giovedì 1 novembre 2007

Fisime e contromisure


Prima di addormentarmi sono obbligato a dare spazio a certe fisime mie. Un numero svariato di manie indispensabili. Un susseguirsi di cerimoniali che, negli anni, sono aumentati e riprodotti su se stessi.
Quanti anni avevo quando, svegliato da un’esigenza misteriosa, spezzavo bruscamente il sonno di mia madre a metà della notte? Insistevo petulante, la svegliavo e la insultavo.
- Amore santo, perché dormi amore santo? Sei cattiva e non gioco, me ne vado e non ritorno –
Poi richiudevo gli occhi soddisfatto e tranquillo. Questo, momentaneamente, era il solo modo di dormire.
E, prima di dormire, allungatomi di un bel numero di anni, non potevo certo rinunciare all’obbligatoria preghiera. Ma, di seguito alla preghiera, era veramente irresistibile il bisogno della bestemmia. Ma con la bestemmia non si poteva concludere la giornata, il demonio, dietro l’armadio, era all’erta. Così ancora la preghiera e purtroppo l’inevitabile bestemmia…La terza preghiera e la terza bestemmia, e avanti, al limite della confusione.
Avevo una camera tutta per me, ero velocemente ancora più grande, quando, non ricordo per chissà quali paure, prima di addormentarmi scostavo le tende. Ci guardavo e ci riguardavo, spegnevo la luce e la riaccendevo, mi rialzavo e guardavo sotto il letto. Rispengevo e riaccendevo, mi mancava l’armadio, dietro e dentro, dentro e di fianco. Era estenuante. Il sonno esigeva anche l’apertura e la chiusura della porta, ma mica una volta sola. Era sfibrante davvero.
La casa però continuava oltre la mia porta, si esibiva in corridoi, altre camere da letto, il salotto, anzi due, una cucina, un sottoscala, un altro bagno e ancora un altro. La mania pretendeva complicarsi.
Entravo nel letto, spengevo e riaccendevo e perlustravo. Cercavo di resistere, strangolavo l’azione, m’imponevo di tornarmene a letto. Ma la mania è dura ad andarsene, la fisima è padrona.
Mi costringeva ad accendere la luce nuovamente, mi alzava dal letto, mi ordinava di ripetere l’operazione nei minimi dettagli, ricominciando dall’inizio.
Le tende, il solito armadio, il letto. La chiave della porta, aperta e richiusa, l’oscurità dentro il resto della casa, con il peso dell’ironico sonno sulla schiena e nelle gambe.
La luce del corridoio funziona bene, non c’è bisogno d’infierire sull’interruttore per sei volte di seguito, a intermittenza.
Il corridoio era apposto, e il salotto? Spostavo e rigiravo i metri quadri, qualcuno poteva eventualmente nascondersi in sala da pranzo, dovevo continuare. Tornare a letto ora avrebbe significato dover riprendere la fisima dall’inizio. Anch’io avevo il diritto di dormire qualche ora, anzi me lo stavo conquistando.
Così nella cucina, insistendo soprattutto sullo sportello del frigorifero, anche se non ero sicuro che qualcuno potesse nascondersi lì dentro.
La fisima mi aveva totalmente preso la mano.
Le altre camere da letto, anche se occupate dai miei fratelli e mia madre, aprivo e guardavo dentro, due, quattro volte, sette. Rischiando di svegliarli di nuovo.
Tornavo nel letto esausto e scosso, consapevole della schiavitù, della sua crescita e dell’imprevedibile evoluzione.
A questo mio frenetico esplorare, se volevo veramente meritarmi il sonno, si aggiungeva la maniacale e intermittente cerimonia di urinare.
La prima volta si trattava di sincero bisogno fisiologico. La seconda, l’inizio di un’altra fisima, il suo pericoloso nascere.
Sinceramente stanco e di ritorno dall’ispezione di ogni, di troppe sere, mi alzavo dal letto, riaccendevo la luce, e andavo a urinare. Un pellegrinaggio che poteva ripetersi di seguito, anche dieci volte, e metà della notte s’era ormai consumata. Ed io già nuotavo nell’ultimo anno di liceo.
Ma una sera, costretto come sempre a prendere l’estenuante decisione di andare a dormire, mi accorgevo che il mostruoso grumo di fisime non mi stava aspettando.
Entravo sotto le coperte diffidente, spegnevo la luce sospettoso, restavo in attesa immobile, senza il coraggio di formulare nemmeno un pensiero.
Le manie si facevano indubbiamente attendere, gli occhi potevano chiudersi, il buio buono dava loro il permesso. E sì che ne avevo di sonno arretrato!E sì che mi accorgevo di un grande e benefico, un silenzio in più!
Il sonno arrivava.
Forse un sogno, forse. Mi ritrovavo ad occhi aperti nel cuore della notte, ad accarezzare con cura, struggimento e leggerezza, gli angoli della federa del cuscino. Una sensazione dolce ed essenziale. Una necessità?
Muovevo delicatamente i polpastrelli delle dita per un tempo che mi sembrava meravigliosamente infinito. La nuova fisima in agguato se la rideva di gusto.
Invincibile era la tossicità emanata da quella stoffa, nuova nemica del mio torturato dormire. E dalla sua magica consistenza un insospettato bisogno di cocciuta simmetria. Una simmetria malattia.
Dalla federa del cuscino al lenzuolo, dal lenzuolo alla coperta. Il letto intero fatto e disfatto e ricomposto ancora nella notte troppo corta, nella notte mania.
La stanchezza, commossa, contava i gesti, sommava e moltiplicava, per riferirmi al mattino, per suggerirmi un rimedio qualsivoglia. La stanchezza non mi stava facendo un favore.
Numeri ovunque, numeri a soffocare, numeri sotto il letto, dentro le lenzuola, dentro le tasche del pigiama, sotto il cuscino, dentro le mutande. Numeri nel buio più scuro, numeri all’attacco.
Ad occhi aperti, prima di dormire, invece.
Quanti sono gli oggetti, quanti in camera mia. I quadri, i portacenere e gli orologi, i cassetti e gli specchi. Quante camice, quanti fazzoletti, il numero sicuro dei termosifoni. Le pieghe delle tende e le doghe di legno del parquet.
Mi alzavo, riaccendevo e contavo. Contavo attentamente e ricontavo nuovamente. Tornavo nel letto e non ricordavo esattamente.
La fisima dei numeri scompariva col mattino, ma lasciava la coda, mi prosciugava la voglia, mi lasciava ebete di fronte alle cose.
L’università forse dopo, magari un altro giorno. Quel libro era forse il caso di abbandonarlo a metà. Alzarsi dal letto avveniva gioco forza verso le due del pomeriggio.
E la fisima dei numeri non voleva risparmiarmi il confronto dei totali che ad ogni costo dovevano tentare di corrispondere.
Nottetempo dovevo ingegnarmi a spostare, da camera a camera, per poter pareggiare. Ci sono sicuramente più matite nella stanza di mia sorella che nella mia.Mio fratello possiede addirittura due sveglie. Io non ho nessun vaso di fiori. Ogni cosa, affinché potessi finalmente dormire, doveva finalmente corrispondere. E la notte era già finita. Ed un rimedio non poteva più farsi attendere.
Dividere e sottrarre, così fino a zero, fino alla negazione dell’aritmetica. Ancora una volta nel buio del nulla, nell’agenda del terapeuta.
Ne valeva la pena, e la notte russata poteva infilarsi dentro di me, di me che cascavo dal sonno.
Aprivo la finestra per gustarmi il buio movimentato e le luci della città, città che in questa specifica notte veramente mi piaceva. Grazie dottore, buonanotte mia bella città, ora mi stendo e dormo.
Spegnevo la luce e mi seppellivo sotto le coperte. Sotto le coperte rivedevo tutte quelle chiese, le strade e i ponti, i monumenti e il fiume. Affettuosamente buonanotte, alle montagne, alle campagne, alle altre città, allo Stato intero, alla nazione, al resto del continente.
Valeva la pena, per il rispetto, la riconoscenza e l’amore dovuto, un pizzico di precisione in più, e l’orgoglio di appartenenza, e il nome ben scandito. Buonanotte Roma e il sonno arrivava ubbidiente.
Uno scrupolo per la notte seguente. Perché Roma solamente? Il rispetto e l’amore non dovevano certo fermarsi alla capitale, c’erano gli altri doverosi capoluoghi di provincia. Ogni notte magari, magari senza esagerare, e senza soprattutto dimenticarsi, così che il dormire poteva diventare più sano, gradevole e soddisfatto. Dal meridione al completo settentrione.
Le città più piccole? I paesi? Le borgate? I passaggi a livello? Di dare la buonanotte anche a codesti non potevo rinunciare. Di dimenticare il già detto non potevo permettermi. Così il sonno ce le prendeva ancora, si estingueva completamente.
Buonanotte alle autostrade, alle statali e ai vicoli più stetti. Piangevo esausto, davo la buonanotte anche ai sindaci, e a tutte intere le giunte comunali.
E la luce del sole serviva solamente a documentarmi, evitare così di ricominciare dall’inizio. Addirittura da Roma capitale.

Nessun commento: