mercoledì 7 novembre 2007

Dimmi la misura


L’alta marea, la marea così alta e poi il fango. Gli scogli freddi e i discorsi appuntiti, le punte avvelenate degli scogli. Di chi è il figlio e quando partorirai? Partorirai quando?
Io sono incinto e tu, tu come? Tu sei davvero. Anche tu sai che un piacere deve. Un piacere sul serio deve sbrigarsi ad essere. Pazzo.
Pazzo ed innamorato, isterico sognatore pericoloso e deficiente. Inconcludente e bugiardo insieme. Immaturo. Tu mi detesti ed io? Io perché, io nonostante, io con compiaciuto dolore.
Dimmi la misura, dimmi quale dei due si sta piangendo addosso, chi si squaglia di più, chi riesce nell’essere ancora più atroce. Balordaggine e schizofrenia.
Immerso nel dolore, quel dolore che mi arriva da sotto le ascelle, che così rapidamente è capace di spargersi altrove, di contaminare capelli, naso, ciglia, dita delle mani ed ogni cosa intorno. Che adesso è dentro e mischia.
Ascolta ora.
Ora è il 3 febbraio o circa, niente più possiamo azzardare insieme. Adesso invece il figlio cos’è? Adesso in faccia ci sputiamo e il perché non sappiamo spiegarcelo.
La minestra sciapa, i cani e il cancello aperto, sempre aperto, a dispetto specificatamente di loro. La ferocia di un sorriso, le nove di sera, la ghignante stanchezza, la mondezza, il divano, il quadro conteso e la premonitrice macchia sul soffitto. Il sogno esplode e.
Declamare e rinnegare, tradire soprattutto e pentirsi, pentirsi ed esclamare che si vuole a tutti i costi ricominciare. Uccidere amando teneramente. Sfasciare tutto e ricucire. Poi a tradimento nel senso opposto, di nascosto.
Chi è che canta di notte e a quest’ora, e cosa si muove sul soffitto? Chi disturba la schifezza di queste mie obbligatorie ossessioni?
Piove. Adesso piove, piove a rotta di collo su di me, sulla mia testa una tempesta si abbatte. Io ho una testa o ce ne ho due?
Ho un solo braccio, l’altro si è dissolto sotto il lenzuolo mentre ti cercavo. Il lenzuolo è tutto imbrattato di te, sotto di te corrono i topi, un rimorso così arrapante, i vermi, i pensieri scaduti e le parole rimaste. Sotto l’armadio che odora dei miei. Quali specificatamente non distinguo.
Sto pregando o ruggisco, non mi accorgo nemmeno di qualche mia ragione, del vento che mi chiama, della parola chiave che inutilmente mi aspetta.
La porta del bagno che cigola e di respirare mi accorgo che mi manca la voglia, anche quella di alzare gli occhi dritto davanti a me.
Dritto davanti a me ho l’immagine scema dell’apriscatole, del dentifricio alla menta, del senso del ridicolo alienato, di un vecchio odore, un odore stuprato da un altro. E tu?
Ti cerco ad occhi chiusi, ti cerco nel mio mal di pancia, ti cerco nel grottesco di un’idea imprecisata, sul pavimento, sotto il cuscino, fra le forbici aperte, in una macchia di cerume.
Ti cerco dentro un urlo, nel gorgo di un orgasmo finto, nella testa di una cavalletta spiaccicata. Ti cerco nella mia saliva che in certi momenti di disperazione si fa troppo densa.
E tu sei al di là di qualsiasi porta chiusa, tu sei nel gabinetto eternamente, tu sei contro e tu non sei mai.
Ad occhi chiusi allora provo ancora, e mi dico addosso per evocarti .
Riemergono così, le mie emorroidi vergognose. Subito sinceramente mi schernisco sperando nella tua furibonda attenzione, sperando che possa aprirsi finalmente la porta del gabinetto.
- Ti ho mentito, non erano calcoli, no –
- Erano autentiche emorroidi, schifose, gonfie e doloranti –
Non le basta, tace e si sposta nervosa e veloce. Il perdono non me lo da e si richiude nel gabinetto. Debbo così flagellarmi ancora.
Sono in mutande e urlo, sono dolorosamente e ridicolmente in piedi, pendo troppo da una parte, magari rischio di cadere. Guardo stravolto i fornelli della cucina.
- Allora ieri mattina non è vero che sono andato alla posta –
Non basta, lo so.
- Allora io sono…Cosa sono? Qualche cos’altro sicuramente -
- Sì, oggi al salumiere, forse ho detto di non essere io –
Non basta esagerare, devo sparare ancora più forte. Cerco di corsa nelle mie enummerevoli stronzate.
Aggrappato al lavabo mi ficco due dita nella gola e tiro fuori le colpe che più in cima mi stanno. Ma loro bastarde escono a ultrasuoni, lo fanno senza fragore, scuotono solo me e la scena non cambia.
Alzo la faccia, sento chiaro e dolciastro della menzogna il sapore.
Guardo nel lavandino: schiuma giallastra e nient’altro. Allora insisto, spalanco tutta intera la mia voce, voglio dire di quel giorno.
Quel giorno lì, quando dentro di lei sono venuto, stavo pensando a una cosa diversa, a un non dicibile pensiero…Ma dalla gola mi esplode un fragoroso insulto, assolutamente non quello che volevo dire, e giù pezzi di cibo nel lavandino, il cibo di quello specifico giorno forse, melanzane al funghetto.
Mentre, ma lei.
Lei si schiaccia i punti neri nascosta in una camera che non so. Ma invece so che l’insulto mi ritorna con voce diversa dalla mia, è lei che ci gioca a ping pong.
Tutte le porte si spalancano insieme, il corridoio al galoppo, un pugno lanciato in avanti con le vene di fuori. La vedo che s’infila dentro lo specchio, che mi guarda e mi guarda. E se la ride.
Non le ho detto, della mia mente non le ho parlato per esteso, e dietro la porta chiusa è proprio quello che lei si aspetta da me.
Ecco di nuovo il rumore dello sciacquone. Lo sciacquone che s’infila nel televisore e ridiventa fragore di guerra, lampi rossi e arancioni, corpi sventrati per terra, fiamme sulle case e fiamme nel mio stomaco, che si ritrova sul divano nero ancora una volta, che non si è mai mosso di là, che per poter ripensare a se stesso, dopo qualche tentativo claunesco si ritrova infilato nell’immagine di mio padre. Mio padre ch’è uscito anche lui dal cassetto.
- Te lo ricordi quel quadro enorme e nero? Io cancellarlo non posso. In mezzo al nero solamente un pezzo di braccio, un altro muscolo, un occhio, la gobba del naso. Me lo dovevi dire chi era, non me l’hai mai detto –
Un antenato, un orribile sogno, un buco nero. Forse solamente l’urgenza di un bisogno.
- Te lo ricordi il silenzio, nemmeno avevo il coraggio di tossire, perché tu stavi pensando, oppure stavi dormendo, o altrimenti non c’eri. Eri nelle formule chimiche completamente immerso. No, poi ho saputo, eri strizzato dalla vita sballottato da un presuntuoso destino troppo grande.-
Quand’era e com’è successo? Un pericoloso qualcosa alla fine t’ha così ferocemente fermato. S’è infilato dentro il polmone ed è esploso.
Accadrà che di te prenderà completamente possesso, o è già accaduto anni fa. Ed io chi ho detestato allora? Una controfigura.
Nel caso invece che l’arancia ancora non t’avesse essiccato, fra uno struggente colpo di tosse e altri mille, vorrei sapere almeno tutto il resto che c’è da sapere.
- Insomma chi sei, insomma dietro di te chi veramente si nasconde.-
Ma non basta così, prigioniero di questo divano, che tipo di linguaggio usare?
Ma il genio dev’essere per forza così furibondo?
- Ma quando, in che giorno e a che ora, l’amore ha preso possesso di te? -
- Dimmi il colore della solitudine tu che lo sai. Lo stesso della diarrea? -
- Sai raccontarmi di tutta la tua scienza il dolore? Quantificarmela in bottiglie, in povere ed inutili scopate? Non lo sai-
Adesso si vede ch’è stanco, si avvia barcollando dentro il muro e mi saluta sottovoce chiamandomi con un nome diverso. A dopo papà ma ricordati che niente abbiamo ancora risolto. A dopo perché lei adesso passeggia in giardino.

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