lunedì 12 novembre 2007

Un artista




Un artista. Una vita per immaginare, e scrivere, e scoprire. Una vita per curiosare negli occhi degli altri, camminando, bussando, chiedendo. Una vita insieme ad una vecchia macchina fotografica, a scrutare, a cercare di vedere più in fondo. Una vita che ha lasciato i suoi avanzi nella vaghezza di un presente inquieto e confuso. Un’indigestione velenosa. Adesso i suoi ritratti appaiono sarcastici, vuoti, bugiardi, chiusi in certe scatole e circondati da specchi. Adesso fotografa continuamente se medesimo, adesso gli occhi dei suoi ritratti lo sbeffeggiano, guardando attentamente lo sfidano. Lo ingiuriano pubblicamente. Lo cercano per urlargli dietro volgarità senza fine
- Sei un artista? E che artista! Fesso –
Ha anche scritto nella preistoria dei suoi anni, ha provato a frugarsi dentro, ma ha visto l’irraccontabile. Si è fermato rifiutandosi di saperne di più.
Ha dormito e sognato sul divano, perché il letto non è più suo complice, perché dal letto rischia di sentire il brontolio diabolico della vicina di casa. Ma anche la prima notte sul divano non è andata come doveva. Tossisce e geme, spalanca la bocca e si toglie la mascherina da aereo sugli occhi, macabra abitudine per scongiurare ogni pericolo di luce notturna. Com’è andata? Anche dal divano, anche da lì gli sembra di sentire la psicotica vicina ?
Per salvare la giornata da questo fastidioso pensiero prova e riprova a dire che anche stamane può definire se stesso. Un artista.
Una stravagante persona di età a volte assolutamente misteriosa, che vive dentro una specie di caramella, un mausoleo di zucchero filato vecchio di anni, una galleria d’arte di gusto vomitevole, una confusione intellettuale cronicizzata, una casa affollata di oggetti e di umori che devono per forza, ma non ce la fanno a stare vicini. Montagne di fogli scritti, vecchi, ingialliti, messi così, dice lui, a maturare, ad aspettare chissà. Addosso a cuscini francamente stomachevoli, piatti e bicchieri, statuette, dei pagani, santi, papi e parenti, incensi e icone, pastelli e specchi, specchi a moltiplicare. Poi pietre su pietre, appoggiate ovunque, pietre levigate da dita nevrasteniche, mai ferme, che ritornano e ritornano e consumano, alla ricerca di qualche pensiero svanito, fuggito improvvisamente nel nulla. Ed ecco gli scaffali sopra il divano. In alto tante mele verdi vere e finte, maniacali, ossessive, preoccupanti, a ricordargli un periodo vuoto, un tentativo disperato di riempimento. Mele seguite da altrettanti barattoli vuoti, che non vogliono più essere guardati, ma nemmeno buttati per carità, altrimenti chissà quale orribile sventura. Ed ecco che ci si imbatte in una specie di tavolo da lavoro pieno di gessetti colorati, fotografie tagliate a pezzi, rimasugli di nastri adesivi, matite e pennarelli inutilizzabili. Lì lui si siede appena sveglio, guarda, prova a mettere insieme, disfa e dimentica, dimentica chi è stato e chi è, con gli occhi persi in quel guazzabuglio creativo. Allora si precipita verso il telefono in cerca di una voce, di una conferma, di un appiglio sicuro, cerca nei numeri. Ma i numeri non gli sono mai stati amici, ci rinuncia subito, altrimenti deve arrendersi ancora ad una tortura estenuante che puntualmente si ripresenta. No, meglio aspettare che il telefono squilli così qualche ricordo potrà emergere anche questa mattina.
- Pronto, non è l’ospedale, questa è casa mia –
Vestirsi e uscire, scegliere i soliti calzettoni rossi, da anni solamente quel colore di calzettoni. Poi davanti allo specchio per ricordare bene, per vedere che il sangue circoli comunque, prendersi a schiaffi per favorirne il flusso.
- Non sono morto neanche stamattina -
Uscire in strada a contare forse, contare tutto, targhe delle macchine, autobus, quante donne e quanti uomini, vecchi e bambini, storpi e mendicanti, ricchi e poveri, nasi, orecchie natiche e guance. E zigomi, quanti sono quei maledetti zigomi?
- Quanti sono i matti? Ci sono e dove? -
E ogni volta guarda agghiacciato se stesso prigioniero di quella fissazione orribile.
Al telefono è meglio di no, allora vuole provare a ricordare un passato probabile, si aggrappa ad un sasso, un rimasuglio di una sua precedente fissazione, chiude gli occhi e chiama se stesso.
Allora lo specchio più grande. Lo specchio sopra il divano parla di una testa di tartaruga che imprigiona un cervello di un collegiale con tanto di divisa, troppo biondo e troppo ingenuo, e un ‘anima schizofrenica in balia dei posti, degli odori e dei sapori. Un dinosauro ancora miracolosamente vivo, nonostante i solchi e il sonno sempre più pesante. Un dinosauro che di se stesso non si ricorda più. Certo che guardarsi allo specchio più grande può essere veramente insopportabile. Va bene, e allora, per non essere sopraffatto, come ogni mattina, come dopo ogni farneticante risveglio, si aggrappa al desiderio, che ancora c’è, che ancora può tentare di dire la sua.
A sì?...E la confusione comincia a cantare le sue canzonacce. Toraci, seni, nasi, natiche, caviglie, bocche, cosce, in una indefinita insalata sudata che gli ordina di eiaculare e poi basta. L’amore è un’altra cosa, l’amore è un dolore insopportabile che lo specchio non osa nemmeno suggerirne il ricordo.
Si ficca la mano nelle mutande, sbarra gli occhi. Non sa come continuare perché il muro si agita, bisbiglia, ricomincia.
E’ la sua testa oppure il muro? Dall’altra parte, sicuramente la vecchia, quella vecchia che ce l’ha con lui, che vuole farlo arrendere, che lo costringe ad impazzire.
Annaspa, apre un cassetto, apre il secondo, ne cade giù tutto l’intero contenuto. E’ in cerca di amuleti. La vecchia batte, urla, ride, bestemmia, lo chiama, sicuramente con lui ce l’ha. Ha chiesto pure a qualcuno dei suoi amici di ascoltarla, ma niente, loro non l’hanno sentita.
- Sei un artista, e sei pure un po’ strano, ma non guasta, non guasta –
Ecco gli amuleti: una pietra blu, un corno, un piccolo budda, un santino, e alla fine Padre Pio. Li schiera tutti sul tavolino, sgrana gli occhi, aspetta. Suona il telefono. Chiedono ancora dell’ospedale, sbagliano sempre, portano iella, lo fanno apposta, scelgono sempre i momenti sbagliati. La risposta è ancora una volta furibonda.
- Le dispiace sostituire il numero 3 finale col numero 5 e non rompermi più i coglioni? Sono superstizioso e così mi verrà un infarto, o forse è proprio quello che vuole? Comunque questo non è un ospedale, questa è la casa di un artista-
sbatte giù il telefono e ripete allo specchio
- Artista?-
La risposta potrebbe diventare un tonfo sordo nel mezzo del torace.
Vestirsi e uscire è l’unica salvezza per sfuggire alla vecchia e agli scellerati cittadini di una città che molto probabilmente lo detesta.
Ed è troppo forte la tentazione di infilare l’amuleto che ha al collo, un lapislazzuli veramente pacchiano, giù dentro il cappuccino. Questo come lo spiega? Come un qualcosa di veramente irrefrenabile, dovuto sempre al collegio, alle vicissitudini della sua vita, a sua sorella, a dei ricordi curiosi, a qualcosa di veramente inquietante che si sta facendo strada nella sua testa di tartaruga. Forse è anche da attribuirsi ad un mago che ha conosciuto anni fa. Comunque l’immersione nel cappuccino va fatta velocemente, per non essere visto. Altrimenti la gente può risultare crudele.
Pausa, improvvisamente sembra essere ritornato in se, si ricorda che ha una mostra da fare, deve dare un perché ai suoi famigerati pastelli, deve ritirare delle cornici, prendere un tram. Sì, ma prima starnutire tre volte. Il ricordo forse confuso di tutto questo da fare lo agita. Si dirige verso il tram guardandosi intorno incredulo
- Questa strada è la mia. Io abito qui? Certo che sì. Sono un artista, certo che lo sono -
C’è un tram fermo, deve sbrigarsi e salire. Salire dove, salire là dentro? Sarà tutto chiuso, con troppa gente. Ecco il ritorno di un’antica fobia, solamente accantonata in un angolo degli anni, insieme a quella dell’allontanarsi, passata come un tornado negli anni della sua misteriosa gioventù. Non è facile immaginarselo giovane, adesso assomiglia ad una tartaruga, o forse di più alla corteccia di un albero troppo lungo e troppo malato.
Ma si trova in terra il suo nemico più imbarazzante: nel fango un elastico solo e abbandonato e sporco, giace.
Sicuro, lui di elastici ogni giorno ne trova un’infinità, ne ha riempito tutti i cassetti di casa. Si tratta di un bisogno irrefrenabile per distruggere quella voce che si fa sentire all’improvviso, che pare seguirlo, persino in strada. Anche l’elastico che giace inerme vicino alle rotaie. Anche quello può servire per non fermarsi in ascolto. La vecchia dovrà tacere prima o poi.
- Io sono che cosa ?…-
E il numero di una targa che passa non troppo veloce gli offre un appiglio, un altro tranello faticoso. Mettersi a contare per non pensare, farsi travolgere. Lo faceva in collegio, lo faceva per combattere tutto quello che non capiva. Un conto delirante e velocissimo correndo dietro alle macchine che lo incrociavano ringhiando insofferenti delle sue attenzioni morbose. Sì, ma non solo. Contare i passi fino al prossimo semaforo e non resistere al bisogno di tornare indietro e rifarlo da capo, almeno 5 fottute volte. Eppure c’avrebbe giurato che, prima di sentire la vecchia al di là del suo muro stava sicuramente meglio. Ma quando? Prima della vecchia lui si ricorda di avere avuto forse un infarto. La paura di morire gli ha imposto per anni continue visite da tutti quanti i medici della città. Questo fino a quando, nei giardini comunali, trascinando il suo cadavere in avanti, non si era imbattuto in qualcosa di simile ad pietra luccicante, che poi luccicante non era. Stretta fra le mani quella pietra la fobia dell’infarto era scomparsa nel nulla.
- Non sono un matto, sono semplicemente un artista miracolato –
Cammina precipitosamente, inseguito da tutto, sognando di raggiungere solamente una tisana e di affogarci dentro se necessario. Ma non può ripassare dai giardini pubblici, deve fare un giro lungo, sempre correndo, per non farsi raggiungere da quella voce, dalla sua faccia che gli sta addosso, la vede addosso a tutti i passanti che incrocia. La tisana gli sembra l’unica salvezza.
Gli appare davanti la stazione della metropolitana, ci s’infila dentro, scende le scale, lì sotto forse la vecchia tace, non può raggiungerlo. Si guarda intorno. Impermeabili, giubbotti, nasi, barbe, foruncoli, braccia, pance, maglioni. Aspettano che il treno arrivi, nemmeno uno sguardo diretto a lui, lo ignorano, sembra proprio che lo facciano apposta. Attende poi quello che tutte le volte lì sotto gli accade, la claustrofobia è in agguato. E come le altre volte la sfida ricomincia. Ecco il rumore del treno, ecco il buio che il neon non riesce a vincere, ecco l’ennesima resa. Marcia indietro ed è già su, affamato di aria aperta.
S’infila nel condominio che la mattina è già passata
E la vecchia gli appare in cima alle scale, protetta dalla penombra, lo sta guardando, è sicuro, sogghigna, è sicuro.
Deve dire qualcosa, e non si dicono nulla. Anche il silenzio di quella pazza è significativo, provocatorio, addirittura criminale. Si tratta di un silenzio pieno di dispetto, quello che precede una coltellata magari. Sta per tornarsene indietro, ma la vecchia scompare, adesso sente solo il suo arrampicarsi. Allora non trova di meglio che urlargli dietro
- Buon giorno signora, buon giorno signora, signora buongiorno ! –
Non può rientrare subito perché è sicuro di sentirsi male, cerca allora qualcosa da fare che giustifichi un’altra fuga e un preventivo ritardo
- Ecco, vado a farmi ricaricare, dopotutto fa bene, anche se costa –
Un inquilino ascolta e gli passa accanto rasente il muro
- L’ha vista anche lei? Quella ce l’ha con me –
La ricarica energetica funziona così…in una sala d’aspetto con un numero colorato fra le mani e un fantasma segaligno che quando arriva il turno poggia le sue mani sulla faccia, carica l’energia, acchiappa un bel compenso e rimanda a casa, dritti ottimisti e soddisfatti. Così funziona. Così l’artista a grandi passi torna verso casa che tutto è favorevole, che il portone e la scala sono ben disposti.
Entra in casa e va alla caldaia, la accende e la spegne, l’accende e la spegne, quattro e cinque volte. Adesso se ne accorge che deve passare ad altra occupazione, per esempio i suoi pastelli, no, meglio mettersi a sedere davanti alla televisione, no, meglio prima sentire se la segreteria gli ha regalato nuovi messaggi. No perché se quella voce ci fosse entrata dentro…anche il telefono gli diventerebbe ostile. La televisione prima e la cena dopo, oppure viceversa. Così si aggira per il suo spazio stracolmo di divinità, tocca tutto e invoca tutto, la voce per adesso tace e un sorriso si fa strada nella sua faccia che a quell’ora e con quella luce assomiglia a un tartufo. Si siede finalmente e per la prima volta si accorge della presenza benevola di un neon montato sulla parete, una luce con la forma di una parola magica:
- Forse –
- Forse posso pensare liberamente, guardare la televisione –
Spinge il telecomando e attende, e, come se ci fosse un accordo il telefono squilla. Ecco l’occasione per rompere l’incantesimo, per raccontare il maleficio che arriva dalla parete, per convincere il malcapitato interlocutore delle proprie capacità, oppure sovrapporre il ridere addosso alla crudeltà della sorte, oppure ancora il non ascoltare, anche se solo per la durata della telefonata, le stranezze che la sua mente propone.
- Pronto !? –
Dall’altra parte della cornetta una voce si sforza di farsi sentire, addirittura di pronunciare. Si tratta dell’unica sua amica ferita da un ictus. Le parole vorrebbero, ma non riescono ad uscire.
- Pollo!!? –
E chissà cos’altro avrebbe voluto dire, con voce esitante, ma cattiva, ma insinuante, ma provocatoria. A lui il pollo non serve, non lo vuole, di altro avrebbe bisogno e in più, per un attimo, gli è anche sembrato che la voce fosse quella delle vecchia e non della sua disastrata amica.
- Pollo pollo pollo –
Lui chiude il telefono con una lunga e ben articolata bestemmia. Cerca un quantunque da fare. Riempirsi immediatamente gola e pancia, schiaffarsi dentro un’intera confezione di mandorle, una decina di prodotti d’erboristeria che sicuramente male non fanno, le pasticche contro l’infarto che forse non ha preso la mattina.
Cerca di ingoiare quel pasticcio che gli ingombra la bocca e colpi, leggeri e ritmati ricominciano dall’altra parte del muro.
- E’ lei, è la vecchia, ancora! –
Lo dice a una fotografia imprigionata in una scatola e stretta fra due specchi, una sua creazione bislacca depositata sul tavolo. Una delle sue opere invendute. Una settantenne infastidita dall’età e intenta a guardarsi una calza a rete maciullata. La donna alza la testa e lo guarda furiosa per poi continuare ad osservare lo sfacelo della sua abnorme coscia valorizzata dalle calze esplose. La fotografia e la scatola finiscono sul pavimento in tanti pezzi.
I rumori dall’altra parte del muro si perfezionano in passi furibondi, cadenzati, insistenti. Un tip tap micidiale. Di seguito colpi sordi e risate forti con tanto di eco. In canzonacce oscene che entrano di forza nelle orecchie e nel naso, che deformano le mascelle. Ancora tonfi. Un esercito di pazzi forsennati non una sola vecchietta.
Lui corre via in un’altra stanza, si tappa le orecchie, urla forte per non sentire. Sbraita e insulta e insulta. Un inferno nel condomino che apre e richiude le porte, che accende e spegne le luci delle scale. . Si continua mentre la notte si sviluppa.
Lui si contorce, s’inginocchia, risalta in piedi, non si accorge di far roteare le braccia, non si accorge che il collo ha cominciato a girare e girare. E tutto in casa sua si schianta. Un’insalata spaccata, un trita trita di oggetti variopinti. Statuette, santini, lampade, convincimenti, piatti, scaffali, souvenir, libri, tic, fotografie, fobie, quadri, ricordi, pentole, la sua arte, tutto vola, salta e si spacca.
Un ennesimo botto sordo quando un’altra mattina umida si fa strada nell’isteria. La porta dell’appartamento di fianco cede facilmente e si apre. Gli inquilini del condominio indemoniato trovano il coraggio e accorrono davanti a lui, seduto in terra sul pianerottolo. Per lui l’incubo appare finito, nella sua faccia le rughe sembrano scomparse, ha gli occhi aperti più del solito, la vena del collo non è più così gonfia.
- L’ho uccisa e è tornato il silenzio –
- Scusi ma ha ucciso chi? –
- La vecchia, la pazzia –
- Ma se questo appartamento è vuoto da anni !? –
- Lei non ha ucciso nessuno e il manicomio è a un passo da qui –
- Come? Sentite, sentite come batte, è ancora dentro allora -

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