mercoledì 31 ottobre 2007

Sembrava di legno




C’ho fatto l’amore tante volte nascosto fra le dune, da lontano. Da lontano l’ho posseduta a lungo.
La casa di legno sulla spiaggia era la sua. Di una faccia scavata, senza età, o trenta o cinquanta, oppure chissà. I capelli castani e grigi, impiastricciati dal sale e annodati in un groviglio inestricabile dal vento.
Indossava sempre una gonna lunga fino ai piedi, consumata. I suoi piedi, belli e nodosi, sequoie. Portava scialli di lana che non potevano proteggerla più.
La padrona della casa di legno aveva occhi attoniti, enormi, sgomenti, infossati e decolorati. E il suo collo, il collo era lungo e forte, sempre proteso in avanti, scolpito. Questa donna aveva un modo di guardare fisso da sembrare cieca, cieca oppure demente.
Al sorgere del sole si sedeva sugli scalini di legno sconnesso e marcio davanti alla casa. Si sedeva lì a guardare il mare, avvolta in se stessa. Stretti fra le mani aveva sempre un’arancia, o una mela, o un mandarino. Teneva le sue mani occupate così.
Guardava il mare e le sue onde, guardava ancora più in là, dove la luce e il colore cambiano e si muovono.
Guardava il salire del sole dritto in faccia senza timore di rimanerne accecata. Aspettava l’arrivo, gli umori e la voce del vento.
Era difficile dire da quanti anni abitava la casa e la spiaggia, ed era impossibile indovinare la sua storia passata. Non rispondeva, non si voltava, non si curava di nient’altro.
Solamente l’immenso dritto davanti a lei. Pareva, mentre stava così assorta, che stesse volando verso il largo, incontro al suo sole.
Questo inverno era più rigido del precedente, e il precedente come non se n’era visti da un secolo. Ma il vento gelido non riusciva a sorprenderla. La bocca si spalancava, il collo si tendeva in avanti e gonna, scialle e capelli danzavano impazziti.
Quel vento aveva già girato il mondo intero prima di arrivare su di lei, aveva raccolto nel suo ventre milioni di voci e fatti. Il vento le gettava tutto il bottino raccolto nelle narici e nella gola.
Ce l’infilava dentro a forza, usciva nuovamente da lei e, dopo poco, le rigettava in profondità un altro carico di mondo lontano. La bocca sembrava snodata come quella dei serpenti…
In uno stato di probabile incoscienza, ad occhi spalancati, si faceva possedere, si faceva scopare ogni volta da quei vortici ingordi. Tutto dentro di lei s’incontrava e si urtava, tanti si parlavano e si guardavano per la prima volta nel suo dentro.
La vita, la storia, le lapidi e gli anni, i voli, il decorrere e il sapere, il maligno e la serenità. Il dolore e le grida e le pagine scritte. Tutte le ubbidienze e i crimini.
Mentre il vento inaspriva a suo comodo all’interno di lei, le ginocchia si schiudevano vinte. Le gambe, sottomesse, si divaricavano e il collo, prima teso in avanti, si piegava completamente indietro. Così fino a che il vento non voleva placarsi.
Al termine di questo inverno, una mattina che passeggiavo, mi apparve gravida. Sempre seduta sugli scalini, ma gonfia e sfinita, gli occhi chiusi, nel respiro il rumore cupo dell’interno di una conchiglia.
Poco prima del tramonto, lasciando la sua traccia sulla sabbia come una grande tartaruga riusciva a trascinarsi fino davanti all’acqua.
Spingeva, spingeva e ansimava velocemente, gemeva. Un urlo che schizzava in alto e andava a rituffarsi nelle onde , e con le mani aiutava ad uscire un qualcosa di scuro, impiastricciato di sangue e placenta. Doveva prenderselo il mare.
Lei restava distesa, fradicia e immobile, morta.
Il qualcosa partorito da lei aspettava di farsi trascinare via. Sembrava di legno, un legno consumato dai secoli, il pezzo di un antico relitto.
Il legno marcio scompariva risucchiato dal mare.

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