mercoledì 31 ottobre 2007

Nonostante il nonostante




Io e il mio bancone, io e le bottiglie schierate di fronte, io e il bisogno di straparlare e mentire.
Qualcuno, di spalle accanto a me, si stava gettando in gola una bevanda calda.
C’era chi la bevanda non la poteva nemmeno nominare, chi la ingoiava nemmeno assaporandola.
La faccia di antico romano voleva uscirsene col bicchiere stracolmo, aveva deciso di farsi scoppiare il fegato proprio quel giorno lì.
Il nome astruso con gli occhiali neri e la pelle butterata, esultava per avere finalmente decifrato una marca, quell’altro aspettava che qualcuno glielo dicesse chiaro. C’era appena lo spazio per una sola pancia in più. C’era chi pretendeva dal muro una risposta definitiva.
Le mani ebeti affondate nei salatini. Altri due preoccupati per i loro impermeabili schizzati seriamente. La faccia tonda, allontanata di forza dal bancone, scopriva una macchia sinistra sul suo maglione.
Io volevo riempire nuovamente il bicchiere vuoto, cercavo un delirante perché. Quello lì, in quanto a sputare era un vero maestro, e inoltre, spudoratamente, sosteneva sfacciatamente di aver sfidato più volte quello specifico muro, quello davanti al quale tutti noi, arrivati a una certa ora, andiamo a piangere.
Due facce di corvo parlavano usando come tramite uno specchio, il grande e maleducato specchio dietro il bancone. E una strana cosa si appiattiva in un angolo.
Telefonava, spiegava e non mollava, ribadiva e ricominciava, si lamentava e si lamentava. Telefonava e se ne fregava degli altri.
Poi un varco per chi non sarà mai abbandonato dal problema di fondo. Un perseguitato areofagetico, uno che i maglioni a collo alto non li poteva nemmeno pensare che gli tremava pericolosamente il cervello.
Gianco non era venuto perché era morto, un brindisi per lui immediatamente dimenticato. E nessuno voleva intrattenersi con il tedesco, a causa delle pulci numerose e i denti neri.
Io ero dunque alle prese con un altro me, ero imbarazzato non conoscendolo affatto, gli lanciavo un’esca invano.
Per Carlo primo era quasi l’ora di pranzo e bisognava ritornare. Ritornare con che cosa se non con i ricordi rimessi al loro posto e le chiavi della macchina. Ma lui la macchina non ce l’aveva.
Per Carlo secondo l’ora di pranzo era già passata da un’ora, ma lui era affascinato dalla malattia del ritardo. Tanto valeva rimanere lì.
Carlo terzo mangiava solamente la sera, per bisogno e per scelta. Ed era un bugiardo. Ed era uno sportivo. Ed era un coglione. Mangiava solamente pastasciutta. Una sola volta avrebbe voluto drogarsi. Ed era un autentico coglione.
Si stava al caldo e si rideva. Ci si grattava, si tossiva e si inventava magari poco, ma incisivamente.
Preferibilmente erano i terzi assenti ad entrare in causa. Preferibilmente si parlava con i presenti contemporaneamente. Talvolta non ci si girava nemmeno.
O adesso ne avevo abbastanza, volevo probabilmente andare via, ma rimettevo decisione e coraggio ai miei fratelli di sventura. Quindi rimanevo inchiodato lì.
Con un grande bicchiere di stravecchio davanti, Giovanni confidava ad un estraneo che lui matematicamente ormai aveva il cancro. Nessuna analisi, nessun sintomo e nessuna diagnosi, ma lui se lo sentiva. La macchina da scrivere era la responsabile, gli aveva masticato la vita.
Era geloso del bicchiere del vicino, quello era proprio amaro, inquinato di lacrime e di colpe. Ma come fare per chiedere un sorso dal suo?
Più corpulento degli altri lo slavo con quel suo particolare sogghigno, deglutiva spavaldamente il suo colorante preferito. Aveva il piede sospettoso. E molto nervoso aveva il gomito.
I capelli d’oro, in tutta la loro altezza, avevano passato un guaio davvero troppo nero. Io avrei voluto chiedere qual’era questo guaio più precisamente, avrei voluto toccare con mano, magari dopo aver detto. Ma il mio bicchiere si versava e sgomento mi lasciava.
Lacrime sul cappuccino, e desolatamente ancora un altro. I cappuccini erano cinque e il fascino nordico umiliato, l’ingegnere poteva significare la salvezza. E allora tutto il vomito addosso a lui.
C’era chi cercava un’eventuale uscita di sicurezza, perché lui…perché quegli altri…perché l’anno prima in quel medesimo bar…insomma ritrattava soprattutto di paura.
Gianna guardava unicamente la sua mano. Anna le unghie degli altri. Puliva le unghie altrui in un ingorgo di esuberanti aperitivi.
Io con le dita ficcate nel naso e su, fin dentro al cervello, frugavo in quel grigio così affascinante e misterioso.
Ma la gara andava vinta e la serata senza meno consumata. Al contrario non c’era altro da fare se non lasciare perdere. Bisognava capirli questi delinquenti di figlioli.
Io bevo più di te e sono sicuramente più bello. Tu sei stupida.Io vesto con orgoglio peggio di te e di te. Tu sei magro e anche troppo. Io certamente ho meno soldi di tutti voi, e sono un poeta, e quindi devo dire per ultimo. Io sono destinato a schiattare per primo. Io sono un dottore e non me ne vanto, o forse sono anche un assassino?
Io chiamo il Presidente col suo nome di battesimo, tu non puoi mica farlo. Tu ti muovi peggio, tu non sai mica bere. La tua ragazza è brutta, la mia certo che no, è pure laureata. Io ho sempre la ragazza migliore, non ha tentato di suicidarsi nemmeno una volta. Mio padre è il più matto di tutti noi. Io soprattutto sono l’anima di questo bar. Io so sparare, tu non ci credi per niente.
- Chi è il più stronzo di noi? –
Se Sandrino ingoiava il primo bicchiere di vino, il vicino se ne ingoiava quattro. Raccontava però che poteva arrivare ad ingurgitarsene anche dodici di seguito.
La sciarpa e cappello osservava e compativa. Tutti conoscevano le sue esagerate capacità, e non aveva certo bisogno di dimostrazioni perché aveva già dato e parecchio, in ben quattro manicomi..
Si brindava al malumore, al bentornato vigore e all’uccisione dell’impostore. Giù in fondo, l’unico e isolato amico del tedesco brindava da solo e imparava a memoria i fondamentali rallegramenti.
Non è da tutti i giorni trovare chi si sforza di fare paragoni. E il padrone Giorgio si sforzava di mandare avanti la baracca, con il sorriso, l’impegno, la passione e la delazione.
Io declamavo e mica mi accorgevo di farlo.
Un biondo grigio entrava consumava e scappava. La sua era una storia importante, pensava più del consentito, nel quartiere.
C’era chi l’indecenza la sceglieva e la palpava, per poi strillarla. Chi non sarebbe mai voluto partire. Chi invece era tutto il giorno che portava pesi, sulla coscienza e sulle spalle, ed ora non ne voleva più sapere. Ci beveva sopra sordo a se stesso.
Io quello l’ho già visto, il suo nome l’ho già sentito. E’ quello che m’ha aggredito mentre pisciavo proprio al centro della piazza. Che vergogna…anche qui…devo uscire.
Ognuno, almeno una volta, aveva ascoltato il nome dell’altro. Ognuno, almeno una volta, aveva pensato dell’altro una cosa schifosa, anche se sconosciuto.
La complicità. La cordialità. La voracità. La voce alta.
Entrò con le vene del collo gonfie. Rosso come i rossi veri, gli occhi di fuori, le mani che avevano fretta. Il punk era piazzato fra la porta e il bancone, il punk nessuno voleva sfiorarlo.
Entrò tagliandogli la strada, spostò il punk, si avvicinò alla cassa, d’infilata guardò proprio me. Chiese.
Chiese come poteva fare per andare aldilà del ponte. Non prima del ponte, dopo.
La cassiera non voleva, non ascoltava e non rispondeva, se non quando arrivava il suo turno. L’autentico rosso acchiappò allora il punk e glielo chiese. Insieme vacillarono senza una vera risposta.
Quindi, impazientemente, interruppe un brindisi e richiese. Ma l’intero brindisi, dopo aver beccheggiato e sospirato forte, riprese. Chiuse il mento della slava, glielo chiese troppo in fretta, lo ridisse. Allora implorò. Allora quasi mi stava per crollare addosso.
Si riavventò così contro la cassa, si aggrappò al colletto della cassiera, la guardò fissa per molti secondi. Tentò di chiedere come si poteva arrivare laggiù.
La cassiera che si era vista morta, ci mise del tempo a rivedersi viva.
Allora il rosso si lasciò andare lungo il pavimento, assicurando, giurando e spergiurando di non essere svitato. Rassicurando e scongiurando una risposta. E che diavolo qualcuno, il cui nome è meglio che non faccio, osò oltretutto passargli sopra. Il rosso non chiedeva nulla di particolarmente straordinario. Ed era stanco di chiedere, stanco morto.
Nonostante le preghiere, nonostante il nonostante, come fossero sordi.
Furibondo allora si agitò, arrivò fin sotto le facce degli assetati appena entrati. Richiese alzando i pugni e fu fuori di slancio.
Io sarei voluto intervenire ma un altro bicchiere di vino e un’altra menzogna lanciata nel nulla, esigevano il mio assoluto interesse.
Di slancio e inutilmente si rivolse ai passanti affinché gli indicassero quella sfottuta strada:
- Il ponte, ditemi come si fa, per pietà. Ci devo andare, come devo fare? –
E tutto l’intero bar, in coro, riprendeva a respirare forte:
- Ma il poveraccio cosa voleva dire? Cosa intendeva veramente? Ma che linguaggio parlava? Ma aveva passato un guaio veramente tremendo? Ma che cos’era, una scommessa fra tossicodipendenti? –
Era morto, ucciso dal freddo al centro della piazza, sotto la statua minacciosa e nera di Giordano bruno. Il ponte, quel ponte era lì a due passi.



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