giovedì 26 marzo 2009

Il suono del tamburo

Sono davanti alla finestra di casa mia, guardo il fiume e i rami dei grandi alberi che mi sono davanti, ed è notte. Guardo fuori, e sprofondo in un rumore di tamburo.
La sirena di un’ambulanza rinforza quel rumore che mi scaraventa contemporaneamente in un altro luogo. Seduto su una panchina, di giorno, in un’altra città, in una piazza silenziosa, con poca gente che passa davanti a me, sotto un sole pesante, carico di tensione. Laggiù, nel buio della strada, sotto un lampione rotto e sbilenco guardo passare qualcuno. Si ferma, si gira, guarda verso la mia finestra, resta così, immobile e a lungo. Potresti essere tu, che t’infili nei miei sogni all’improvviso. T’insinui lì dove non dovresti essere. Il suono del tamburo non s’è azzittito, m’invade le tempie e m’inchioda a quella panchina, ordinandomi di non muovermi, di aspettare, perché quella figura notturna arriverà anche lì. E la piazza ora deserta la conosco, la riconosco. Seduto sulla panchina aspetto di rincontrare un’ansia così forte , capace di togliermi il respiro. Mi passa davanti un gatto, si ferma ad annusarmi, sembra conoscermi, gli piace il mio odore, sembra dirmi
- Stai tranquillo, accadrà, mica sei qui per nulla-
Un vecchio con il suo bastone, più affaticato di lui, fa un cenno di saluto, e quando mi è più vicino, mi parla come se mi avesse già visto, come se sapesse che io non sono di qui.
- Ci si torna volentieri, è l’aria di mare ! –
Il mare è vicino, a soli due isolati da qui. Mi guardo intorno, il passaggio di qualche auto sonnolenta e le finestre delle case ancora chiuse, mi dicono che è probabilmente domenica ed è mattina presto. Di fronte a me un bar sta aprendo la sua saracinesca proprio ora.
E il suono del tamburo, quel suono, lo stesso, è ricominciato da quando ho posato il mio piede sinistro sulla pensilina della stazione. L’ultima volta che l’ho fatto, qualche mese fa, la stessa stazione scoppiava di gente. Tutta quella gente che adesso, guardando dalla finestra di casa mia e seduto su questa panchina, passa davanti a me. Li riconosco, li conto, tutti Uno per uno. Sciamavano dal treno assonnati ma con passo entusiasta, portavano bandiere e striscioni colorati, cantavano andando, dentro questa città, diretti verso codesta panchina. Li sento, anche se non li vedo, adesso sono fantasmi, avanzano a migliaia, si muovono al ritmo del tamburo che continua e continua nelle mie tempie. Vorrei alzarmi e andare via, non è stata una buona idea arrivare fino e qui. Ho paura di riconoscere le lancette dell’orologio che si muovono inesorabili, le vetrine dei negozi sfondate, l’asfalto violato, i semafori attoniti, sotto scioc, le fermate dell’autobus colpite da infarto, i cassonetti della mondezza ancora bloccati in una smorfia di dolore.
Sono qui, fermo, trascinato da uno sguardo notturno e in cerca di aiuto. Quegli occhi, gli stessi, protetti da un casco scuro e una visiera, impenetrabili e nascosti, che hanno incrociato i miei nel mezzo dell’apocalisse proprio in questa piazza ora deserta dove io sono seduto, apparsi nel fumo e al suono delle sirene, fra gli scudi, gli stivali e le maschere antigas. Ti togli il casco e la maschera, hai caldo, vorresti forse strapparsi tutto via. I tuoi occhi feroci vorrebbero uscire dall’inferno, salire su un tram e tornarsene a casa, a guardare dal balcone il mare ed annusare il ridere del vento. Ti guardo con stupore, asciugarti il sudore, ubriaco di canti, solo, nemico, padre, fratello. Mi guardi anche tu e, come guidato da un ordine dell’arcangelo della morte, il viso ti ridiventa di pietra lavica, il taglio della bocca riassume la posizione di bestia inferocita. E allora perché così è scritto, che la festa cominci. Casco, maschera, guanti, scudo. Ti perdi in una macchia scura e furiosa, spalla contro spalla, aspettando l’assalto. I signori del terrore, allo scadere del tempo, aspettando un segnale dell’inesorabile, pronti a far scorrere quanto più sangue si può, ad allagare di rosso una piazza, questa, ed una città intera, senza il bisogno di un motivo, solamente per rispondere a un ordine. Ora, e l’odio sia, e la carne e le ossa aperte, sventrate. I signori dell’orrore addosso ad una folla che non vuole ubbidire, che canta e ripete con la gola rivolta al cielo, per avere ancora una volta il coraggio. Della libertà. Della ragione. Tu, nel mezzo.
Addosso ad uno studente biondo che non ce l’ha fatta a fuggire, un braccio piegato all’indietro, un colpo secco fra il naso e l’occhio, poi ancora addosso alla spina dorsale, e il mento, e il collo. Il ragazzo con i denti contro la durezza del marciapiede. Nessuna pietà hanno quelle maschere nere, nessuna. Ed è arrivata in un lampo nero anche la morte. Uno sparo, ch’è rimbalzato nel fumo . Uno sbaglio? Uno squarcio nella coscienza di chiunque è lì, dentro gli occhi di una città stordita. Fermatevi, ha urlato quello sparo, fermatevi tutti adesso. Ma gli assalti continuano, ed è allora che, fuggendo, ho rincontrato i tuoi occhi vestiti di scuro. Molto vicini, vicinissimi a me.Il rumore del tamburo mi fa pulsare le tempie.
Ma tu non mi hai colpito, i miei denti si sono spezzati per la furia di un altro che mi è passato attraverso. Il tuo sguardo è già avanti, protetto da un’onda cattiva. Ho sputato sangue sull’asfalto e non ho interrotto neppure io la mia corsa, non avendo il tempo nemmeno di rispondermi. Forse sbaglio, ma i tuoi occhi li ho visti ancora bagnati di nausea, socchiusi dallo sforzo dei muscoli, non più consapevoli. Tuo figlio ti aspetta sicuramente a casa, sta chiedendo deve sei. Ma non dovevi andare a pesca ? Se hai un’amante, perché non vai da lei? Hai pensato cosa racconterai a tua madre di questa giornata? E se ti capiterà di uccidere?.
E arriva la notte, l’inferno si vuole riposare, o forse ha deciso di deporre le armi. Basta così, ma qual è la strada per tornare verso casa ? Basta, preferisco sentirmi vicino al respiro degli altri e cominciare, ricordando, a dimenticarmi.
Ma il sonno non fa a tempo ad arrivare, perché invece non è finita. L’apocalisse rientra quando l’orologio ha già deciso di metterci in salvo, sfonda le porte del nostro rifugio sicuro per completare il massacro. Uno dopo l’altro, protetti dagli scudi e le visiere nella mattanza definitiva. Sei tu, ci sei anche tu, ci sono ancora i suoi occhi pesanti. Tossisci, hai la nausea, lasci ad altri il lavoro dei diavoli. Ci guardiamo ancora. Aspetto con le mani davanti alla faccia il mio turno, e quando arriva tu sei già lontano. Non l’hai fatto, non hai potuto. Seduto sulla panchina mi tocco la cicatrice vicino alla tempia, ma non ho più intenzione di piangere e ne di maledire, ed è un puro caso se non sono morto, ma risento il bruciore della carne che si riapre. Il bar di fronte apre la sua saracinesca ed offre i suoi tavolini alla città che si risveglia. Mentre io rivivo i resti emozionali che non vogliono ancora tacere, dei sopravvissuti, che ancora tremano e ancora zoppicano, risento ancora il suono del tamburo, i manganelli che scuotono gli scudi trasparenti.
Alla ragazzina con gli occhi di giada le hanno spaccato le costole a calci, il setto nasale del giovane medico pacifista, è andato in pezzi quando ancora era immerso nel sonno, e la striscia rosso sangue della giovane madre venuta da lontano vuole ancora accusare. E tanti, e tutti, intrappolati nella sicurezza traditrice di quella notte definitiva, mentre io sono seduto su questa panchina, stanno ancora urlando di rabbia e di dolore, e ancora sognano e ancora hanno paura di svegliarsi vittime impalate o crocifisse.
I tuoi occhi hanno visto , ma non hanno voluto infierire, non sono riusciti a ridere, ne a urlare, nemmeno un insulto, o il disprezzo. Perché non mi hai voluto colpire? E dove ti trovi adesso? A cosa pensi e cosa stai facendo? Sei riuscito a dormire? Hai già dimenticato? Sei già uscito di casa ad annusare il mare? Hai provato a sorridere? Come puoi ancora farlo? Hai salutato già il giornalaio e il tuo amico postino ? Colpo dopo colpo, hai già cancellato tutto? E i tuoi occhi ricordano me?. Dimmi, come fai a respirare?. Non ti resta che un anonimo bar, con lo sguardo piantato per terra, sperando in un tempo distratto, oppure a te assolutamente disinteressato.
Ho incrociato ancora i tuoi occhi quella notte, io e gli altri, siamo dovuti passare fra due file di gendarmi dell’apocalisse, e siamo stati ancora e ancora picchiati, fino a non poterne più, ad occhi chiusi, sperando che l’orrendo e ingiusto sogno si esaurisse presto, comandato da un miracolo di un Cristo scandalizzato e furioso.
La ragazza accanto a me, prima di me, era caduta in terra e più non si muoveva. Non era morta, ma aspettava di esserlo. Ma gli scarponi neri hanno continuato a pestare sulla faccia, fino a sgretolarle gli zigomi. Piangere non serviva, urlare non serviva nemmeno supplicare. E grandi macchie di sangue scuro raccontavano il resto. Poi un pugno alla bocca dello stomaco e il buio.
Non sono qui, adesso mi sveglierò nel mio letto, dolorante si, ma per la posizione sbagliata. I tuoi occhi si sono girati dall’altra parte, sei uscito dalla fila, forse per vomitare, per tentare la fuga, per distruggere questa pagina. Ti avvicini di più, adesso sei sotto il mio portone, guardi in alto e mi cerchi, mi sembra di vederti alzare una mano in cenno di saluto. Poi appari dalla strada di fronte, passi davanti alla panchina che mi tiene inchiodato, strascichi un piede e guardi per terra. Ti giri, sei tu, sono proprio i tuoi occhi. Il suono del tamburo si fa più forte, più forte dentro di me quello sbattere sugli scudi. Entri nel bar.
Ed è allora che le mie gambe si muovono, issano a forza il tronco, che certamente non vuole, che proprio non vorrebbe saperne, e passo dopo passo mi fanno attraversare la strada, quella strada dove ancora mille fantasmi continuano a combattersi, e mi costringono ad entrare impaurito. Ordino un caffè, pronto a fuggire via. Sei lì, accanto a me, chiediamo tutti e due aiuto al bancone. Fai un grande sforzo per guardarmi ancora una volta, hai due birre davanti, una è per me.
- Scusami –
Mi dici e vai a sederti sulla mia panchina con la bottiglia in mano. Siamo restati lì, a bere insieme, in silenzio. Il suono del tamburo, lo sbattere sugli scudi è finalmente cessato. A questa città il bel nome di “Genova”.
Ti allontani dalla mia finestra e scompari lungo il fiume, per sempre.


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