giovedì 18 ottobre 2007

Sto


Sto con la testa ficcato dentro il gabinetto, dentro il colore irriconoscibile della sua puzzolente ceramica. Ficcato lì dentro e vomito.
Vomito l’alveare, la schifosa, l’insopportabile operazione algebrica, il fumo, il districarsi, il differenziarsi nell’inutile tentativo. L’ammassarsi, l’inebriante e il prestabilito. Il cammino percorribile. Mi metto a sputare fuori. Il sogno dentro il sogno.
Così resto, prigioniero del cesso, della trave, il sottoscala, il tetto, la sala nella sala, il muro portante, il tenace, il celebrato, il cemento. Quella puttana dell’architrave, è quella che mi fa star male più di tutti.
Il ponte sul quale, il sottoterra, il percorso obbligato, il codice l’esperimento la deviazione e l’impiegato. Sua Santità il prescelto. Quella merda d’insieme, il componibile, il coordinato, la verità oscillante. La tosse, il gabinetto, da non potersi staccare.
La tosse che non smette mai, il numero avverso, l’attimo definitivo, il quarto d’ora accademico, lo spartito, lo smarrito e la semiretta. Anche l’impiantito mi fa stare male, il saliscendi, il vai dritto e il gira di là. Il vomito, la tosse convulsa la continua diarrea. La città qui intorno.
L’anemico susseguirsi mi esce di forza dalla bocca esausta. Il troppo dilungarsi, il rattrappirsi, il rialzarsi correre e inciampare. Inciampare e decantare, decantare e incartarsi su di un unico spietato particolare. Il passaggio. Forse è proprio quello che mi fa star male.
Il passaggio nell’apertura, di getto la disinvoltura. Improvvisamente la stanca e tutti quanti i vostri numeri di telefono, di seguito gli indirizzi, tutte quante le età. Sistematicamente. Inderogabilmente l’offerta, la preda, il discorso e l’esposto. Il crollo e il gesto, il grido. Il grido di fianco e di sotto. Tutto quanto dentro il mio gabinetto, una cascata.
Tentenna il colore, dal nero all’amaranto al celeste cupo, al perla insicuro, il colore si sfilaccia. Si scioglie la membrana all’orizzonte, orizzonte a iosa, orizzonte gru. Miraggio orizzonte della mia gola che non riesce a fermare più niente.
Cambia ritmo l’intestino nel guscio, si rapprende il sogno, si girano le schiene, le gole e le ginocchia. Pelle contro pelle, alzano la voce i sederi, e dicono, e urlano.
Bisbocciano fessure come prestabilito mentre io continuo a vomitarmi. Sotto la luce gialla, guardiana dell’involucro, sospira la crosta, scricchiola. Nel ripetutamente ancora la marcia indietro. Tutto si ferma, l’attimo neutro, il momento di ghiaccio, il travertino, il silenzio del cazzo, della grintosa notte l’ultima aggressione. Tutto quanto nel mio stomaco combatte. Ma cosa ho mangiato? Ma perché ancora da ore prigioniero di questo cesso?
Schegge, malignità del calcestruzzo, ibernazione, minaccia dell’irreversibile, perfidia del cattivo odore. Anche il languore c’è, c’è pure la porcaggine. Ecco nuovamente il momento suo, s’innesca il Bolero, esplode.
L’importanza del sopracciglio in questo mio malessere, il cipiglio dell’intestino crasso, la spigolosità, il polso, il circuito chiuso, le cavità nella testa. Del fianco la nascita nuova, la resurrezione della scapola deforme, lo scaracchio e lo starnuto. L’occhio gonfio e lo sporgente labbro inferiore. Tragicamente il risveglio, questo stressante va e vieni dalle tenebre.
In che direzione scorre il fiume stavolta? Perché me lo chiedo? Ma il fiume risarà La sua acqua sarà marrone ancora? Come ieri avrà voglia di piangere?
Si svegliano le fontane mentre io e il mio ci stiamo parlando. I pisciatoi rigurgitano. Il nuovo umore dei marciapiedi, più acre. L’asfalto è liscio, più vivido,brutale.
Occhi di vetro, di legno, occhi di ferro, occhi nuovamente nel perpetuo a minacciare l’intero mondo. Occhi di un muro giallastro ed esausto su di me.
Il riproporsi sempre in agguato mentre continuo a svuotarmi rumorosamente lo stomaco. Delle squame nella crosta il dilatarsi e tutto il rosso che ne cola giù. Magia! Entropia! Porca schifosa città di merda! Ho bevuto troppo e questo è vero.
Il trenta sbarrato, il succhiateste dovrebbe al dunque stridere e fermarsi. Perlomeno sbucare? Il trenta sbarrato non è più. Il brutto risveglio della città monumento.
Voci, moltiplicazioni di voci, seni e coseni di voci. Funzioni, traslazioni, giochi a fraintendere, stupidaggini. Sfumature di gesti. Nelle aperture rotonde atteggiamenti e intenzioni, nelle fessure profonde. Basta, sto male, ho capito!
Ed è così che l’agglomerato schiude gli occhi in un posto diverso, portandosi appresso me ed il mio gabinetto disumano. Non c’è più la collina, né le panchine sulla destra. E’ scomparso l’incrocio, il lampione sbilenco e quello scalino dissestato. S’è involato il fioraio. E la stazione? E il mercato delle piante? E le poste e telegrafi?
Stramberie urbanistiche frutto della fertile notte dei creativi. Stramberie continuate e vomitate giù dentro di forza. Ed io di mio.
Il flusso fermenta, lievita, rotola nel ghigno sorriso della strada maestra, nel nome dell’incoraggiamento di una luce più definitiva.
Il flusso, nelle mie vene, con un verso tutto suo si da ragione, esita e ritorna, insegue i semicerchi, si aggrappa, non trova il metrò, osserva sbigottito le rotaie curiosamente rivolte contro il cielo.
La sindrome del metrò mia personale. Il forte desiderio del sotterraneo. E la crosta lancia forte le sue grida e le mie, pensieri paranoie e dubbi. Allora le ombre, allora la contro materia, l’inaspettato colore dell’imprevisto.
Allora botti, echi, sbattimenti, ingranaggi ostinati, acqua corrente, scarichi di water. Allora pietra contro pietra, bottiglia contro bottiglia, sorso dopo sorso, spudoratamente allora.
Allora intenzioni contro desideri, logoramenti contro sentimenti. Allora dita e portoni, pressione bassa e cancelli.
Un campanile messo di traverso a quest’ora? Vomito e ci penso. Il lampo di genio di un ottuso sogno, una trovata per infiltrarsi, per grattare, annusare il vecchio, perdersi ancora, non tornare a casa.
Della casa l’odore del fumo, della immondezza e la dimestichezza. Il nuovo altare, il nuovo pulviscolo velenoso nel cupo ed eterno sotto, l’immortalità affascinante della sottorealtà. L’ennesimo strato. Il buco del cesso.
L’artistico buco nero nell’eco, lo squilibrio, la voragine dell’io, tutto in questa serata di merda. Assalto dopo assalto, un pesante pensiero nelle reni della strada grande, a proposito delle precise responsabilità del cavalcavia che ad urlare non è però capace. S’inarca in alto, s’impenna, si scuote, si ricongiunge ad anello. Lancia per aria la vita, se la sgrulla di dosso. Macchine e camion ricascano pesantemente sul soffitto che da ore mi tiene prigioniero.
Non è una trovata, è una vendetta, è la serata mia.
Si avvertono gli automobilisti che la tangenziale è stata colta da improvviso malore. Ed ancora, e come per incanto, il sollevamento del quartiere Castro Pretorio Giace in alto inglobato nel perspex, col fiato sospeso, con l’intera sua gente. L’impennata della nuova corrente.
La stupefacente regolarità e la disobbedienza del primo settore, proprio qui dov’è collocato il mio cesso. Il pericoloso singhiozzo del secondo, l’indecifrabile alfabeto del terzo, il mutismo del quarto, la sua ostinazione.
E il vomito, e il mio, il plasma rigeneratore, s’insinua nello storico centro. L’iniezione, così che l’eterno ed inevitabile contrario in lui si compie. Splendore e struggimento, apoteosi e struggimento, rimaneggiamento e struggimento, decentramento e struggimento ancora.
Rotocalchi e occhiali nel malessere mio, guance e orologi, natiche e foulard. Tacchi e mascelle, capelli e fontane, caviglie e fontane, calzini e fontane. Gastronomia mutande calcolatrici e giacche a vento. Tubi e pellicce, biglietti della lotteria e gole. Fontane sempre e dovunque.
Strati su strati, luce su notte, asciutto su bagnato, vita su morte. Dentro il gabinetto mio.
Il gigante si è svegliato, si stropiccia gli occhi, partorisce, grufola e sovrappone. Il gigante esposto agli umori del tempo, il tempo infilato a forza fin dentro il mio naso, fin sotto le costole e la lingua. Il tempo che da sempre scorre attraverso i polmoni, che m’inonda spudoratamente le budella. Gioca a far danni questo tempo mio.
Ma il Porto di Ripetta dove è andato a finire? E’ messo di sbilenco alle porte della città, è anch’esso sospeso per aria e impacchettato, gocciola sui viandanti, poco importa. Abbellimento e ristrutturazione a iosa.
Si aggirano su mia indicazione ma il ponte non lo trovano, si domandano ma il ponte non risponde, si ritornano e il ponte ancora non c’è, si rincorrono e si disperano, ma il ponte non appare. Si interrogano allora sul fiume, bussano e ribussano alla porta del mio indaffarato gabinetto, mi vogliono chiedere a proposito dell’inverosimile e tragico suo scorrere. Osano, scommettono, s’indignano e si deludono ma lui, il fiume non vuole parlarne.
E il giardino a voluto scomparire, ha fatto appena in tempo a dirmelo, il giardino si è impiccato ad un suo stesso albero. All’alba l’ha deciso e all’alba l’ha fatto, senza rimpianti e con un minimo d’ironia.
La città intera sta uscendo fuori da me. Esce di fuori, mi gira di dietro, e mentre io sto inginocchiato sul gabinetto mi rientra dentro dal sedere. Tortellini e sventramento, sventramento e pollo con le patate, rococò, ruberie e pesce congelato. E il verde che scatta, il sospiro, il rosso che mozza, lo stridente, lo schianto e il segnale. La corsia preferenziale, il tango postale, la fila sempiterna, l’avambraccio. Il braccio delle precisazioni, dei sensi unici e dei mostri pesanti.
Eccoti di nuovo dentro di me, maiala città, l’incubo della lancetta, lo sbadiglio, il secondo gong dell’assicuratore.
In formalina lo scrittore, il professore è onnipresente, i piedi dell’operaio, le braccia e il cuore scaglionato. Il dottore sta sempre per avviarsi, il garzone appesantito dai suoi obbligatori passi di danza, lo studente imbarazzante, frustrato, geniale e inconcludente. Lo studente che dal liceo comincia a morire. Il valzer avvincente delle impalcature e l’incidente spettacolo al Grand Hotel. Il Colosseo nella struttura molecolare di molti. L’invenzione del Mattatoio proprio all’interno del mattatoio medesimo.
S’incupisce il tutto, tutto si stupisce e la luce elettrica scompare. Non vedo ma continuo a vomitare lo stesso.
Buio sullo stoino, buio sull’angolo con via dei Serpenti, buio sullo scalino. Buio fra i denti. Buio sotto i piedi. Buio attraverso gli archi. Buio addosso al palazzo dell’Anagrafe. Buio sul distretto, buio addosso ai sentimenti di ognuno. Buio negli apparecchi telefonici, sulla figura del sindaco e al decimo piano. Buio che spavaldamente ci riprova e picchia le ore con forza. Buio freddo nel cortile bagnato. Buio appannato, buio impanato e fritto. Buio sull’arresto, buio molesto e sulla coltellata. Buio mai sconfitto. Buio della porca città.
Tetano città, io in te sono costretto a credere. Io bevo il tuo midollo, io cado ripetutamente dalla tua scala. Io in te mi specchio, io ti respiro, ti cammino e ti dormo. Ti sporco e ti continuo a sporcare.
Col mio vomito ch’è diventato eterno, che si unisce al fiume, che va con lui nel mare a disperdersi.

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