giovedì 18 ottobre 2007

Metropolitana


Era la prima volta che mi avventuravo nelle viscere della metropolitana. Perché il chiuso mi fa star male, perché ho paura del sottoterra.
La metropolitana era quasi deserta, all’ora di pranzo la gente di solito emergeva. Scendevo la prima rampa di scale diffidente, con una grande voglia di tornarmene indietro. Poi un lungo corridoio gelido, illuminato da luce di ghiaccio. Una curva a gomito, uno slargo improvviso, un solitario suonatore di violino che dormiva seduto in terra, ad occhi aperti.
Il corridoio seguente si divideva in due braccia, cercavo un’indicazione e me la dava il vento che là dentro correva e mai si stancava. Sceglievo a destra il tapirulan in discesa.
Davanti a me, trascinata dal tappeto scorrevole, una triste donna con un triste cappello, immobile ed arresa.
Dietro di me un uomo troppo basso piegato su se stesso, intento a non pensare. Una maestra con un grande petto, due creste multicolori, una radio sgraziata sulle spalle. Ad aspettarci un altro lungo corridoio arredato con grandi e beffarde scritte sulle pareti.
- Di qua si va dritti all’inferno –
- Tranquilli. Dio c’è anche dentro la metropolitana –
- Benvenuti nel culo di Roma. Sotto a chi tocca –
- Attenzione, qua sotto la città ti caga in testa senza ritegno –
- Scendi e poi torna a raccontare –
- Vai avanti se credi di avere le palle –
Non sapevo nemmeno se stavo seguendo il percorso giusto, scendevo una seconda e più ripida rampa di scale, battuta da due correnti in perenne litigio. Davanti e dietro di me non c’era più nessuno.
Non trovavo le rotaie, non trovavo la stazione, non trovavo nessuna indicazione. M’infilavo allora in un ennesimo tunnel illuminato da un neon agonizzante, un tunnel apparso davanti a me all’improvviso. L’ultimo respiro del neon e il buio avanzava con me.
Inciampavo, cadevo in avanti, cercavo con le mani, trovavo il gelo del metallo. La sensazione di trovarmi in un incubo vuoto e nero.
Due occhi luminosi e un sibilo improvvisamente addosso. Istintivamente mi tiravo indietro, ma la luce sibilante mi apriva e scompariva nella pancia. Ne seguiva un nuovo buio e un nuovo silenzio ghiacciato.
Non avevo sentito dolore, soltanto forse un forte sapore d’aceto, e basta. Mi rimettevo a fatica in piedi, salivo un alto scalino dietro di me, cercavo con le braccia tese nuotando nel buio. A destra e in basso, in alto e a sinistra.
E una nebbia malata e giallastra si faceva strada, avanzando verso i miei piedi, arrivava a circondarmi le caviglie, voleva salire. Tremando dal freddo mi mettevo a seguire la sua coda e un lontano battere metallico sul punto di spegnersi.
La nebbia s’infilava in un’apertura stretta ed alta appena un soffio sopra la mia testa. Un vuoto d’aria mi risucchiava dentro, deciso. Mi spingeva a continuare dritto davanti a me, mostrandomi una debole luce che si faceva celeste o grigia. Il battere metallico si era spento, oppure il suo ritmo era cambiato.
Una porta chiusa, la luce filtrava e si faceva più azzurra. L’aprivo sentendo le ossa scricchiolare.
Entravo in una grande stanza, della quale non riuscivo ad intuire la fine. Il battere metallico sbocciava nuovamente, ora trasformato in un debole battito di un cuore galleggiante, insieme alla luce azzurra dall’acidulo sapore. Nessuno sembrava esserci.
Qualcuno c’era. In fondo, in un angolo alla mia sinistra. Figure sedute in cerchio, assolutamente immobili, assolutamente silenziose. Mi avvicinavo di più, con il sangue gelato dalla paura. Facce anziane e attente, un uomo ed il suo cane. Un bambino con un pupazzo sdrucito stretto fra le braccia. Una donna dal volto insistentemente familiare, ad occhi chiusi, ma egualmente attenta.
In mezzo a loro, in piedi, un uomo alto, magro e negroide, con due mani lunghe e scheletriche semiaperte e confuse. Gli occhi grandi e tondi nel viso scavato, a vagare nella meraviglia. La bocca, spalancata, voleva forse assaggiare l’aria circostante.
Ora, più vicino, sentivo la sua voce musicale e recitante. Le figure intorno sembravano sorridere, mute e irreali.
Assomigliava, era lui, si chiamava Asdrubale. Indossava foulard molto colorati, buffi, esagerati, scintillanti. Ma Asdrubale era morto da una settimana. L’avevano trovato in piazza, morto di freddo. Ma allora anch’io, anch’io cosa?
Si accorgeva di me, più che vedermi sembrava aver sentito l’odore. Interrompeva la sua recita e si esibiva in un plateale inchino.
- Buonasera buonasera. Una sedia per distrarre il tuo spavento? Buonasera dal tuo artista preferito –
Nessuno degli spettatori presenti si voltava verso di me, presi com’erano dallo spettacolo del clown Asdrubale, ipnotizzati dalla sua dolcezza. Mi avvicinavo, non avevo più tanto freddo. Accennavo un saluto imbarazzato e incredulo.
- Ma tu, tu non eri, tu sei? –
- E tu? Ti sei forse perduto? –
- La metropolitana. Il treno m’è arrivato…sono caduto e il treno…Sono forse morto?-
Asdrubale si esibiva in una fantastica piroetta, come soltanto lui sapeva fare. Scopriva tutti i suoi grandi denti, denti che splendevano di luce propria. E rideva forte. Il bambino con il pupazzo ben stretto fra le braccia applaudiva piano, imitato da altre due figure immerse completamente nel buio.
Allora scorgevo nei suoi occhi la tristezza e la nostalgia, grande e gonfia di pianto, ad Asdrubale piaceva vivere.
Mi guardò pallido e serio. Io stavo indietreggiando, avevo nuovamente una terribile paura, seguito da quei volti curiosi e impercettibilmente sorridenti, ora girati tutti verso di me, ora guasti.
Quelle rughe, quelle facce in silenzio, lo spaventoso scuro, m’impedivano di chiedere spiegazioni.
- Mercoledì avrei dovuto incontrare tua sorella, ma questo nuovo lavoro m’ha portato altrove. Ci sarà rimasta male di sicuro tua sorella, che ci vuoi fare ! –
Mia sorella? Asdrubale? E certo.
E si rituffava nella sua recitante allegria. Ma che posto era quello?
A tentoni cercavo la porta dalla quale ero entrato e non la trovavo, un urlo insisteva per uscire da me. Tra le mascelle e le scapole subivo una tempesta. Mi guardavo convulsamente intorno nel buio nero, il buio nero non staccava gli occhi da me.
Intanto la voce recitante di Asdrubale si faceva lontana e si mischiava con altri suoni, un’altra voce cantante, la stazione di una radio sintonizzata male. Allora gli occhi si aggrappavano ad una partita a carte, comparsa da un incantesimo.
Due vecchi si sfidavano con commenti e grugniti sommessi, seduti l’uno di fronte all’altro e illuminati da una lampada dalla luce sbiadita. Le dita gialle di tabacco, il respiro pesante, il fumo denso e dolciastro di pessime sigarette fatte in casa. Il sapore era viola. No, forse un impuro celeste.
Erano vivi, a loro avrei chiesto. Ma la partita appariva più importante, e l’imbarazzo, e il fiato sul collo della morte in persona, m’impedivano di parlare.
- Due scope, la primiera, il sette bello, i denari. Ho vinto ancora io, ho vinto un’altra volta -
Ma sia Asdrubale che i suoi spettatori, sia i due accaniti giocatori di carte, scomparivano nel tempo che ci vuole a far schioccare le dita. Il buio appariva più buio e più immenso, e più fredda e tagliente la mia paura.
Restava il confuso sottofondo musicale. Si aggiungevano le voci e la musica di un vecchio film. Un sonoro che si andava materializzando, un debole chiarore, una nebbiolina, la proiezione di una vecchia pellicola scrocchiante, a guardarci meglio. Oppure la nebbia con me si divertiva.
Ma la voce cantante vinceva sul rumore confuso, e una figura, appollaiate su di una poltrona in odore di muffa, si mostrava a me. Alle sue spalle, in terra, pile di libri, dischi e vecchie fotografie. Qualcuno ascoltava la musica, che ora invadeva interamente la nebbia, con la testa nascosta fra le mani. Con mio stupore sapevo il suo nome e lo stavo chiamando:
- Gianni?-
Gianni alzava la testa, mi guardava, piangeva. Le lacrime gli scavavano profondi solchi sulla faccia.
- I miei libri, i dischi, molti li ho perduti nella confusione. Però questo canto, la Callas…-
Si commuoveva di nuovo, di nuovo apparivano lunghi solchi sulla faccia già così segnata.
- Ho bevuto tanto vero? Veramente troppo –
Lo guardavo e non potevo, non sapevo rispondergli. Era appena ieri sera che chiacchieravo con lui? Lo guardavo dissolversi nella penombra ed i suoi libri, i dischi, la sua Callas con lui.
- Gianni, ma come è potuto succedere? Gianni non andartene che me la faccio sotto. Cristo Gianni ho paura –
Lo stavo pensando ma non lo dicevo.
Più nessuno, eppure la certezza di una folla.
Ero sfiorato, urtato, osservato, stretto, spintonato. Qualcuno, tanti, invisibili, mi passavano addirittura attraverso. Una mano, le sue dita, si appoggiavano sulla mia testa, entravano nei capelli portando con loro il gelo. Un’altra mano passava leggera, soffermandosi, studiando i miei spigoli.
Sentivo mille respiri a ridosso di me, su di me passare rapidi e ritornare, curiosi, premurosi orribilmente.
Avvertivo il chiasso ma non riuscivo a decifrare, mi entrava nella gola prepotentemente, si faceva mia muta voce. Anni e secoli altrui in un vortice all’interno di me, in un corpo e in una mente troppo piccoli per contenere quella bufera.
Paura e tanta.
Ripugnanza? Era come se fossi posseduto, sodomizzato dall’intero universo. Una trappola nell’intestino della metropolitana per ridurmi in pezzi, fare scempio di me.
Ancora una mano, ne riconoscevo tutta intera la sua consistenza, e la pelle, e la nodosità, ed il suo inconfondibile odore.
- Ho vegliato notti intere su di te. Un bel bambino eri –
Cercavo, cercavo, cercavo la sua faccia. Nel buio non la trovavo.
- Ti ricordi? Ti svegliavo e ti mettevo a dormire. Ti allacciavo le scarpe –
Mettevo la testa sotto l’invisibile consistenza della sua, e l’abbracciavo forte, dimenticavo la paura. Io bambino e lei, tutt’ossa e tutto cuore, ad accompagnarmi passo dopo passo. Ad insegnarmi, a farmi vedere. Io come suo figlio e ancora di più.
- Mi chiamavi ed io ti potevo rispondere grattando con le dita il lenzuolo, ci siamo detti addio così. Non restare qui. Non senti che freddo? Torna e mangia che sei così magro!-
E svaniva, e mi trovavo a stringere le mie stesse braccia.
- Non mi conosci ed è meglio che non mi vedi. C’ho avuto la peste, buttato in una buca e bruciato. Mi faccio pietà, mi sento solo, ecco come mi sento. E la puzza di quei giorni me la ricordo –
- Il mio giardino si secca, i miei fiori hanno sete, devi dire a mia figlia di comprare un altro rastrello. Sono la nonna, sto qui, nel prato, accanto al cedro del Libano. Nel cimitero non ci voglio tornare –
- Che tu ci creda o no sono state le formiche a divorarmi dentro il letto dell’ospedale. Proprio loro, sembra impossibile. Le formiche, proprio loro, le formiche, le formiche –
- Ti ricordi quanto mi faceva male la testa? Ti ricordi quanto ti volevo bene? La fotografia della prima comunione non l’hai persa? Io non ho più la testa, mi faceva troppo male , me la sono strappata. Il tuo padrino, sono tuo zio Lorenzo –
Mi trovavo seduto, a galla in una chiazza di celeste marcio e di un rigetto che puzzava sempre di più, di umidità e di qualcos’altro. Stavo a galla con i muscoli duri e chiusi, in difficoltà per le cattive intenzioni di una colica d’aria.
Sentivo come una merda di piccione sulla testa, qualcuno mi sputava.
- Assomigli a mio figlio, sei uguale, mio figlio duecento anni fa. Gli stessi occhi, i capelli, il naso. Figlio mio, ma sei tu un’altra volta? –
- Vienimi a cercare, dobbiamo ancora parlare, il mio amore si è sempre spiegato male con te. Non era poi così arcigno il tuo nonno Aldo.-
- Sai di essere il centoquattordicesimo venuto dalla metropolitana? –
- E’ stata la nostalgia a fregarmi, la nostalgia per il mio cane, schiacciato cinque minuti prima di me. Ti sembra inverosimile? Ti pare esagerato? –
Uno strattone, una spinta nel nulla, una vigliacca gomitata.
- Mi mancava l’aria, volevo più aria e così ho imboccato la finestra. Che volo! E menomale che il cuore s’è fermato un attimo prima. Meno male che lo schianto è avvenuto quando ero già volato fuori di me. Che fortuna, non credi? –
- Ma sei tu? Non ti ricordi il ponte, non ti ricordi quanto piangevo? Potevi fermarti, dirmi qualcosa, invece hai tirato dritto. Bel casino hai combinato! Io sono qui perché tu te ne sei andato –
- No, non è vero, ma quale ponte? Ma quando? –
Piegato su me stesso, i pantaloni pisciati, il freddo. La paura e il freddo e la paura.
- E tu che diresti se ti gettassero in una fossa comune, in un grosso buco pieno di altra gente? E se poi, sulla fossa comune, invece della lapide, ci costruissero un sfottuto palazzo? –
- Ei dì, sai per caso giocare a scacchi? Pensa che fortuna, mi era rimasta la scacchiera da viaggio nella giacca del pigiama –
Ritmicamente qualcosa si muoveva. Una danza invisibile, il rumore di due piedi sbattuti con forza sul pavimento. L’agitarsi di due braccia frenetico, l’ostinazione e l’impegno. Ma nessuna forma definitiva.
Ma le tante voci adesso svanivano nel nulla, tanto da farmi sentire ancora di più il gelo spaventoso di una solitudine ed un silenzio probabilmente eterno.
Qualcosa mi tirò leggermente in avanti. Non potevo vedere un’ombra in quel buio ritornato completamente nero, ma l’ombra c’era lo stesso. Appariva da lontano, si allungava fino a me, la sua faccia, il suo nome, mi penetravano nell’ombelico.
- Rosanna? –
- Ti riaccompagno sulle rotaie, vieni via –
Erano passati tre terribili anni. Il suo profilo si avviava lentamente davanti a me. Io ch’ero costretto a seguirla. La maschera d’ossigeno, la vita che usciva da lei, aggrappato alle sue mani, le mani che improvvisamente erano fredde.
Rosanna, la morte ed io.
Sentivo una porta che si apriva, mi accorgevo di un’aria diversa. Ero in corridoio. Il profilo e la sua ombra sempre mi precedevano in un buio più debole. Sentivo l’alito, il respiro, il suo senza alcun dubbio.
Il battere metallico, lì dove mi aveva lasciato, riprendeva leggero. Un brivido, qualcuno mi sfiorava camminando a tentoni in senso inverso. Finalmente le gambe si fermavano.
E sentivo il suo abbraccio e l’urto delle rotaie.
- Stenditi qui –
Avrei voluto, avrei voluto cosa? Ma due luci forti mi portavano via.
- E’ un miracolo che sei ancora vivo, hai rischiato di essere travolto. Puoi parlare? –
Mi sollevavano, una luce girava su se stessa. Rosanna era lì, mi salutava con un cenno e scompariva nel suo.

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