giovedì 8 novembre 2007

Ci stanno i pensieri




Dormo. Guido scaraventato sulla strada, pericolosamente nel mezzo, a casaccio infilo gli occhi tra i fanali. Adesso piove e adesso piango, qualcosa nella parte sinistra di me si inceppa di continuo. E perché adesso canto?
Mica canto, ripeto ad alta voce i cartelli stradali e il dolore.
Volta, gira, stai attento che c’è lo stop, tieniti a destra, occhio al cartello, occhio alla macchina di dietro. Ma che fai deficiente quel passante vuoi proprio ucciderlo? Fermati rifletti e ricomincia. Io, se fossi in te, me ne sarei rimasto a casa. Sai guidare oppure hai voglia di scherzare?
E guardo a intermittenza nel sedile accanto. Mio figlio non c’è, non c’è il suo respiro, neanche i suoi occhiali, la camicia con le maniche troppo lunghe. Sogno di frenare. Voglio telefonare, cercare dentro la notte, se di notte si tratta. Voglio implorare in modo imprecisato.
Adesso la chiamo in un bisbiglio, dopo la curva. Dopo la curva le chiedo di ammazzarmi ancora, desidero sentire un colpo secco, il corpo che se ne va in un colpo solo. Mi formicola il solito scomodo braccio.
Agito il braccio togliendolo dal volante. Ma sono sicuro del sogno?
Agito il braccio e il tremore sale così fino all’occhio. Dalla gola sta arrivando un miagolio. Sei finalmente tu figlio mio? Sei tu anche mio padre.
Mi scortico la fronte, sulla fronte mi sfrego le mani. Guido.
Guido e la mia solita faccia non c’è, c’è la roccia violata da un martello, c’è un tono fesso, c’è un grande occhio allagato, c’è una palude schifosa di moccio. Mamma mia che schifo! Ci sono i pensieri.
Adesso piove o adesso piango, ma piango proprio male io, ma piango come un catarroso pierrot. Oppure canto?
Non canto, ripeto a voce alta i cartelli stradali e il dolore. Poi convulsamente riprendo a dirmelo.
Mio figlio non c’è, gli occhiali di mio figlio non ci sono, il suo respiro di notte non c’è, non ci sono i suoi calci, i pugni a tradimento nello stomaco.
Freno, voglio telefonare, lo voglio fare magari sicuramente implorando, strisciando e ricominciando, con assolutamente alcun senso dell’onore. Uccidimi.
Non lasciarmi ti dico, guarda questa faccia crollata ti dico, guarda come si sfascia. Mi tocco, tocco la faccia di un indiano, secco, morto, messo a sedere e per sempre muto.
Muto per sempre, ciao figlio mio, come va stamattina, che sogno hai fatto? Per favore, inventati qualcosa per me.
Ciao, io sono qui, per sempre seduto nel buio secco, con due ciuffi di capelli ancora curiosamente vivi. Gli occhi sono riposti in una scatola accanto. Piove.
Mi diluvia addosso e poi arriva il tuono, l’urlo del vetro che mi si frantuma in faccia. Ma che, sono andato a sbattere sul serio ? Ma tutta questa menata non poteva essere solamente uno scherzo?
- Ho paura dei fulmini papà -
Dormi, qualcosa di me è rimasto sul cuscino, l’odore
- Papà io però ho paura del buio –
Anch’io e di tante altre cose. Per esempio ho paura delle merdate che ho fatto.
- Merdate papà? –
Le merdate che mi sono rimangiato e quelle che ho rifatte. Per solitudine dichiaro. Dormi tranquillo che io torno presto. E giù a capofitto nelle merdate ancora. Neanche mi sono alleggerito che mi ci ributto. Sai figlio mio, sarebbe bastato un sorriso per fermare lo sconcio. Quel sorriso, tua madre, il suo inequivocabile ghigno. Quel ghigno capace di seccare tutte le piante del giardino, spaccare i tubi del riscaldamento, e fare esplodere le lampadine. Quel ghigno che, alla lunga m’ha colorato il sangue di marcio. Quel ghigno che di notte trasforma la casa in un castello scassato.
Sto guidando e non so se sono ancora indubbiamente vivo.
- Lo vuoi il mio sorriso papà ? –
Si che lo voglio, adesso fermo la macchina prima dello schianto definitivo, mi sveglio, telefono, mi ripropongo. Ma mentre me lo dico lo schianto avviene, un botto bastardo, pieno, ma…
- Papà hai visto che non ti sei fatto niente, svegliati che voglio da bere -

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