mercoledì 7 novembre 2007

Non scomodardi a difenderti


L’orologio va avanti di una tacca sola, ma poi torna, ci ripensa. L’orologio non è mai stato un mio amico.
E adesso cosa succederà?
I peli della barba si fanno sentire.Il foruncolo sul naso è ancora lì, il mio naso ch’è sempre chiuso, ch’è come se fosse finto. Il disagio esiste. Come il cerume nelle orecchie, come l’eterno mal di gola, come l’odore delle ascelle, come quello delle uova andate a male. Il disagio prepotentemente c’è.
L’elastico delle mutande è lento.
Le mutande sono state troppo tempo sul termosifone acceso.
E’ sempre così che mi gioco tutte le mutande. Il divano è scomodo, i cuscini scivolano giù, il divano è nero ed esageratamente sporco.
Ho le gambe spalancate addosso al tavolo. Il tavolo ch’è troppo ingombro.
Cose rotte, pennarelli senza più il loro inseparabile colore, pupazzi mutilati, extraterrestri.
Quello non c’ha più un braccio, quell’altro ha la testa masticata da un cane, sono rimasti lì chissà da quanto. Devo stare attento a non urtare quello che resta di uno yogurt. Le mosche su di lui e su di me.
Ho in mano il telecomando del televisore, non mi accorgo che lo schiaccio volutamente, non mi accorgo che davanti a me il televisore è acceso. Frigge, urla, delira per i cavoli suoi, sta per esplodere.
Dietro la testa la libreria s’è inclinata di nuovo. Il suo contenuto s’è aggrovigliato, parole e lettere in un confuso gomitolo indecifrabile. Pensieri sconosciuti e indistinti stretti in troppo striminzito alveare, conoscenze violentate, grotteschi sovrapporsi, titoli affogati in se stessi, numeri contro vocali, consonanti impiccate, verbi disperati, rassegnati a gorgogliare dentro se stessi. La strage dei significati, il genocidio degli avverbi.
Lo so, lo sento e quindi non posso mica guardarla.
Ma le lettere all’improvviso riescono a liberarsi e volano fuori dal gomitolo dietro di me. Ondeggiano ubriache e minacciose, si cercano fra di loro, a mezz’aria, nel salotto. Sento il mal di mare, un gruppo mi svolazza troppo vicino agli occhi, Alibellule con cattive intenzioni. Miracolo! Si uniscono in parole, già mi rassicuro, prima me la facevo addosso.
S’infilano sotto i cuscini del divano, riemergono. Mi sono davanti in parata. Il tempo di mettere a fuoco e loro velocemente ricompaiono. Dove sono? Pronuncio come un demente quello che mi è sembrato di poter leggere.
- Papè satan, cadi nel baratro bello di mamma, fatti travolgere dalla schifezza altre alternative non ce l’hai. Fesso non ti sei mica accorto di abitare con il demonio. Non ci credi? Prova ad alzare il deretano dal divano, provaci ma è sicuro che non ci riesci. C’hai anche la diarrea e tutta la casa ti è contro. Hai preso un acido forse? E’ come se l’avessi fatto, te l’ha ficcato in gola lui, il demonio in persona. Sudi puzzolente? E’ un segno. Non hai voglia nemmeno di respirare? E’ un altro segno ancora. Dicci fesso, come intendi soccombere, così ci godiamo lo spettacolo. Non scomodarti a difenderti –
- Aspetta, se vuoi un consiglio…buttati giù da un ponte, un ponte qualsiasi -
Com’è possibile, è inammissibile, queste cose simpatiche mi vanno dicendo!. Non ho letto abbastanza forse, non ho sputato sangue sufficiente su di voi?
Annuso il vento, il suo rumore s’infila nella finestra aperta e si mischia a quello della televisione che non faccio a tempo a capire quello che intende trasmettere. Due grattacieli vanno in mille pezzi, crollano giù. Le immagini si ripetono ancora, l’apocalisse, si ripetono e si ripetono, il fuoco e la morte ancora e sempre, così immediatamente, così immediatamente canti e fucili. Non sono più fucili, le esplosioni ed i crolli si mutano con uno scatto improvviso in corpi di donna danzanti, poi ancora in cartoni animati, adesso una risata fragorosa cambia tutto e ritorna il pianto e l’orrore, le immagini girano e impazziscono. Ho ingoiato il telecomando, ho il telecomando che ha deciso di fare da solo.
Mi tengo la pancia con una mano, me ne accorgo distintamente, lo faccio da un tempo indeterminato.
L’altra mia mano s’è arresa, sdraiata e vinta su un tappeto di polvere. La polvere c’è, ha sempre vinto lei, la polvere è viva, si muove e c’ ha le zampe. E’ talmente terribile e nemica.
E’ grigia e sta lì, rumoreggia e minaccia, aspetta uno sbadiglio per precipitarsi nei miei polmoni.
In mutande e senza forze sto sbracato proprio sotto la grande macchia sul soffitto, quella macchia da quando c’è ha sempre fiaccato i miei pensieri, li ha resi fragili, li ha spezzati come grissini, poi li ha dissolti. Di quella macchia ne sono sempre dolorosamente consapevole, anche quando riesco a spostarmi dal divano e andare oltre, anche quando, e di rado, riesco a fare altre cose.
La macchia è sempre lì.
Adesso mi sembra di vederci un caimano. In mutande, sdraiato storto sul divano con un caimano aggrappato al soffitto. Uno di quegli strani animali che mio figlio disegna in centinaia di varianti. mio figlio ha sette anni e sogna caimani dalla mattina alla sera.
L’animale sta lì sul soffitto ma non si cura di me, incombe sul disordine merdoso del tavolo, sui resti dello yogurt, sulla scatola di legno rotta e imbrattata d’inchiostro, sui relitti di pennarelli mutilati del colore, su di un libro contorto nel contenuto ed anche nella forma, sui fogli accartocciati, scritti da me che volevo dire ma poi non ho detto niente. Fogli, mutande, calzoni e calzini accampati e molesti, sul tappeto che mia nonna dopo la morte m’ha affidato. Se mia nonna mi vedesse in questo miserabile stato !
La stretta allo stomaco si ripercuote sul telecomando, una tempesta nuova che mi entra dai talloni e sale su attraverso il sedere.
Ho freddo, e il freddo s’impossessa della mia ebete attenzione e la dirige senza resistenze verso il primo cassetto a destra del televisore, il cassetto delle fotografie. Cosa accadrà se riesco ad alzarmi e provo ad aprirlo?
Le fotografie urlanti e taglienti nel cassetto sono ammucchiate alla rinfusa, altre sadicamente ordinate negli album. Nel buio del cassetto parlano fra di loro, si combattono, si alleano, cospirano, si tirano per i capelli, tirano calci, qualcuna sputa, si massacrano. Talvolta si uniscono, con quale schifoso intento non so.
Io, così come mi trovo, quel cassetto non posso nemmeno guardarlo.
E invece c’è una fessura, una ferita che vomita e inghiotte la polvere viva.
Tutte quelle zampe grigie corrono e si agitano convulsamente, tutte quelle mascelle che masticano anche il nulla in un chiasso infernale, un chiasso che assomiglia ad un canale della televisione sintonizzato male. Una mossa inconsulta del gomito e mi ritrovo imbrattato. Il barattolo di mosto nero sul divano nero non l’avevo visto.
Fa freddo, e cosa potrà accadere?
Ora il cassetto è aperto. Una tonnellata di fotografie sono già sul tavolino. Perché questo dolore in più ? Guardare io non voglio, rimestare nemmeno, ricordarmi perché sono lì, spossato ed in mutande.
Pesco nel mucchio contorto.
Una sedia vuota su una spiaggia, davanti al mare in tempesta: Il mare minaccioso davanti. Ma che vuole farne, ma chi c’era seduto su di lei, e di che cavolo di ricordo si tratta? Più lontano, a spezzare l’orizzonte, alto e spettrale quello che resta dell’interno di un vulcano, l’interno di un cadavere, un obelisco morto, l’inferno pietrificato bellissimo e minaccioso.
Appiccicata alla sedia c’è una seconda fotografia. Non ricordo a chi appartiene quella faccia posseduta dal vento, la bocca è spalancata e gli occhi socchiusi dal dolore dell’orgasmo. Oppure forse le scappa solamente da cacare?
Il vento che viene dal mare, perché anche qui di mare vuole tormentosamente trattarsi, la penetra ovunque, nelle orecchie, nel naso, nei capelli e dentro la pelle. Le braccia indicano qualcosa che non si vede. Da un momento all’altro potrebbe parlare, direttamente a me, mandarmi a quel paese e uscire per sempre dalla fotografia. I suoi sono cavoli che non mi riguardano. Si, il suo nome me lo ricordo. Sì, ma io non ne voglio parlare.
- Cos’è, non ci riesci? Cos’è, non sei normale? Cos’è, non ti tira da sempre? Tutto in questo posto mi chiava, e te invece? -
Il caimano sul soffitto sposta solo una zampa e ritorna immobile.
Fra le mani la polvere mi mette la fotografia di un muro, un muro colorato di urina malaticcia, un fegato sofferente, un muro tormentato di graffiti, cicatrici vive e pulsanti. Insulti su insulti, date e nomi, gocce di colore, di sfida e rabbia. Dichiarazioni di guerra, maledizioni, stregonerie. Lapidi.
E una fessura profonda scavata da un coltello. Dalla fessura all’interno di una bocca di pietra, aperta nera e profonda. Tre scalini nel parco dei mostri per immergersi anima e corpo nell’ignoto.
Che scherzo osceno, la fotografia m’ingoia e il salotto non c’è più, è scomparsa la luce del giardino, è scomparso il televisore, le mie gambe e la pancia. Non vedo più ma sento qualcosa muovere. E’ il sangue che scorre, è un altro me che mi vuole per forza accompagnare, è lo smarrimento che sfrega le sue zampe e fa rumore.
Sono caduto in una trappola.
Nella gola buia si mettono a svolazzare veloci e invisibili su di me sciami di voci pipistrello.
Lì dentro non vedo, giro su me stesso, tendo le braccia in avanti. Sono prigioniero di una fotografia.
Non vedo ma sento di più, fra le voci di pipistrello, ammesso che siano veramente loro, mi sembra di distinguere altro. Una voce bionda che ne racchiude un’altra ancora. Parlano sovrapposte, ridacchiano.. Ma una vuole uscire dall’altra, nascere, dal buio volare via. Vogliono sapere da me come mai l’animale di stoffa che sta sopra la mia testa si muove. Il caimano che m’ha seguito nel buio. I miei figli mi avvertono.
Mi prendono per mano, restiamo al buio così.
Faccio, azzardo un passo indietro, c’è uno scalino dietro di me, il nero del divano nero, una voce mi augura il buon giorno. La voce del televisore deve essere capace di certe magie
Sì, lì sono sempre, in mutande e svuotato, demotivato e colmo di fotografie sulla pancia, ma in più il buio, quel buio m’ha regalato delle orecchie bioniche. La televisione sta trasmettendo ancora e sempre una guerra a un passo da me, le mie orecchie percepiscono il tono artificialmente concitato, qualche scoppio di bomba ben selezionato, due o tre sospiri di profughi che scappano, e ricordi, e stermini e intenzioni. Promesse di vendette, colpi di tosse invece rassegnati, un rumore di vento carico di mostruosità, una coltellata ben assestata e a freddo. Guardo fisso il televisore, non vedo la guerra, ma la sento.
E adesso rido. Rido più forte come se fossi indemoniato Il dolore, del sangue il sublime sapore, la colonna sonora che evapora da quel friggere di immagini confuse davanti a me.

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