martedì 6 novembre 2007

Per la salute del mio spazio


Il dilemma fondamentale riguarda il mio liquido seminale. Per la salute del mio spazio e di me è necessaria un’osservazione più attenta, una ricerca accurata e una definitiva e liberatoria diagnosi. Un’assoluzione, oppure una limpida condanna senza rancore.
Il timbro e il benestare dell’unità sanitaria locale.
Sportelli e perplessità, domande su domande, file e digiuni. Il problematico via libera, il lasciapassare per oltrepassare la targa del laboratorio d’analisi. Il primo e coraggioso passo.
E’ possibile estinguere il problema in una sola mattinata?
Devo esercitarmi misurando e cronometrando i gesti, sfidando e torturando lo stato d’animo, essendo tutt’uno con il camice bianco che, si sa, ha il nervosismo facile.
Posso riuscire arrivando al laboratorio già disponibile e sbottonato, lavato e disinfettato, profumato per decenza. Organizzando minuziosamente l’indagine, scartando e saltando a piè pari i vuoti, i punti morti, gli inutili e depressi corridoi. Contrassegnando le sedie utili e le apparecchiature indispensabili. Studiando bene alcune frasi da dire.
Mi lancio di buon’ora, evitando con diligente rammarico la prima colazione dannosissima. Nome, cognome e indirizzo. Indirizzo, età conclamata e numero di telefono. Numero di telefono e dichiarazione giurata e a voce alta del sesso di appartenenza. Stare all’erta e rimettersi in fila.
Questa donna ch’è davanti a me, ch’è stata più veloce e accorta, col suo naso contorto, può essere seriamente ammalata? Come me o di più? E l’uomo che prima di lei sospira e biascica è venuto a misurare la sua vecchiaia, ma così facendo l’ha aumentata. Il bambino accompagna oppure è danneggiato anche lui? Ha gli occhi bianchi e mi fissa, mi fissa e mi vuole avvisare, dei camici bianchi è il riflesso. Si dondola, è cieco.
Vado via, no, rimango, è il mio turno.
Nome, cognome, indirizzo un’altra volta più una. E, senza interrompere, scopro mostro e porgo il braccio, quello sinistro, sempre e solo quello, come prestabilito. Il sangue può lasciarmi da subito.
E subito devo togliermi la camicia per inquadrare il torace nell’occhio radioattivo e quindi immortalarlo. Senza respirare, senza pensare, senza chiedere e disinvoltamente. Ma un solo scatto non svela il mistero.
- C’è una macchia –
- Una macchia? Come, cosa, una macchia di che genere, e col mio basso ventre cosa c’entra? –
- Non sono autorizzato prima del risultato scritto. Si tranquillizzi, minimizzi, si rivesta e vada –
Macchiato, preoccupato e affamato, ora affidato all’ecografica verità. Dai reni fino giù, e a ritroso per maggior sicurezza. Un bel respiro, un quarto di respiro e nessun respiro, ancora il nome, poi il cognome e l’indirizzo. Perché non il numero di telefono?
Pigia l’incaricato, ci riprova. Macchè vuole sfondarmi?
- Sente dolore? Lo ripeta, ci faccia caso, stia ben attento che quest’affare costa –
- Cos’ha detto? Non ho sentito, non respiri e non parli –
Dolorante e sudicio di unguento di melassa andata a male, mi faccio infilare in’astronave. Il tubo della Tac, la cosiddetta prova del nove. Tre volte avanti e tre volte indietro, ben legato e ben stretto. Da rifare per colpa della mascella e della mosca. Da rifare ancora perché addirittura ha pensato.
E il cronometro mi vuole indicare la stanza seguente, il percorso e la registrazione del rimbombo del mio cuore. L’elettrocardiogramma, il gran momento dell’inchiostro e dell’ago.
- Batte? Che fa, è regolare? Ma cosa c’entra con il liquido seminale? –
- Zitto e fermo, che passa il tram ed è tutto da rifare –
- Ma il nome, l’età e l’indirizzo? –
- Non gliel’ho chiesto? Sarà la stanchezza. Glielo chiedo dopo –
- Come? Cosa? Perché? –
- Fra una settimana, non prima. Tanto lo sa che una settimana c’è sempre nel mezzo –
Con l’ombra, il dubbio, la debolezza e la fame, m’incammino verso l’ultima tappa, quella riservata finalmente al succo di me. La mia sintesi spiata al microscopio.
Devo raccogliere il mio liquido seminale in un contenitore specifico e caratteristico. E la mattina sarebbe finalmente terminata.
Mi si offre l’opportunità di un rifugio, uno spogliatoio. Un sottovuoto nel quale l’azione si dissangua e smarrisce il motivo, muore. Nemmeno muore, non è e basta.
Il liquido dunque deve uscire da me, osservato da una folla di cappotti, sciarpe, cappelli e camici. Sono i cappelli però che più mi disturbano. Oltre la porta posso sentire chiaramente il via vai, lo scartamento e lo stantuffo, dei pazienti l’impazienza e la scoglionatura delle infermiere, i gelati commenti delle siringhe. Il contare e ricontare del direttore capo in testa, le risate sfottenti di qualche verdetto finale.
Non c’è la chiave nella porta, c’è un grande e luminoso buco della serratura.
E il motivo come posso cercarlo?E l’imbarazzo come posso ucciderlo? E i necessari pensieri avulsi, stranieri e necessariamente deviati, non salgono a galla.
Scade il tempo e io resto col mio prolungamento che si schernisce e non vuole.
- Ei là dentro ha finito? Mi dica a voce alta l’indirizzo, il nome, il cognome e il sesso-
Io rinuncio e allora me ne vado e anche non me ne frega e non mi piace e non voglio più. Punto e basta.
Invece eccezionalmente, verificata l’importanza dell’analisi, potrò tornare nel pomeriggio, ma sempre nello sgabuzzino senza chiave. In più ci sarà la sorpresa di uno sgabello e di alcune riviste da sfogliare e guardare attentamente.
E allora, quand’è così le bionde si mischiano con le brune. Le espressioni diventano umide, le carni saporite, il pongo. Gli anfratti senza più segreti, le gole e le lingue, le mani identiche ai piedi. Davanti alla porta un continuo e musicato passaggio.
Il pomeriggio si esaurisce ma il liquido seminale non vuole uscire. Allora la mattina seguente? La compagnia dei cappotti e dei camici si sarebbe potuta spostare.
Sì. La stanza appare meno affollata, priva di spettatori e più intima. Forse tremendamente desolata. Fuori della porta le voci sono sempre voci, più allusive e meno squillanti.
Sullo sgabello, accanto alle riviste, aggiornate e arricchite e sempre truculente, un paio di mutande rosa. E, fuori, la voce della probabile proprietaria., la migliore infermiera, sicuramente brutta e certamente segaligna. Sicura di avermi facilitato.
- Dica, così va meglio? Abbiamo indovinato? Abbiamo fatto un passo avanti? Coraggio che lo sgabuzzino ci serve –
Ma no perché le mutande rosa sono frasche di bucato, e il sapore di detersivo non è effettivamente eccitante. Ma la consegna appare forzata e inderogabile.
Un altro pomeriggio, davvero l’ultimo a mia disposizione. Un dopopranzo ancora a tu per tu.
Dunque una poltrona al posto della sedia scomoda. Lo sgabello, le solite riviste più altre dieci, il paio di mutande più una radio. Mi siedo e mi aggiusto, sfoglio, odoro e cerco di sintonizzarmi. Gracchia la radio e le mutande adesso hanno l’odore della brutta infermiera.
Chiudo gli occhi e con la mano, sempre quella sinistra, slaccio i pantaloni, con quella destra reggo il recipiente. Ma mi ricordo di non essere mancino.
Cedo allora alla mano sinistra il recipiente, la mano destra è, presumibilmente, più pratica e leale. Comunque devo fare i conti con il torpore del dopo pranzo, incoraggiato dall’inaspettata comodità della poltrona. Nulla di fatto se non più riposato.
La mattina presente una deroga mi spetta e mi presento in anticipo addirittura. Possono forse restituirmi la sedia scomoda da puntellare contro la porta senza chiave? Fino a mezzogiorno e poi basta.
Con la porta bloccata tutto si dimostra possibile, l’ipotetico si dispone ad accadere. C’è troppa luce, la stanza angusta è attrezzata di una finestra senza imposte e senza tende.
La luce è inquisitoria, decisamente mi blocca.
E qualcuno bussa. Forse è la brutta infermiera che pretende indietro le mutande sue?
- Si sente male, ma come è possibile? Forse i suoi gusti sono più ampi di quelli sospettati? Ma che sta dormendo? –
Quindi le riviste si arricchiscono di personaggi a sorpresa. E come se la ridono fuori della porta! E che ressa!
Bussa entusiasta l’orrenda infermiera
- Apra. Mi siedo accanto a lei là dentro? Il direttore avrebbe pensato che un televisore e un video registratore, con una bella scorta di cassette. Guardi che ha tempo fino alle otto di stasera. Forza orsù che ce la fa –
Nell’indecente così mi tuffo. Gambe e schiene, lingue e ascelle, teste e braccia bianche e nere, interiora grotte e foreste, sciacquettii e perlustrazioni. Quarti di bue ancora freschi e pulsanti, zombi senza ironia. E ancora bocche e deretani di alieni in cattività. Fiati rauchi interrogati e torturati da riflettori arrapati.
E un crampo alla mano destra, e l’escoreazione psicosomatica, e il torpore. Il televisore ritorna nero. Ed io per caso sto russando?
Ma una parola, un suono, oppure addirittura un disatteso avverbio, dal dentro di me o fuori della porta, sussurrato da un paziente inconsapevole. Una veloce e sorprendente durezza lancia in alto il liquido seminale incredulo.
Ma quale parola? Ma che tipo di meccanismo? Non so, già non ricordo, mi rammarico.
Il contenitore, sorretto dall’altra mano, cerca il liquido, lo insegue, non lo trova. Morente, ha appena inumidito il pavimento.
- E il nome, il cognome e l’indirizzo? Rinuncia così, senza poter essere riconosciuto? Mica può farlo. La scienza che dirà? -

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