai della mia testa, a me non chiari. Mai perfettamente. Irrinunciabili guai. Ma no, nei bicchieri non c’è mica niente, sono costretto a sceneggiarmi per illudermi di potere ancora picchiare il mio fegato, che invece s’è arreso. E quindi faccio finta, per avere ancora certe visioni idilliache, per sorridermi e per guardare con tenerezza il mio bel mondo in preda ai conati. Alcolisti anonimi? Ma no, faccio da me, che me la posso cavare meglio.
Ed è così, rimbambito così, ridicolmente fasullo, col sedere incollato ad una sedia sbilenca e davanti a un tavolino massacrato, in un bar invisibile, che mi accorgo, due metri più in là, assolutamente per caso, di un accennato sorriso di passaggio, un lampo, un’incursione. E allora, visto che funziona, prendo un altro bicchiere in prestito, vuoto, asciutto, ma profumato di beata disperazione. Lo rubo al vicino.
Apro e chiudo gli occhi. Il sorriso è stato ingoiato da un autobus pieno di pance rumorose, di menti aguzzi, gomiti ruvidi, vene varicose, foruncoli, peli su peli, pettorali fieri di se stessi, di ginocchia ostinate, piedi piatti, nasi oramai irrimediabilmente vecchi, caviglie troppo grandi e veramente affaticate, volti butterati perché si sono grattati da piccoli. Non si tratta dell’autobus, è il purgatorio. Sono le mie interiora che ballano. Sono io che navigo nella strafattezza virtuale. Funziona. Prendo il bicchiere vuoto , succhiato e lercio e me lo appiccico alle labbra. E quella che mi appare adesso è addirittura una gamba mozzata, così, di netto subito sotto il ginocchio, e una mano tesa, e centinaia di mani. Chiedono da mangiare, se lo contendono, discutono, se le danno, infuriate si richiudono, si abbandonano e sembra che muoiono. Si frugano, si appendono, prendono e continuano ad indicare, s’incamminano e cercano.
Due soli metri più in là, da quel tavolino lurido, ascolto adesso voci sconosciute che galleggiano sull’asfalto bagnato, annodate le une con le altre, scorrono via con l’urina. Voci impregnate di fogna. E quelle rughe insidiose vogliono per forza raccontare maledette storie, storie che ho respirato inconsapevole, che non avrei mai voluto ascoltare, .storie vere ed inverosimili per dispetto, solamente per farmi paura. Soltanto due metri più in là dove la fortuna non riesce ad arrivare, si apre la mia voragine, esattamente al centro della strada, al centro di un giorno assolato e assoluto, imprevisto, splendente, dal cuore pulsante, ventoso e aspro, questo giorno preciso, magari un venerdì. Proprio un maledetto venerdì.
Con le scarpe ch’erano state marroni, la cravatta lenta e la barba ispida e cresciuta a casaccio, le mani indecise, storte, callose e sudate, con gli occhiali sporchi e il cappello. Stando seduto posso vederlo, è steso sul ponte, a dormire, a sognare l’inizio e la fine di altro, immerso completamente nel suo destino già scritto, di melma marrone. Una schifezza di meraviglioso destino fatto di distillato di suola di scarpe. E la gente gli è sopra.
Poi due metri più in là compare una bicicletta, e una serie più lunga di starnuti, e due file di nasi, e un fianco arrogante, che non si ferma e non ascolta mai. Uno sputo malato e giallo a pochi passi dal cappello. E dal cappello la bella musica di un violino, che è laggiù, sul gretto del fiume, che ancora vuol farsi sentire, che accusa, ma ancora non vuole morire.
Due metri più in là, nel buio, dietro un portone, nella solitudine di un gabinetto, sotto un tetto e nella fessura di una pietra, nell’angolo di un pensiero scassato e maligno, nel palmo di quella mano che vuole passare inosservata, sulle scale, insieme alla sua colpa. Io, lui, con lo stomaco vuoto e dolorante, con il suo occhio che non ha mai smesso di cercare, con il latte scaduto e l’unico pensiero valido ch’è andato perduto durante il cammino, scivolato e calpestato, rincorso da un cane e a seguire sotto una ruota di un cervello distratto. Raccolto, ingoiato e rigurgitato da un ubriaco e due amanti distratti, che ancora di amarsi non hanno capito.
Resto seduto e continuo a guardare. E come mai adesso quello che resta del pensiero giace malridotto nel letto di un ospedale ed è preda succulenta dei camici bianchi ? Come mai quel pensiero è così stanco e intende smettere di lottare? Niente affatto, deve continuare, aspetta la sua ultima carta vincente. E la trova ancora una volta a due passi da me, declama i sui versi e si veste di stracci e non si preoccupa del coltello, se il freddo tenterà di ucciderlo, se la fame deciderà che questo è il suo ultimo giorno. Ma in un momento di grande silenzio il pensiero scopre all’improvviso di poter volare, mi invita a provarci, non aspetta la mia risposta, mi prende, mi trascina e via.
Ed è così, che due metri più in là di questo bar invisibile, mi guardo infilato nell’acqua del fiume sacro, fianco a fianco di un’umanità impegnata a purificarsi, mentre accanto bruciano i cadaveri galleggianti su pile di legno e vagano le carcasse degli animali. Anche i miei escrementi, ma non solo i miei. Il pensiero m’invita a girarmi e fissare meglio la mia attenzione su un vecchio magro e nudo, un vecchio Gesù, che sulla riva si sta impegnando a morire beatamente, con la pancia scavata e gli occhi perduti in tutta quella folla a bagnomaria. Sorride aspettando che la sua fontanella si riapra e ne esca l’essenza. E tutta quella folla non se ne cura per niente.
Ma all’improvviso tutti insieme di qualcosa si accorgono, escono dall’acqua, dal fondo e dalla superficie, uniti e stretti, a migliaia in una indistinguibile direzione. A due passi da me, gli scoppi, i lampi, le urla e i brandelli, così ancora in ordine invertito. Lassù, sulla collina, come nel quinto bicchiere vuoto, l’odio si compie e cresce su se stesso. E continua a sparare, dimenticando in fretta il suo perché. E tutte quelle croci, e quella fila infinita di maschere, e tutto quel diabolico rumore, e la bava bugiarda degli incantatori, e le fauci spalancate di cosce lucide e sederi perfetti, e i finti pentimenti e le manomissioni. E la spietata crudeltà della bellezza. Tutto quanto a due metri da me, in processione sul marciapiede
-Ne vuoi un altro?-
Mi domanda il barista.
- Pieno? –
Si, rivorrei la mia stupidità alcolizzata, anche in un unico e solitario sorso.

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