mercoledì 31 ottobre 2007

Questa è la notte capace di uccidere per gioco




Mi piace camminare e mi piace bere la birra, mi piace fare sempre e solo la stessa, identica strada.
La strada muore in un colonnato e la sua chiesa, dimenticata e nascosta da un nero grasso che corrode il marmo e il suo bianco. Gli escrementi dell’innocente piccione e le secrezioni della città avvelenano e deformano quelli che erano gli ornamenti suoi. Codesta è una carcassa informe, un fossile, non una chiesa.
E nel suo vuoto, mai più riaperto, il sacro probabilmente è andato perso. Invece c’è, a maggior ragione.
Sciolto è il cartone che, sotto il ponte, delimita il giaciglio dell’etilico barbone. Sciolto dalla peste del fiume rigonfio. Un altro posto ci vuole.
E già, all’inizio del nuovo strascicato vagare, le birre sono arrivate a venti, fin dentro la strada senza uscita, fino alle colonne nascoste, fino al cumulo di escrementi pietrificati.
Il cancello è aperto, o corroso, o strappato. Il barbone cammina lottando con l’etilico sonno. Entra nel nuovo paradiso, estasiato lo osserva e scompare dietro le colonne.
Cerca così l’entrata, ma la porta si nasconde, nemmeno si distingue più, non vuole.
Allora ritorna e si accontenta del didietro più scuro. S’appoggia e chiede il permesso al crocifisso invisibile se può svuotare lì la vescica, se può espellere la ventesima birra in quella casa così sacra e così sua. Poi si sarebbe steso sopra a quel caldo umido.
Allora distende un sacco sul tappeto degli escrementi di un generoso piccione. Distende se stesso con ogni precauzione e si avvolge. Soddisfatto si gira.
Già dorme ma continua a parlare tra sé, raccomanda alla sua fetida stella di tenere lontano il topo, perché di lui non avrebbe nessun rispetto. Perché una settimana prima un pezzetto del suo orecchio se l’è già portato via. E gli è piaciuto, e volentieri l’avrebbe rifatto.
Ben venga tutto il resto, che non gli importa proprio. No, perché il suo sonno è stanco in misura uguale alla morte definitiva. Non i passi, non le voci, non i cataclismi.
L’invisibile crocifisso s’è preoccupato di tenere lontani persino i cani, per regalargli una serata tranquilla. C’è da fidarsi insieme a lui.
Ma arriva quell’unico fanale, ha intenzione di sfidare chiunque. Vuole giocare, vuole cantare, vuole ridere troppo forte. Oltraggia le colonne e si getta sacrilego sul rifiuto.
La coperta ha un fremito, si aggiusta, scalcia, si ranicchia di più, tossisce e si irrigidisce di nuovo. Ma quel faro arrogante non vuole avere rispetto del sonno.
Codesta è la notte insonne vestita di nero, giubbotti e stivali, la notte capace di uccidere per scherzo. Lei ha i capelli biondi, lisci naturali e ancora più lunghi, sicuramente luminosi. Lui ha le basette scolpite e gli occhi vuoti. Sono lì sulla loro motocicletta con le unghie appena affilate. Devono e urinano, ballano tra le colonne e pestano.
Sputano e si accorgono dell’ubriaco involto fiducioso. Insistono, ci pensano sopra e pesano, gli pisciano addosso.
L’involto resta in ascolto e si contrae, il liquido è dopotutto confortevole.
Cercano la chiesa, ma la chiesa dov’è? Si accaniscono sulla porta e l’involto non è il custode. Glielo chiedono allora con il tubo di scappamento. Con i calci glielo richiedono.
Il crocifisso tace, è inchiodato, è invisibile.
E della ventesima birra è rimasto il vetro. Il vetro riempito nuovamente con i denti scoperti e la benzina.
Il fuoco allegro e purificatore sull’involto, a bomba. A illuminare la chiesa, riscaldare il sogno. Il crocifisso tace. Il barbone fiducioso è arrosto.
Io non posso più tornare indietro.

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