lunedì 5 novembre 2007

Come combattere la stitichezza


Quella fotografia, il mio occhio sinistro si ribella, trasmette il suo disagio alla pancia, ma l’immagine è ormai penetrata.
C’è qualcuno, si alza svegliato da un incubo. Ha dormito male, ha dormito in terra, in una soffitta sulla cima di un palazzo di tanti piani. Un palazzo stuprato, bucato, squarciato, trapassato dall’odio e dal piombo, accecato dal nero di un fumo che infierisce sulle tante ferite.
Ha dormito con un cappotto addosso, sporco, sdrucito, di un verde che non si riconosce più. Si alza a sedere sul pavimento, gli occhi, spalancati anche nel sonno, restano aperti e immobili, come quelli di un cieco. Addosso, oltre il cappotto, porta ancora con sè il suo sogno, è solo in un relitto scassato e alla deriva, in un mare grigio e oleoso. Tutto intorno a lui puzza di cipolla.
Ha dei ricci e duri capelli neri attaccati con forza sulla fronte bassa, due baffi folti e puzzolenti di zolfo e nicotina, e la barba ispida come i peli di un vecchio cinghiale.
Accanto a sé due bottiglie vuote ed una terza a metà. Accanto alle bottiglie una rivista sgualcita, sfogliata mille volte, uomini e donne nudi, peli e carne su carta impregnata di sperma.
Spalanca la bocca in uno sbadiglio muto e sguaiato, allunga una mano cieca e acchiappa la bottiglia a metà. Manda giù con un brivido di schifo e si tocca la pancia. E spinge e martorizza la pancia che gli fa male.
Si alza barcollando in piedi e va verso un grande squarcio del muro. Lì sotto c’è la città, le sue rovine, una strada deserta.
Davanti a sé, sulla linea dell’orizzonte, ci sono le colline dello stesso verde inquietante e criminale del suo cappotto, quel verde scuro che adesso serve a costruire bare. Guarda in giù, guarda e immobile ascolta. La pancia gli fa male, spinge, contrae, ma nemmeno aria gli esce.
Sotto qualcuno sbuca da sinistra e corre, è una donna che stringe fra le braccia un filone di pane. Corre, inciampa, si rialza e corre.
Lui fruga nelle tasche in cerca di una sigaretta, ne trova una, la spezza e accende. Laggiù un cane abbaia, laggiù dove la città è coperta da una foschia funebre, dove ogni rumore è forse solo il ricordo di se stesso.
Si riaccosta allo squarcio nel muro e guarda di nuovo giù, c’è un vecchio che trascina un carretto, ma non corre, cammina lento, attendendo qualcosa. Allora addenta il pezzo di cipolla che gli ha infettato il sogno, mastica ma poi sputa, la pancia gli fa male, vorrebbe defecare, è quello il momento.
Si tira giù i pantaloni senza levarsi il cappotto e prende un foglio dalla rivista sgualcita. Ci prova, ma da lui non esce nulla.
Bestemmia e spinge ancora, si tira su i pantaloni senza riabbottonarli, srotola un grosso straccio di stoffa militare e si stende in terra, davanti allo squarcio nel muro. Ed ecco una voce invisibile, la voce di un bambino laggiù, e quella di sua madre che lo tiene per mano e vuole convincerlo a correre.
Adesso la voci si vedono, escono allo scoperto. Dalla stoffa militare estrae un fucile, prende la mira, lascia le due voci allontanarsi di più, quasi fuori tiro, quasi a tuffarsi nella salvezza. Adesso spara un colpo solo, un colpo solo e basta.
Il bambino è in terra con il cervello sparso sulla strada, la madre si gira verso il grande palazzo e urla, urla di sparare ancora e su di lei. Le urla invadono la strada e l’intera città che tace ostinatamente.
Tira indietro il fucile e finalmente, dall’interno di sé esplode una fragorosa e liberatoria scorreggia. La stitichezza del cecchino per oggi è finita.

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