lunedì 5 novembre 2007

Tu suoni alla porta


La porta trattiene il respiro. Tu suoni alla porta, io ti vengo ad aprire. La mia mano destra accompagna la porta. Tu hai la mano sinistra occupata, una valigia.
Ci guardiamo, tu non dici niente. Appari presso di me con un collo troppo lungo e due spalle troppo esili. Cerco i tuoi occhi.
Stai per fare un passo avanti, dunque lo fai. Chissà per quale motivo mi viene in mente che dietro potresti avere una coda di gallo. Potresti avere un cigno sgozzato nella valigia, potrebbe essere un dono per me.
Ora poserai il cappotto, oppure senza fare nulla tornerai indietro, o piuttosto aprirai quella bocca nascosta dalla quale usciranno arance invece che parole.
Posi la valigia, lo fai senza piegarti, senza cambiare il ritmo del tuo mistero. Quando hai suonato sapevo il tuo nome e tutto il resto, ora ti guardo e devo pensarci bene.
Ti stai per liberare del cappotto, non dici niente. Adesso sarebbe del tutto naturale se la tua valigia si aprisse da sola, solamente comandata da un’esigenza.
Ne uscirebbe una sola stanza con nel mezzo una sola sedia e in alto una sola finestra, con un solo raggio di sole.
In un angolo remoto un sognatore orologio.
Cosa hai intenzione di fare adesso? Entrerai più in fondo e prenderai possesso dei sogni ancora a disposizione? Vorrai senz’altro lavarti le mani, ed io potrò finalmente dirti.
No, l’attesa non si rompe, ed io devo ancora rispondermi a proposito di te, che per il momento non accenni ad andare avanti.
Tu mi osservi da un universo ritagliato e incollato, universo che tende al marrone, o meglio, il marrone tiene insieme codesto universo.
Alle tue spalle, dietro di te più nitida e lontana, in prospettiva, una teoria di costruzioni con finestre fitte, tante, tutte uguali. Sulla strada un uomo tende le braccia ad una donna costretta a subire il prolungamento della sua stessa testa. Ma c’è anche un secondo uomo che vorrebbe prenderla con sé. Per strapparle le budella e sputarle via.
A fianco, a sinistra della contesa, una figura in negativo guarda un punto lontano e non dice. Forse è di te che si tratta.
Immediatamente sotto, un insetto pare sbocciare da un volto più grande, un viso che gli fa da tana, una faccia d’argilla.
E’ un pensiero che ti rientra addosso dal plesso solare. E’ una presentazione come un’altra, un modo di farsi ricevere, un sistema per mostrarti a me. Un rebus.
Avanzi nella penombra, emerge il tuo viso.
Mi appari disegnata su di un pallidissimo celeste, un celeste raschiato via nel vano tentativo di consumarlo, di estinguerlo. Un celeste anziano.
La bocca tua un accennato rombo, dipinto giusto perché ci deve stare, giusto perché è giusto che ci si metta. Un rombo che adesso è muto, stretto e intenzionato a non aprirsi, almeno per il momento.
Nel celeste sbiadito e corroso hai una moneta per orecchino, e la collana si compone di altre monete con altrettante facce messe a confronto con la tua. Tante copie di te.
Il filo bianco che tiene insieme il tuo viso si immerge nel corpo che non si vede, che non trova la luce che abbisogna.
Ti trovi già, senza aver camminato, ai margini della stanza che promette. Ma che ancora non regala luce piena.
E’ lì, ai margini del cambiamento di stagione, che si rivela per un lungo attimo la donna fiore.
Linee rosa, linee blu di Prussica. Questi sono i contorni che la finestra, ancora lontana, mi rivela per dimostrare la sua commozione nel riceverti.
La donna fiore un folletto, la donna fiore dura ben poco. Ti guardo meglio Ti osservo di più e non riesci a diventare un fiore a me familiare, non so ancora distinguere.
Non ti decidi.
Adesso avverrà l’esplosione, ti solleverà e, invece di scagliarti, ti terrà sospesa in alto, inclinata ad arco. Nel fumo soltanto un uccello impassibile osserverà la tua sospensione, a sorvegliare che tu non ricada, che la tua scomoda situazione si tramuti in disegno e ti condanni.
Non c’è verso di decifrarti, non c’è verso di chiarire.
Il qualcosa che ti ha seguito fin qui non vuole farsi avanti, resta timido e si dimostra garbato dietro di te.
Il gonfio e verde mostro ha un pallido sfondo di cartone attaccato al sedere. Non avanza, aspetta l’evolversi della scena, che io dimostri almeno piacere nel riceverlo.
Immenso nella sua mole e leggero al tempo stesso. La sua una terracotta di un bel verde davvero. La sua una testa metà di toro, l’altra metà appartiene all’elefante. Le corna e le zanne sono bianche, gli occhi, due fori neri spaventosi e profondi, hanno qualcosa dell’animale domestico. La terrificante mascella non è altro che un origamo di cartone.
A piacere si può scegliere il verso del mostro, si può anche unire il davanti con il didietro. La proboscide, all’occorrenza, può partire dal sedere e andare a congiungersi alla bocca, diventare coda. Sta di fatto che il mostro domestico è tutto lì, da qualsiasi parte si cominci a considerarlo. Sta di fatto che tu l’hai portato.
Cos’altro hai lì con te, cosa vuole significare tutto questo? Sei nella stanza premiata dalla finestra in piena luce. Forse vuoi sederti, hai ancora il cappotto.
Ma il buio improvviso ti riassale, ti afferra, vuole cambiarti fisionomia. Tu non fai resistenza.
La tua metamorfosi assume l’aspetto di un polmone canceroso, adesso possiedi una testa di varano. Il braccio di cobra accarezza affettuoso una forma composta di pezzi che potrebbero essere i tuoi.
Ogni particolare si allontana e diventa difficoltoso il riconoscerti.
Stregonerie. Ti impregni nuovamente di colore, di molto più alta, accetti e ingoi la luce. Un grande e vaporoso mantello rosso, rosso di piume al posto di un comune cappotto, per farti regina, per elevarti a sposa.
Sopra il mantello la testa di civetta, una civetta dagli occhi gelidi e cattivi,come di solito non si addice ad una sposa in carne ed ossa.
Con la nuova testa sei altera, finalmente più forte. Non hai alcuna pietà per la tua parte scacciata, che si attarda ancora ai tuoi piedi, che si ostina e piange. Non accetta di essere di molto più brutta e fragile della madre sua.
Tu sei l’atroce sposa e fai la prova generale dei tuoi atteggiamenti.
Potrei metterti a disposizione una frase esca, per darti l’opportunità. Vorrei individuare il costruttivo nel tuo silenzio enigmatico.
Ora è la volta del Papa e dell’antipapa. Ora hai una testa di cavallo, hai due teste di cavallo che si stanno davanti.
La prima con tanto di armatura e grandiosa nel suo aspetto, servita e amata quanto le si addice. La seconda nel suo logoro vestito rosso stracciato e vinto, ma doppiamente pericolosa nella sua sottomissione.
Ambedue si gettano in faccia quello che posseggono di regale.
Tu mi osservi. Si è rotto il ghiaccio oppure stai per andartene di nuovo. Se posso ardire vorrei la tua idea sul silenzio.
Sei sul divano marrone. Il muro, lo spigolo, il chiaroscuro, il palmo cubista della tua mano. Il concavo, l’orecchino e la profondità, il pollice, l’ornamento e la solidità. Il muscolo, il tendine, le dita della mano e della candela l’immagine ricorrente. La piramide e il recipiente, la proposta trapezoidale. Il tuo laboratorio di falegname. Il tuo negozio di bambole.
Ti riproponi, continuamente mi costringi.
Accanto a te un frutto aperto, la sua polpa rossa e lacerata. Te come il frutto, il suo dividersi, il suo miracolarsi in viva carne. Tu e i miracoli, uniti e inseparabili.
Pieghi la testa all’indietro, questo il momento cruciale, questa la chiave del rebus, un’incrinatura nella tua ermeticità. L’occasione di saperti con dettagli maggiori.
La testa all’indietro. Qual è il movimento seguente?
Sul tuo viso un intero paesaggio. Neve e rocce, tetti e camini, scalini e vento, laggiù alberi secolari, colline e colline, echi e sogni, una finestra. Sanatorio.
La mia casa sembra già al corrente, ma io fatico a capire. Ora ti espandi fino ad abbracciare una figura che si forma sul momento, approfittando degli spazi che tu stessa lasci vuoti. La circondi, fai in modo che il suo colore sia digerito dal tuo.
E’ un lungo e totale baciarsi senza che nessuno spazio resti escluso.
Dove sei tu, dove il tuo rosso? E’ turgido e immerso nel bacio. Si scorge solamente un tuo piede, rimasto nel suo colore d’origine. Un piede che all’amplesso arrendersi non vuole.
La tua entrata.
Vado con gli occhi al pavimento. La valigia ti è affianco e tu sei intenta ad estrarre. Ben venga un’azione precisa.
Estrai e posi delicatamente, sistemi sul pavimento quello che la valigia ti vuole dare. Gesti da rituale.
Affondi la mano fino quasi a far scomparire il gomito, tiri su, estrai e posi, tiri su ancora, ancora estrai, posi.
Ecco la donna foglia, la donna libro e la donna preghiera. Segue la donna lillà, la donna lievito e la donna sussurro.
Inoltre la donna acqua, la donna profumo e la donna esternata. Segue la donna anagramma. Esce la donna ricamo, la donna rifiuto e la donna girasole.
Posi la donna lucertola, la donna sirena e la donna troppo alta.
Lentamente la donna erba, la donna gravida e la donna bambina. Distribuisci anche la donna leonessa, la donna indaffarata e la donna hollywoodiana.
Vuoi grattarti il naso ma continui il flusso, si fa strada un tic nervoso.
Una dopo l’altra la donna incarico e la donna sorriso, la donna sonno e la donna martello, la donna inchiostro e la donna che va via. La donna che mai più si ripresenta, la donna offesa e la donna derisa.
La donna guerrigliera, la donna buongiorno e la donna speranzosa sono le ultime ad uscire dalla valigia.
Una folla sul pavimento. Io vorrei osare un chiarimento. Io che sperimento obiezioni.
Sei senza cappotto, sei con le gambe accavallate e ti rivolgi a me, limpida e inesorabile.

Nessun commento: