martedì 6 novembre 2007

Giù, in fondo alla barbarie


Ho ceduto un mio sogno, l’ho svenduto perché straboccava, mi s’era messo nel fegato e pulsava forte.
Adesso questo è il sogno di fuoco del mio più abbondante cugino, il suo sogno più laido e ricorrente.
L’adrenalina, il sapore del metallo, la polvere e il lampo. Il lampo e l’urlo, di morte e di gioia cupa e necrofila.
Lo svilupparsi del macabro suo lo strappa dal letto, lo veste in grigioverde e lo scaraventa in platea. In un mare di sabbia rovente, in compagnia di sorella sete e del fuoco inseparabile e a tracolla. In balia dell’acidulo coito dell’ubbidire.
Il mio cugino abbondante spintonato e stretto fra la sorte e la medaglia, fra la medaglia, la ferocia e la paura. Volontario senza alternative nelle sigle, le strategie e le possibilità. Volontario a nuotare nell’incubo, nella voragine del conteggio dei caduti, i dispersi e i fuggiaschi, coloro ai quali è vietato possedere un destino diverso.
Il mio cugino abbondante nel mezzo del giusto, del previsto, dello scandaloso e del necessario. Nella barbarie al bagno.
L’ordine è notturno nelle guerre di questo magnifico secolo? E l’inizio guerreggiato è sempre contro luce, contro i lampi e i boati degli altri. Ed è sicuramente fotogenico.
Al cugino non gli sudano più le ascelle e nemmeno le mani, e non ha più saliva abbastanza. Ha i piedi di sabbia e nessun ricordo apparente, solo un’ebbrezza e una leggera commozione al momento del primo terrore dal vivo.
L’adrenalina e la colite nel videogame, a inondare di magnifico fetore pungente il primo bagliore variopinto. E il boato simultaneo è già passato, già subito un altro, già nelle orecchie e nel torace un tumultuoso via vai.
La sabbia dentro le mutande, nei polmoni e nelle imprecazione, e il cronometro non ha nessuna intenzione di fermarsi. Dal cielo nessuno peso nell’abisso del salto, nel dondolarsi ad occhi sbarrati, nell’offrirsi per contratto come bersaglio, nell’impatto e nel crepitio. Uno sparo e migliaia di altri, una struggente canzone di inizio secolo, una copia perfetta di tutte le altre.
Si tasta il cugino, con teatrale lentezza muove la testa e cerca il foro d’entrata. Il sapore del piombo, la parola fine, la pesantezza delle palpebre, il sangue scuro.
Nessuna traccia sull’abbondante mio cugino, che allora, senza perdere tempo, deve continuare verso nord l’impeto iniziale, nello sconosciuto entro terra, verso l’alba, ancora di più addosso al fragore.
Ancora un lampo e uno schianto, subito prima del sorgere del sole. Questa volta si che deve giocoforza essere morto. Ma il colpo di tosse smentisce, nemmeno un graffio miracolosamente ancora.
Bisogna rialzarsi, non c’è tempo ne spazio per sostare, è necessario invece far pressione su quel grilletto. Urlare dalle tempie, dalla fronte e dal cuore, dimenticarsi la colite e andare.
Il cugino abbondante a nord est, contro le ostili apparizioni della mattina presto. E la fuga a piedi scalzi, la paura e la paura, il pianto per suo figlio trucidato dal mio scatenato cugino.
Il lampo talvolta può apparire blu, senza nemmeno lo schianto. Mentre il cugino mio è impegnato a scavalcare ossa, metallo e denti d’oro, senza guardare pisciando…buongiorno sono la morte e così via. Sì ma c’è stato un errore, la camicia è squarciata, ma la vita continua a non andarsene. Ed accanto nuovamente lo schifoso respiro del sergente, quel sergente che non ci voleva per niente venire. Lo stesso sergente che, immediatamente dopo si mette a giacere dilaniato.
Dieci secondi e dal cielo una liturgia di piombo, la bomba. Il cugino corre di là, il cugino è malamente scaraventato all’indietro, stramazzato, piegato e rilanciato in alto. Il cugino si cerca sfiduciato sotto il sole rovente e buio. Incredibilmente si ritrova.
In piedi e con sgomento, ancora intatto, ancora come nuovo, forse un tantino stanco, probabilmente eroico, con l’alito assai puzzolente e incredulo. Allora avanza carponi nel sempre deserto sempre abbondante e sempre cugino, a prendere dimestichezza con il coraggio, a sberleffare il terribile stupore di un’altra notte illuminata a giorno.
E’ così che il fianco sinistro improvvisamente gli brucia, la gamba destra ha uno scatto e il morso cattivo sulla lingua impreparata. Ma nessun rosso sangue, ma nessuna traccia di dipartita. La forma del cugino è ancora intatta, forse con un pizzico di stanchezza interiore, un insignificante e impercettibile spiffero freddo.
Pronto per rimettersi in gioco, mascherato e guardingo, sempre in compagnia della colite. Ma il gas nervino su di lui cilecca clamorosamente, solamente una leggera raucedine, solamente quasi la consapevolezza di essere originario di un altro mondo.
E così il vento lo solleva per mostrarlo al nemico, il guerriero che si muove nel giusto, colui che, anche sforzandosi, non riesce a morire. Il solo in grado di sfidare e sfigurare il mostro, la spada della saggezza, il crociato, il giorno della vittoria, lo sterminio. L’icona, l’esempio, la medaglia, la lecita necessità.
Meritatamente il ritorno a casa, la banda all’aereoporto, l’abbraccio dell’intera nazione, la cena della mamma e il sonno del guerriero.
Il mio abbondante e decorato parente che adesso è cugino di tutti, respira prontamente, annusa l’aria di casa e ininterrottamente sorride. Una lacrima, una goccia di eroica gioia per la colite momentaneamente scomparsa.
A cena con la famiglia gusta finalmente il suo brodo di vecchia gallina, fumante e riconciliante. Il premio più gradito.
Una dietro l’altra le cucchiaiate bollenti, avidamente, con tutto l’amore. Talmente che il cugino va sussultando, sotto gli occhi estasiati di sua madre.
Talmente che scoppia, il sangue si mette a schizzare da cento buchi di cento proiettili. Una guancia gli crolla sul tavolo. Nel brodo, esageratamente caldo, l’occhio destro si fa cotto, e cotto è raccolto prontamente dalla madre perché niente va sprecato.
Voragini gli si aprono nella pelle, il dono in ritardo del gas nervino. E nella pancia appare improvviso l’effetto di una cannonata. Il mio abbondante cugino sgretolato e disciolto nella guazza del suo sangue. Tutta colpa del brodo di gallina.
E alla madre e alla nazione resta l’occhio bollito per sempre.

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