mercoledì 31 ottobre 2007

sciocchezze



E’ grosso, è pesante, è largo. E’ quasi calvo, è bitorzoluto. Ha un naso informe, un fungo. Ha gli occhi da bue, le gambe sono corte, i piedi eccessivi.
Si arrampica soffiando e soffrendo sulla terza vettura. Si ferma ingordo di ossigeno, si asciuga. Deve ancora superare il secondo scalino, ch’è troppo alto, ch’è irraggiungibile.
Arranca lungo il corridoio, troppo stretto per lui. Trascina appresso il cadavere, la valigia troppo gonfia. Io sono lì che fumo e penso, vedo e stravedo, non mi sento bene e parto, e guardo che cosa? E vedo e combatto con la mia mente dispettosa.
Lo scompartimento al centro del vagone va bene, è il più caldo, è lontano dalle ruote, ed è vuoto. L’uomo sistema la valigia in terra, a sollevarla nemmeno ci prova. Chiude la porta scorrevole e tira le tende, con affanno.
Riprende fiato e decide. Sistema la sua grande pancia, la incastra nel posto accanto al finestrino, quello favorevole al senso di marcia.
Ma l’aria è irrespirabile, ma la polvere è regina, ma il finestrino bisognerebbe aprirlo, ma la giacca e i pantaloni incastrati e arrotolati così finiranno per strozzarlo. Si slaccia, si divincola, suda.
Stremato, lascia cadere le braccia sulla montagna di grasso. Poi appoggia le pieghe del mento, la faccia si affloscia e segue.
Degli occhi aperti e bovini rimane una fessura. Della bocca un’apertura umida e grassa, una schiuma bianca sugli angoli. Il respiro è quello del dinosauro.
Si riempie il vagone, una donna si ferma davanti allo scompartimento di mezzo.
E’ senza età, grigia e scavata. Non ha colori addosso, è vestita di vecchio. Guarda attraverso il vetro e le tende l’immobile pachiderma, quell’unico viaggiatore. Apre, chiede forse permesso, entra.
Per sistemare la sua valigia in alto avrebbe bisogno d’aiuto, guarda l’uomo e lascia il bagaglio in terra. Siede se stessa davanti al finestrino, di fronte a quella cosa che respira male, che non accenna nemmeno ad un segno, che non apre di più le sue fessure.
La donna non si toglie il fazzoletto che la nasconde, si volta verso il finestrino, senza vedere. Di seguito posa i suoi occhi in terra, sulle calze scure, sul pavimento rivestito di brutta plastica, sui grandi piedi senza vita dell’uomo.
Manca poco alla partenza, un terzo viaggiatore si affaccia alla porta scorrevole. I posti liberi ci stanno.
La donna si volta a guardare, poi riporta i suoi occhi in basso. Il viaggiatore spaventato rinuncia. E così altri, una famiglia intera. Aprono e chiudono, sicuri della risposta. Si soffermano e si sorprendono del terrore dei loro figlioli. Raccolgono le voci e le loro valige e se ne vanno.
L’uomo resta nella sua incastrata posizione. Lei nella medesima se stessa.
Il treno è gremito, i corridoi pulsano, i saluti, i nomi, le bocche. Si chiudono le porte, il fischio, la nuova situazione dello stomaco, lo strattone, il rumore caratteristico. Il treno è partito.
Il pachiderma, incastonato e ipnotizzato nel suo grasso, accenna a una variazione, un respiro diverso. Una virgola di bava. Ma gli occhi rimangono fessure, ma il sudore è lo stesso, ma i movimenti non ci sono.
La donna fruga svogliatamente negli anfratti della propria borsa anziana, ne estrae con cautela una scatola di biscotti, scarta e biascica con ritmo impersonale. Automaticamente alza gli occhi avanti a sé, come se fosse solamente necessario per ingoiare. Cosa crede di aver visto?
E’ sempre seduto, ma è dritto sul tronco, pachiderma non è più. Ha il torace possente, ha due mani nobili e feroci, le sue unghie sono artigli ed è intento a fumare un sigaro fuori misura.
Sul suo braccio sinistro è appollaiato un curioso animale, metà felino e metà uccello, il polso destro è racchiuso in un pesante bracciale prezioso. La testa è di leone, il suo sguardo regale domina tutto. Sogghigna? Sopra quell’imponente testa di animale un cappello, come una corona. Ed anche i vestiti non sono più quelli del sonnolento pachiderma, ora indossa un doppio petto con bottoni decorati, il colletto della camicia è rigido e splende.
Lei, spaventata, lascia cadere i biscotti e la borsa. Non urla, perché gli occhi dell’uomo leone incrociano, incantano e fulminano i suoi.
Poi il morso si allenta, la donna si piega, le mani riescono ad alzarsi e aiutare la faccia. Tra le dita serrate una fessura, e il pachiderma è nuovamente incastrato al suo posto, immobile e grasso. La donna, inebetita, stringe se stessa nella sua poltrona, mimetizzandosi il più possibile all’interno del fazzoletto.
Alla porta scorrevole si avvicina un altro passeggero, stanco distare in piedi e deciso, decisamente a sedersi. Guarda all’interno prima di farsi valere.
L’uomo leone tiene, sulle ginocchia, una giovane donna dalla carne rosa, è vestita di veli ed ha le catene ai polsi. I capelli, lunghi e sciolti, fluttuano e si contorcono come tentacoli nello spazio insalubre. Gli occhi orientali, gli occhi asserviti completamente.
Ora l’uomo leone la solleva e la distende, ora libera i seni dal velo, ora impugna una frusta. La bocca di lei si spalanca dal piacere. I denti del leone scoperti, la gola in tutta la sua profondità, un lungo ruggito, un coito, una risata agghiacciante. Un lampo negli occhi di ambedue.
Un simile spettacolo in un treno affollato di gente, non può, non deve passare inosservato. E il controllore è già là, fa scorrere la porta ed entra.
La donna, sempre racchiusa, forse con qualche anno di più, sta squartando lentamente un’arancia. E’ sempre lì il pachiderma, nell’incastro iniziale, con la sola differenza che adesso gronda, è inzuppato di sudore.
Il controllore si richiude la porta scorrevole alle spalle. Ma ancora non esce, ma quanto ci impiega a controllare? Il solito passeggero, impaurito, ma curioso per forza, ma in apprensione per la sua immaginazione, si decide e si affaccia.
L’uomo leone è vicino al vetro e sorride beffardo con tutti quanti i suoi denti. Mostra una testa mozza, ancora sanguinante e incredula. La testa del signor controllore.
Non può essere veramente vero, il passeggero vorrebbe urlarlo a tutti i presenti. E se per caso è solo un delirio della stanchezza? Aggrappato alla sua valigia, passa frettolosamente nel seguente vagone.
Il treno rallenta, si ferma e frena. Si scende e si sale, ci si intralcia e si riparte.
La porta dello scompartimento di mezzo, nella terza vettura, rumorosamente si riapre. Un grande soprabito infreddolito ha intenzione,chiede di prendere posto. Con lui una giovane, sua figlia probabilmente, sorridente, è trasparente.
Un’elegante donna d’altri tempi, vestita di pieghe e d’intrighi, li accoglie con un teatrale inchino, minaccioso per l’esasperata lentezza.
Dietro la porta scorrevole qualcosa di scarnificato e imputridito. E’ immobile, in bella posa, con quello che rimane del suo braccio, in alto. Brandelli della sua pelle dondolano in bilico e puzzano davvero. Un garbo, un’accoglienza in più. La porta scorrevole si richiude e succhia dentro i nuovi arrivati.
Se qualcuno non avesse la voglia e la curiosità di sbirciare attraverso, non riconoscerebbe di sicuro l’ordinario scompartimento di seconda classe. Vedrebbe tappeti e arazzi, quadri d’autore e candelabri, stucchi ed antenati. Chi insistesse a guardare, vedrebbe un mostro surreale, né il leone e nemmeno il pachiderma.
Un rettile alato, un iguana con la faccia di pipistrello, sta possedendo su di un bel tappeto il nuovo viaggiatore. La donna elegante che ha recitato gli onori di casa, che si prodiga intorno, possiede ali di pipistrello anch’essa. Ubbidiente ed attenta con il mostro suo signore.
Ma dov’è la giovane e limpida figliola della vittima nuova? Si contorce. E’ nuda e si contorce. E’ serpente ubbidiente al suo padrone ancora una volta leone. Si muove balla e promette, di sbranare il padre.
Ma no, la donna seduta accanto al finestrino è sempre racchiusa nel suo fazzoletto. E’ curva e inebetita, resiste sempre di meno al sono. Il pachiderma, di fronte a lei, ha cambiato posizione, è steso pesantemente sopra il proprio braccio. Dalla bocca spalancata l’aria entra ed esce con fastidioso fragore. Gli occhi né chiusi né aperti. Lo scompartimento è sempre quello, sdrucito e freddo, sbiadito e polveroso, in più un ben visibile fetore di chiuso e di alito pesante. Nessun quadro, nessun tappeto, nemmeno un candelabro.
Nulla di strano per il secondo controllore invocato da altre facce che lo spalleggiano.
Allora il pachiderma risorge, tossisce e si scuote, recupera faticosamente il suo braccio, si disincaglia, si tira su. Cerca il biglietto ostacolato dal grasso delle mani. La donna può anche sorridere, ha il biglietto e lo mostra.
I signori non viaggiano insieme, addirittura non si conoscono. I signori vanno ambedue verso il sud. Il viaggio continua.
Il viaggio si sviluppa. Il treno entra nelle fauci di una lunga galleria. Nel compartimento di mezzo, gemiti e lamenti vincono il buio e il frastuono delle ruote. Un’agghiacciante risata si unisce alla velocità.
Sciocchezze. Il treno si precipita fuori dell’oscurità. Dal vetro della porta scorrevole, scrutando oltre la tenda, si può constatare l’eterno, l’immobilismo dei due rimasto tale. L’uno di fronte all’altra, immersi nella noia e nella fatica del viaggiare.
C’è una stazione, il treno rallenta, frena stridendo e, spossato, si ferma. Il saliscendi si ripete con la colonna sonora dei richiami, dei sospiri, degli starnuti, le imprecazioni e gli arrivederci, con l’assalto di nuovi piedi e lo strascichio di nuove o già note valige.
E lo scompartimento di mezzo è vuoto. E dove stanno i due, da dove sono scesi se la porta scorrevole non s’è mica aperta?
Io ho visto, mentre fumavo e pensavo, un uomo e una donna, ambedue con la faccia da volatile, saltare giù dal finestrino. Ho visto, ma certo non lo racconto a nessuno.

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