mercoledì 31 ottobre 2007

E finalmente comincia a piovere


Il telefono a gettone, qualcuno deve dire di sì. Deve perché così si procede nel buco del sedere della notte.
E’ arrivata. Il dolore le apre le porte, l’annuncia e la precede. E’ avvolta nel sudario che io le ho regalato, il cappotto. L’iniezione perché?
Un ago ricurvo conficcato nella schiena per sfilarle via il liquido che le opprime il cervello. Un altro dottore lo spiega. Lo ascolto, mi mostro tranquillo e serio, guardo e mi provo. Devo stare e devo andarmene, il suo lamento è quello di un animale, è struggente. Ora è assopito, c’è ancora ma adesso è più sottile e insidioso del silenzio e del sogno.
In fondo al corridoio e poi a destra, seguendo la scia di un necrofilo odore. La camera è là dove la porta trasuda familiari dolori. E’ piegata su se stessa con gli occhi di vetro e il corpo di rami secchi. Non ha mangiato, non ha potuto.
Ora soffocherà, ora mi sembra che il suo cervello voglia schizzarle via. Esco di nuovo in cerca nel corridoio e incontro domande.
Il primario sa come dirle le cose. Si deve togliere ancora una volta la pressione, succhiarla via con un’iniezione nel midollo, altrimenti…ma così la malattia correrà più veloce.
Doranna morirai, ecco la tua famiglia, l’incredulità e la litania.
Non è detto che sia, non è ancora detto.
Guarda Doranna il coraggio dei condannati anche loro, sono pazienti, aspettano, sono aggrappati al mozzicone di sorriso ch’è loro rimasto appeso come una bava.
Deve urinare ed io devo sollevarla, è un corpo inerte, non ha più peso, sono di pietra pomice le sue ossa. Ecco l’iniezione di niente e mi vergogno di un maledetto omicida pensiero.
Io i guanti non li metto, io faccio parte del suo già scritto destino.
Chi sta chiamando? Le sue urla sono stridule, devo proteggermi con le mani la testa. Prego, arriva la notte che fuori di qui è diversa.
Ma lei non dorme, impazzisce lei. Esco nel corridoio e sono seguito dalla faccia assorta di un ammalato che fuma e trascina se stesso, parla al suo braccio, gli spiega cosa presto accadrà. Nella stanza in fondo una radio ancora accesa per tutto dimenticare per ancora ubriacarsi di vita e di parole.
L’inferno è questo, l’inferno è davvero così. Mi volto per tornare indietro e ritentare.
Padre nostro che sei nei cieli…dacci oggi, liberaci, fa qualcosa, non farci soffrire così tanto. Uccidici con un colpo solo. E il dolore pare che si fermi a riflettere, poi un’altra voce, non la sua, un chiacchierare fitto e sommesso di bimba.
Allora mi scosto piano e mi stendo a dormire sull’altro letto, con le tempie che bruciano. Il tempo di chiuderli e gli occhi si riaprono di scatto. Lei mi è davanti dritta sulle sue gambe. Il lungo sogno si sta prendendo gioco di me.
Vuole dormirmi accanto, vuole fare l’amore. E’ stesa e in piedi, sono due. Ma le piaghe, ma non posso tenerla. Ricordo i suoi baci fino alla mattina.
La mattina con l’odore del disinfettante. Padre nostro, Doranna è in coma senza di me. Sembra che dorma, non può muoversi e non può sentire. Un passo avanti e c’è la morte.
Il mio braccio destro non si muove e il suo viso è coperto dalla maschera d’ossigeno. Lì ci sono i parenti e di fianco gli amici, tutti più vecchi. Le loro immagini sono di cera, ed io ripeto il suo nome dentro di me come un disco rotto.
Ma un dito si è mosso ed è diverso il ritmo del respiro. E’ viva, è sveglia, ascolta stupita un applauso.
Ma proprio non vuole mangiare più e adesso chiacchera fitto e con l’inconscio di fuori, scatenato e oscenamente libero, fa scempio di sé in un bisbiglio. Pausa. Un rantolo oppure il gorgogliare di un sonno improvviso.
Forse pioverà, dovrà pur piovere prima o poi. Poi un urlo forte e lungo.
- Buongiorno dottore, si è addormentata nuovamente –
- Si, d’accordo, ma sembra un altro coma –
Ci vuole pazienza Doranna, non è ancora finita. In barella e di corsa lungo i viali dell’ospedale, fin dentro il tunnel della Tac. Sì, però bisogna rispettare la fila.
Si risveglia, spalanca gli occhi, è lucida e sorride. Addirittura chiede una sigaretta. Il mio cuore in balia, affonda e risale a galla, sbattuto sugli scogli e rimesso in gioco. Il mio cuore facilmente si confonde.
Così l’urlo rinasce dal basso, crepando l’ultimo debole sospiro di sollievo, raggiungendo il suo acuto contro chiunque non ne vuole sapere. Ognuno nell’atroce c’è spinto per forza.
Più il dolore le spacca la testa e le fiacca la ragione, meno gli infermieri si fanno vedere davanti alla sua porta. La punizione in questa stanza è padrona, c’è tutto il male che si merita certa gente. Aspettiamo e il letto si libererà.
- Quell’infermiere più bianco, lui l’ha detto…che se muoio non gliene grega. E’ inutile che chiamo –
Senza guanti asciugo il consumarsi del suo corpo, senza guanti continuo ad accarezzare le sue efelidi. Quanto tempo ancora per me?
L’ago ricurvo nella schiena assolutamente domani, perché domani è il suo compleanno, un giorno che dev’essere senza dolore. Aiuto a sollevare le sue piaghe, mettiamo a sedere il corpo di pupazzo snodabile.
L’ago non vuole entrare, scivola. Il dottore, spaventato, pugnala la seconda volta e scappa.
La grande finestra illumina le medicine in parata sul davanzale, illumina il letto, ormai munito di sbarre inutili, e accende quello che rimane di lei.
- Buon compleanno –
- E’ buio, apri la finestra ch’è buio –
La finestra è spalancata e di luce ce n’è tanta, è addirittura una splendida giornata. E allora…
E’ tanto che non piove. Quando?
L’anello che le ho regalato ha una pietra che cambia di colore, che imprigiona al suo interno una stella. Venature rosse, celesti e viola, fantastiche ragnatele che giocano e s’intrecciano, che dovrebbero aiutarla a non avere paura. Glielo metto al dito.
- Che pietra è, c’è la pietra? Per favore apri la finestra.-
Una scatola di matite colorate, una bottiglia di profumo e un paio di calzettoni di un magnifico giallo. Sono i regali dello sconforto famigliare. E ancora un libro, tutto sul letto, e la beffa pure.
Un dolore nuovo e rauco ancora di più, vuole festeggiare. E ad aspettare non è disposto.
- Qui c’è anche la torta –
Il bianco sgretolato del soffitto, l’intonaco gonfio e vecchio, e quello grattato volutamente via. Quel bianco non potrò mai dimenticarlo. Ovunque il colore dell’agonia, nella stanza, in gola, nei corridoi e nella pancia, nelle gambe e nell’infermeria, nel cuore e nei gabinetti. Quel bianco lercio delle scale.
Chiudo gli occhi ma il bianco rimane lì, è un oceano di sofferenza e di sgarbato destino. Alla deriva immersi in quel fetido bianco. E il prete nero, ecco il segnale.
I ragazzi nel lungo corridoio, ancora per poco. La condanna di Dio. Il prete nero esce e noi entriamo tutti.
Portate via la pena e le parole, io e lei abbiamo ancora bisogno di tempo. E guardo la sua vita, guardo l’inutile luce che proviene dalla finestra, guardo una grande macchia sul muro, proprio sopra di me.
- Non ho visto i regali, bisogna che me li racconti –
E la grande macchia comincia a muoversi, si trasforma, pulsa, batte simile a un cuore, profondamente e lentamente, lentamente sempre di più. Mi accorgo di un silenzio improvviso.
Non si lamenta, non geme, non delira. La sorpresa della sua mano leggera dentro i capelli mi fa drizzare la pelle. Il buio negli occhi di tuttie due, sfiniti, fino all’alba e nel mezzo delle pulizie del mattino. Avvolti dall’odore del disinfettante.
La prima colazione non vuole scenderle in gola. La visita dei genitori e delle sorelle. Il dottore ed un altro momento solenne per noi due. Il dolore è…scomparso.
- Ho ancora sonno, quando mi sveglio poi parliamo ancora –
La maschera d’ossigeno, la faccia dispiaciuta di un altro giovane medico. Le tengo la mano stretta, finalmente.
Finalmente comincia a piovere.
E’ Febbraio, è mattina. Doranna è morta.

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