giovedì 18 ottobre 2007

Aspettare


Io non so aspettare, non ne sono capace. Aspettare che la domenica si esaurisca completamente. Aspettare lo sbaglio. Aspettare che il colore cambi di colore. Aspettare l’aprirsi e il dissolversi di una nuvola, aspettare di nuovo la pioggia. Aspettare che il pensiero compia il suo giro intero, aspettare il ricomporsi del concetto.
Aspettare che il campanello si tramuti in discorso. Aspettare l’attrarsi. Aspettare il concretizzarsi di ogni liquidità. Aspettare che avvenga il seguito.
Aspettare il ritorno di quella strana luce. Aspettare l’antecedente, l’amaro conseguente, aspettare il capovolgimento, il momento buono.
Aspettare di aspirare, di non fissarsi, d’incanalare. Aspettare di masticare, ruga contro ruga, di porre. Aspettare il benedetto, aspettare un esempio, aspettare chiuso, aspettare a orecchio teso.
Aspettare dietro la porta.
E persino si può udire che, dal di fuori, la chiave viene estratta dalla tasca ed avvicinata alla serratura.
Momenti che si annodano, la chiave ora sembra entrata del tutto. Ora, in un fruscio negativo, pare che si sia rituffata nel più profondo della tasca.
Un passo indietro un passo avanti, un passo indietro, un altro avanti. Pronunciare, non è certo facile spalancare la bocca adesso, va valutato cautamente. Aspettare riacquista brutalmente il suo significato.
Danza tribale dei contrari, contrazioni a ruota libera. Sussulti. Da quel punto non ci si può spostare, non si riesce nemmeno a dare le spalle. Indubbiamente è il punto più disperato della casa.
Senza accorgersene si è in terra, ma sempre con la faccia rivolta alla serratura. Aspettare diventa endemico, e ci resta.
Un passo avanti un passo indietro, un altro avanti un altro indietro. Gli sporadici clic della serratura sono falsi sogni: Ogni fruscio è bugiardo, è solamente provocatorio.
Così la speranza del campanello è in agonia. Le ombre di una tragedia arrivano a bomba. Invano aspettare.
Aspettare l’aprirsi, aspettare gioiosamente il rivelarsi. Aspettare quale altro tipo di aspettare? Aspettare di aspettare l’unico e specifico clic, il signor clic, in qualsiasi modo si voglia presentare.
Forse ha fatto le scale all’indietro, forse è in strada nuovamente. Forse non vuole proprio.
Forse i suoi pensieri sono in ritardo sulla metropolitana, lontano da qui. Forse sta provando ad aprire qualche altra porta. Forse è crollata davanti al mio nome in alluminio.
Un passo avanti e un passo indietro e la voglia di enunciare un’implorazione qualunque.
Dopo un secolo un rumore, l’eco della chiave è rimasto. La gola è risucchiata nei polpacci, i quali anche loro vorrebbero implorare.
Forse una mano, no, la sua impronta sulla maniglia.
Aspettare il coraggio di aspettare. L’affanno. Le orecchie smarrite.
Di nuovo un soffio, un soffio gelido. Il ripetersi della chiave nel dorso? Lo straziante inizio di un nuovo aspettare.
No è il citofono, proviene dalla metà di se stessi.
Aspettare diventa di gesso, una colata sul vissuto, una serie di calchi del già visto.
Si tratterà di aspettare il termine di se medesimi, per consunzione aspettarselo. Davanti ad un muro bucato da un’unica stramaledetta possibilità, che doveva arrivare, che ci dovrebbe pur essere.
Ci si trova invecchiati, essiccati e stecchiti quando il clic è chiaro, è senza dubbio lui, è quello.
- Antonio ? –
La chiave entra, collima, gira, interrompe. Apre.
Oltre la chiave ha la spesa e sorride.
- Antonio ? –
- Ma io non mi chiamo Antonio -

Nessun commento: